LAURA LUCHE – DEL DESIDERIO E ALTRE DIVINITÀ, LA FIESTA DEL CHIVO DI MARIO VARGAS LLOSA.
[Per ricordare René Girard, scomparso lo scorso 4 Novembre, pubblichiamo un articolo di Laura Luche – originariamente comparso in Domenico Antonio Cusato y Antonio Melis (a cura di), Las páginas se unieron como plumas. Homenaje a Hernán Loyola, Messina, Andrea Lippolis Editore, pp. 185-208 – che propone un’originale applicazione in chiave politica della nota teoria del desiderio mimetico, analizzando le dinamiche del potere rappresentate da Mario Vargas Llosa nel romanzo La festa del caprone (2000). Laura Luche è Professore Associato di Lingua e Letterature Ispano-americane presso l’Università di Sassari. Si occupa principalmente della narrativa del Novecento, è autrice, tra gli altri, di una monografia e di vari saggi su Mario Vargas Llosa e di articoli su Alejo Carpentier, García Márquez, Pablo Armando Fernández e Roberto Bolaño. Negli ultimi tempi si è occupata in particolare dell’analisi di alcuni temi ricorrenti nelle letterature ispano-americane quali quello delle “idee fuori luogo” delle teorizzate da Roberto Schwarz, del tema del cosiddetto “passato che non passa” e del tema degli “sforzi inutili”]
I
Dopo quasi trent’anni anni dalla pubblicazione di Conversación en La Catedral (1969), ambientato negli anni del governo autoritario del generale Odría (1948-1956), Mario Vargas Llosa con La Fiesta del Chivo[1] torna al tema della dittatura affrontandolo da una nuova prospettiva. Una differenza fondamentale distingue le due opere: in Conversación… il tiranno appare una sola volta e il regime è rappresentato attraverso le sue ripercussioni nella società e negli individui e in particolare negli strati più bassi della popolazione, sui quali maggiormente si sofferma la narrazione. Nella Fiesta del Chivo, al contrario, il popolo quasi non compare, mentre il dittatore è uno dei protagonisti principali, il nucleo intorno al quale proliferano molte storie, per lo più ambientate fra le alte sfere del regime. Il romanzo è incentrato sulla figura di Rafael Leonidas Trujillo Molina, detto il Chivo, il Caprone, per le sue prodezze sessuali, uno dei più efferati dittatori della storia dell’ America Latina, assassinato il 30 maggio 1961 da un gruppo di uomini di sua fiducia appoggiati dalla Cia.
Secondo una pratica abituale dello scