FABRIZIO DELLA SETA – SULL’ULTIMO LIBRO DI MARCO GRONDONA
[Pubblichiamo oggi con piacere un intervento che Fabrizio Della Seta ha tenuto circa un mese fa nell’ambito di una serata in ricordo dello studioso Marco Grondona, amato docente di Storia della musica all’Università di Pisa che ci ha lasciati nel 2019. Attraverso la presentazione dell’ultimo libro di Grondona, Della Seta ne rievoca affettuosamente la personalità intellettuale, alcuni tratti felicemente atipici della sua figura di studioso e da ultimo, l’importanza dell’incontro tra Grondona e Orlando, reso fertile dalla comune ricchezza di interessi, convergenti in particolare attorno all’opera di Wagner, ma non solo. (m.r.)]
Marco Grondona, Tutti pazzi per Marx! Una sera con Francesco Orlando, prefazione di Giacomo Magrini, San Giuliano Terme, Djinn, 2019
Presentazione di Fabrizio Della Seta
Pisa, Palazzo Blu, 6 ottobre 2022
Quello di cui parliamo stasera è un libro molto personale. Non solo nel senso ovvio che esprime la personalità scientifica dell’autore, ma perché coinvolge aspetti della sua vita. Insomma, è un libro che, presentando le idee di uno studioso su argomenti di cultura e di musica di cui era competente, è anche una sorta di autobiografia intellettuale. Non saprei dire quanto Marco fosse consapevole del fatto che questo sarebbe stato il suo ultimo libro, ma a posteriori non posso fare a meno di leggerlo da questa prospettiva. Ciò spiega perché quanto ne dirò avrà un carattere personale anche in riferimento a me stesso; me ne scuso in anticipo sperando che le conclusioni a cui arriverò siano d’interesse generale.
Benché non possa dire di essere stato tra i suoi amici intimi, la mia conoscenza con Marco risale a molto tempo fa, a uno dei mitici convegni operistici organizzati dalla Fondazione Giorgio Cini alla fine degli anni Ottanta. Da allora ci siamo incontrati in varie occasioni, ma soprattutto siamo spesso stati in contatto per iscritto e per telefono e ci siamo scambiati i nostri lavori, pubblicati e a volte in fieri. Non sempre le nostre idee erano sulla stessa lunghezza d’onda e non mancavamo di farcelo presente con la franchezza che ci era consentita fra quasi coetanei. Chi lo ha conosciuto può immaginare la vivacità – è un eufemismo – con cui Marco era capace di difendere le proprie, di idee. Ma questo non mise mai in discussione la stima reciproca, umana oltre che scientifica. Credo di poter dire che lui apprezzasse proprio la mia franchezza, mentre da parte mia posso dire che me lo rendeva simpatico il fondo di insoddisfazione che nascondeva sotto la sua vis polemica. Posso sbagliarmi, ma in lui ho sempre avvertito il dispiacere di sentirsi in qualche modo disconosciuto dalla sua comunità di origine, quella degli antichisti, e di non essere riconosciuto a pieno titolo da quella dei musicologi, presso cui si era trasferito. Capita a chi ha interessi e vedute molto ampi, che non soddisfano i cosiddetti requisiti di scientificità che il rito accademico esige.
È probabilmente per questo motivo che Marco si scelse come secondo maestro ideale una figura di confine come Francesco Orlando – senza con ciò ripudiare il primo e ufficiale, Antonio La Penna. E qui entra in gioco un altro aspetto che riguarda anche me. Non sono stato allievo di Orlando. L’ho conosciuto di persona, tramite un suo allievo e mio amico, pochi anni prima che ci lasciasse, in una bella e lunga serata cremonese; seguirono l’invio a lui di alcuni miei lavori e un breve scambio epistolare, che conservo tra i miei ricordi più preziosi. Come spesso accade, il fascino che promanava dalla persona e dalla conversazione non fece che accrescere l’ammirazione che già avevo per i suoi scritti, sia quelli di teoria letteraria sia quelli musicali.
Del rapporto tra Grondona e Orlando sapevo poco, ma leggendo il libro credo di averne colto il senso: quello della ricerca di un ‘padre’ con cui confrontarsi, in cui cercare conferme di sé stesso con tutto ciò che tali confronti significano anche in termini di conflittualità. Per questo non ho potuto far a meno di ricordarmi di un libro a me carissimo, un libro assai diverso da quello di Marco per contenuti e stile letterario – anche per la distanza di due generazioni che separa gli autori – ma che muove dallo stesso bisogno di confronto e autochiarificazione: si tratta dei Pretesti della memoria per un maestro di Gustavo Vinay;[1] anch’esso una sorta di atto di autocoscienza scatenato dalla scomparsa recente di un ‘padre’ intellettuale, in quel caso il grande storico medievale Giorgio Falco. Chi conosce quel libro capirà di cosa sto parlando.
In Tutti pazzi per Marx! Orlando compare in poche pagine, perlopiù all’inizio. Come ho sentito raccontare da chi lo frequentava, e come conferma la bella prefazione di Giacomo Magrini, egli amava invitare giovani ‘svegli’, da soli o in piccoli gruppi, a serate in cui spandeva la sua intelligenza intrattenendoli sugli argomenti che lo appassionavano, specialmente musicali. E da una di tali serate prende le mosse il racconto del libro. Sembra un pretesto narrativo giacché, come ho detto, Orlando scompare presto dall’orizzonte per riapparivi saltuariamente, ma è un’apparenza: la sua presenza incombe, ogni pagina sottintende la domanda «cosa ne direbbe lui»?
V’è un altro protagonista che appare e scompare in continuazione. Non tanto il Marx del titolo quanto Wagner, esso sì onnipresente. Ecco un altro elemento d’incontro biografico. Wagner era la grande passione musicale di Orlando; i suoi scritti su di lui, ora felicemente raccolti in volume,[2] non sono divagazioni amatoriali di uno specialista di altre specialità ma contributi musicologici a pieno titolo, e di prim’ordine. In realtà io ho conosciuto Orlando prima da questi scritti che da quelli letterari, che lessi più tardi. E Wagner era certamente tra i punti fermi della passione musicale e musicologica di Marco. Ma sull’importanza di Wagner nel racconto tornerò alla fine del mio discorso.
Veniamo dunque al libro. In esso ritrovo tematiche che mi sono familiari dagli scritti precedenti di Grondona, depurati dalla vena polemica che li caratterizzava forse proprio per la sua natura di bilancio retrospettivo. Non è un libro ‘scientifico’ in senso accademico, ma neppure una divagazione letteraria. Benché lo stile dell’autore sia molto riconoscibile, allinea ragionamenti sulla materia musicale strettamente aderenti ai dati testuali e ancorati ad assidue letture specialistiche debitamente dichiarate in nota. Tuttavia la lettura non ne è facile per il modo con cui tali ragionamenti si concatenano e si snodano sull’arco dell’intero lavoro. Il percorso del libro è dunque difficile da illustrare; ci proverò, anche con citazioni dirette, scavalcando i confini dei brevi capitoli in cui è diviso.
Il racconto inizia col ricordo di un tardo pomeriggio a casa di Orlando, con vista sul Lungarno – un particolare importante -, e l’occasione del ricordo è la recente lettura delle lezioni postume sul soprannaturale. Un pomeriggio in cui «finimmo col parlare di Wagner»; da qui si risale a una conferenza sul Fidelio, al termine della quale Marco spiegò a Orlando che la rappresentazione del demoniaco in quell’opera è realizzata violando le regole di condotta di una «buona melodia» secondo Hindemith. E da qui, ancora risalendo la corrente della memoria, al primo incontro del 1965 tra lo studente di La Penna e il giovanissimo docente propugnatore della novità del momento, lo strutturalismo, di cui La Penna invece diffidava.
Si torna a Wagner e alla rappresentazione della fucina nibelungica, assimilata già da G.B. Shaw all’officina capitalistica come la descrivono Marx e Engels, un’interpretazione che è alla base delle allora rivoluzionarie interpretazioni del Ring di Ronconi (1974) e di Chéreau (1976). Ma l’apocalissi finale del Ring suggerisce l’analogia con quella che conclude il capolavoro di Antonioni del 1970, Zabriskie Point, accompagnata dalla «ricerca raffinata dei Pink Floyd», dagli «sperimentalismi variati del bravissimo Jerry Garcia» e dalla «tenerezza domestica di Roy Orbison».
Di colpo si passa a un’altra passione di Marco (meno di Orlando), Puccini. A fare da legame con Wagner è la Senna (e l’Arno è sempre sullo sfondo), la cui rappresentazione musicale all’inizio del Tabarro appare come un’eco di quella del Reno all’inizio del Rheingold (io l’avrei collegata piuttosto a quella del terz’atto della Götterdämmerung, ma siamo nella sfera quanto mai soggettiva delle associazioni d’idee). Il Tabarro è l’opera del lucchese più impregnata di tematiche sociali, come mostra l’interesse di Puccini per Gor´kij, non senza un confronto con Pascoli. Ma la rivoluzionaria prescrizione di alzare il velario prima dell’inizio della musica avvia una riflessione sull’uso drammaturgico di questo strumento, chiamando in causa il teorico Georges Banu, Giancarlo Menotti, Carmelo Bene, il terzo atto della Traviata, Walter Felsenstein, Willy Decker, Walter Benjamin, per finire con l’allestimento del Flauto magico del 2018, di Graham Vick allo Sferisterio di Macerata, laddove «l’umile Chienti prende la tinta bruna del Reno e della Senna».
Si riparte da Marx e Shaw, da Ronconi e Chéreau, per discutere a lungo dell’interpretazione wagneriana di Adorno – un pensatore che Orlando non amava e, secondo Marco, non capiva – per tornare all’autore del Manifesto e del Capitale. A questo punto un détour – è Marco a definirlo tale – ci porta a considerare la struttura architettonica del Festspielhaus di Bayreuth, alla funzione del «golfo mistico» di «mettere la sordina» all’orchestra. Di qui il passo è breve all’arte della strumentazione di Wagner, anche sulla scorta del Trattato di Berlioz nella revisione che ne fece Richard Strauss; arte riconosciuta a denti stretti da Nietzsche ed esaltata dall’interpretazione di Karajan, che Orlando venerava e su cui Marco non nasconde di avere qualche riserva per il suo puntare più al bel suono discografico che alla verità della performance dal vivo. Il ricordo della musica funebre per Siegfried evoca l’uso che nel 1979 fece Carmelo Bene in una lettura radiofonica del Cuore di De Amicis:
Il primo episodio del romanzo prende un rilievo immenso e probabilmente tutto consiste nell’ancorarlo – a sprezzo degli imbecilli che ancor oggi risolvono con futili sarcasmi il suo contenuto – ad una realtà storica e sociale che sfiora il tema del nostro dialogo ed assimila il paletot del signor Bottini, padre del protagonista narratore Enrico, alla redingote di Wotan nell’ormai classica regia di Chéreau.
D’altronde Bene capiva meglio di chiunque altro le esigenze del teatro d’opera, tanto da reputare inutile per questo l’intervento del regista, come confermò nei fatti un’esecuzione in forma di concerto del Macbeth verdiano diretta da Muti alla Pergola nel 2018. È vero che il teatro, tutto, è prima di tutto gestualità visibile, come teorizzato da Orazio (segnius irritant animos demissa per aurem / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus) e confermato, tra gli altri, da Artaud, da Ronconi, da Alessandro Pepoli, da Brecht; ma Wagner dimostrò che l’orchestra può e deve esprimere «quel che del gesto è indicibile nel linguaggio delle parole».
Siamo nel cuore della disputa sul primato, nell’arte teatrale, del logos ovvero dell’immagine, una disputa che affonda le sue radici in Aristotele e che viene evocata nei nomi di Pirandello e Marlowe, Artaud e Shakespeare, ancora Bene interprete di Macbeth, ancora Muti interprete dell’opera omonima, per finire con Hans Werner Henze e, di nuovo, Adorno.
A questo punto torniamo al Cuore interpretato da Bene. Una approfondita lettura del primo capitolo del libro ne dimostra, a dispetto di Giorgio Pasquali, la profonda affinità con la melodramatic imagination di cui Bene fu interprete geniale, e soprattutto col mondo wagneriano; da che discende la giustezza della scelta sonora di Bene, supportata da osservazioni di Ernst Bloch, Adorno, Benjamin e Hofmannsthal.
Il discorso si avvia alla conclusione, anzi alla «cadenza», riprendendo un’osservazione già anticipata sulla fine/non fine del Crepuscolo degli dèi, d’altronde definita da Wagner, in una conversazione serale con Cosima, come caratteristica di tutta la musica: l’ultimo accordo dei fiati si prolunga all’infinito oltre la cadenza, un effetto che Muti, con felice intuizione antifilologica, volle riprodurre alla fine del coro degli Ebrei nel Nabucco. È vero che sulle ultime pagine del Crepuscolo gravano sospetti di sentimentalismo quasi italiano, condensato nella figura ornamentale del tema dell’amore di Brünnhilde (tecnicamente un gruppetto), ma Marco è pronto a dimostrare per exempla che quella figura appartiene da sempre allo stile wagneriano, avendo alle spalle una tradizione che comprende anche Gluck, Haydn, Beethoven (quest’ultimo misinterpretato da Toscanini), Liszt trascrittore di Mozart e Carl Philip Emmanuel Bach, e che continua col Mahler della Nona, non senza un accenno all’avanguardista Giacinto Scelsi. Finché nell’ultima pagina, come nella coda di un movimento sinfonico, si riaffacciano in una rapida carrellata Antonioni e i suoi musicisti, per sfumare nell’immagine serale del Lungarno, «al fresco della notte» che «accoglie … la mia Tommasini [la sua amata fisarmonica]: ‘Dawn comes up so young, dreams begin so young’», vale a dire la canzone di Roy Orbison che – a quanto pare contro il volere di Antonioni – chiude Zabriskie Point.
Chi di voi, al termine di questo tour de force, si senta un po’ disorientato non ha tutti i torti: lo sono anch’io. Ciò che volevo illustrare non erano tanto gli argomenti affrontati quanto il modo stesso di presentarli che, nell’apparente caoticità, è invece regolato da una logica precisa, per la quale è necessario richiamare ancora una volta il nome di Wagner. Posso mettervi sulla strada invitandovi a considerare i nomi e i titoli che affiorano e ricorrono come Leitmotive. Nulla di nuovo: è noto l’influsso che la tecnica wagneriana del Leitmotiv ha avuto sulla narrativa del Novecento, basti pensare a Thomas Mann. Ma direi che c’è qualcosa di più.
Nel più antico dei suoi contributi wagneriani, intitolato Proposte per una semantica del ‘Leitmotiv’ nell’‘Anello del Nibelungo’,[3] Orlando fornì un contributo decisivo su questa tecnica più citata che davvero compresa. Piuttosto che come un mosaico che allinea l’una dopo l’altra tessere prefabbricate (i ‘biglietti da visita’ dei personaggi su cui ironizzava Debussy), il discorso sinfonico wagneriano è un «tessuto di motivi» (l’espressione è di Wagner stesso) in divenire, un processo continuo in cui cellule minime si trasformano, si uniscono e si dividono, si combinano in maniera sempre nuova e diversa.
Da una parte, si arriva in breve alla supposizione giustificata che non esista due volte, nelle quattro partiture dell’Anello, uno stesso Leitmotiv ripetuto in modo perfettamente identico. Non soltanto la tal presunta unità deve fare i conti con cambiamenti di ritmo, di tonalità, di armonia, di disegno melodico, di strumentazione, di intensità ecc., che finiscono col disgregarla in una moltitudine di varianti tra le quali molte hanno cessato di somigliarsi. Ma, per di più, si ha a che fare con un gioco di giustapposizioni e sovrapposizioni di unità o frammenti di unità presunte, che turba definitivamente ogni limite netto. Il concetto stesso di Leitmotiv sembra allora minacciato da una specie di oltranza del ‘discreto’: sarebbe necessario che le distinzioni giungessero fino all’individuum ineffabile, o almeno incomparabile; non si avrebbe più altro di consistente che il segmento singolo nella sua forma data.
D’altra parte, […] le trasformazioni non giocano soltanto all’interno dello spazio delimitato dall’ipotesi d’una unità […] ma anche nello spazio fra due o più unità ipotetiche. A tal punto che non sarebbe del tutto assurdo immaginare che si possa, partendo dalla prima che capita di queste unità e tenendo conto di ogni specie di somiglianze, fare il giro completo del materiale musicale dell’Anello, di caso prossimo in caso prossimo, e andare a parare se si vuole nel punto di partenza. A sua volta, una vera e propria oltranza del ‘continuo’ viene a minacciare il concetto di Leitmotiv: tutto ciò che le unità perderebbero in consistenza autonoma, è l’unità del tutto che lo guadagnerebbe; si finirebbe col concepire il discorso musicale dell’Anello come se non articolasse che un tema unico dalle trasformazioni innumerevoli.[4]
La logica che governa ricorsi e combinazioni delle unità motiviche non è di tipo deduttivo, come nella tecnica beethoveniana di derivazione tematica, cui pure Wagner dichiara di ispirarsi. Piuttosto che sull’identità e sull’esclusione, sulla linearità temporale e sulla connessione causale essa si basa sulla somiglianza, sull’inclusione reciproca degli opposti, sulla ciclicità, sull’associazione analogica, è insomma la logica del discorso mitico – com’è ovvio per Wagner – ma è anche la logica dell’inconscio secondo Freud nell’interpretazione che ne diede Ignacio Matte Blanco, di cui non ho bisogno di ricordare l’importanza per lo sviluppo del pensiero di Orlando: ogni oggetto psichico è anche il suo contrario. È tramite questa logica che è possibile leggere Wagner alla luce di Marx:
questa musica, in cui tutto è solidale con tutto, è davvero la musica di un mondo in cui il capitalismo e la tecnica hanno reso tutto solidale con tutto: quel mondo moderno in odio al quale non ci si può accontentare di evocare nulla di meno che preistoria, natura e mito. In più, nella virtù di accostare e di opporre qualunque cosa […] la musica dell’Anello trova quello che mi piacerebbe chiamare il suo momento di verità. A forza di convertire somiglianze in opposizioni, opposizioni in somiglianze, essa giunge a oltrepassare e a smentire, più spesso di quanto non faccia il verbo, le mistificazioni dell’ideologia [intende: quella cosciente di Wagner].[5]
Questi pensieri non potevano far a meno di tornarmi in mente leggendo il libro di Marco, ed è chiaro perché li ho ricordati ora. Il tessuto mnestico del racconto, quale l’ho sommariamente ripercorso, ha una profonda omologia strutturale con la logica del Leitmotiv come descritta da Orlando. Per fare l’esempio più lampante: Arno, Reno, Senna, Chienti sono chiaramente un unico fiume che di volta in volta assume aspetti diversi.
È vero che Marco non fa mai allusione a questo fondamentale aspetto del pensiero del maestro, ma è certo che lo avesse assorbito profondamente. E mi domando se abbia fatto in tempo a conoscere un libro assai più recente che affronta tematiche simili da un punto di vista completamente diverso, quello delle neuroscienze: si tratta di Superfici ed essenze di Douglas Hofstadter ed Emmanuel Sander.[6]
Torno ancora alla sfera personale da cui sono partito. Qualche anno fa, per un seminario dottorale su ‘musica e mito’, consigliai a un allora bravissimo dottorando che voleva occuparsi di Wagner di leggere il saggio di Orlando nonché il volume di Hofstadter e Sander. Ne venne fuori un’assai interessante relazione. Con mia grande sorpresa e compiacimento, l’anno scorso la ritrovai ampliata in un magnifico saggio contenuto in un volume che allievi affezionati hanno voluto dedicarmi in occasione del mio congedo accademico.[7] In esso il dottorando ormai divenuto studioso autonomo illustra con analisi dettagliate la combinatoria analogica per mezzo della quale Wagner converte “somiglianze in opposizioni, opposizioni in somiglianze” nella transizione che porta dalla prima alla seconda scena del Rheingold.
Ho ricordato questo episodio non solo per l’evidente attinenza dell’argomento a quanto ho detto, ma perché tocca un tema che mi sta molto a cuore, esemplare di quello che secondo me è il senso profondo del libro di Marco: il dialogo tra maestro e allievo come motore della trasmissione del sapere. Come ho detto prima, tale rapporto non è mai facile, essendo spesso velato da timidezze e incomprensioni, da senso di soggezione e desiderio di ‘uccidere il padre’, o semplicemente da fretta, dalla paura di perdere un tempo che rimpiangeremo quando non potremo più recuperarlo. Alla fine, ne sono convinto, il vero dialogo coi maestri, vivi e morti, è quello che instauriamo coi loro libri.
Lo stesso, cambiato quel che v’è da cambiare, può forse dirsi del rapporto tra amici, tra condiscepoli anche ideali di cotanti maestri. E questa è la conclusione che posso trarre: leggere Tutti pazzi per Marx! è stata per me l’occasione per un colloquio con Marco che abbiamo avviato tante volte ma che non abbiamo mai avuto tempo e modo di svolgere compiutamente, come avremmo dovuto.
Note
[1] Gustavo Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, Milano-Napoli, Ricciardi 1967; nuova ed.: Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo 1993.
[2] Francesco Orlando, Su Wagner e altri scritti di teatro musicale, a cura di Francesco Fiorentino e Luca Zoppelli, con una postfazione di Luciano Pellegrini, Pisa, Pacini 2020.
[3] Pubblicato inizialmente in «Nuova rivista musicale italiana», 9/2, aprile-giugno 1975, pp. 230-247; ora in Orlando, Su Wagner cit., pp. 25-47.
[4] Orlando, Su Wagner cit., pp. 28-29.
[5] Orlando, Su Wagner cit., pp.
[6] Douglas Hofstadter, Emmanuel Sander, Surfaces and essences: Analogy as the fuel and fire of thinking, [New York], Basic Books 2013; trad. it. di Francesco Bianchini e Maurizio Codogno, Superfici ed essenze. L’analogia come cuore pulsante del pensiero, Torino, Codice 2015.
[7] Francesco Fontanelli, Superfici ed essenze nell’‘Oro del Reno’. La ‘Verwandlungsmusik’ come teatro delle analogie, in Tra ragione e pazzia. Saggi di esegesi, storiografia e drammaturgia musicale in onore di Fabrizio Della Seta, a cura di Federica Rovelli, Claudio Vellutini e Cecilia Panti, Pisa, ETS 2021, pp. 135-163.
novembre 9, 2022 Letture di testo, Recensioni 0 Leggi tutto >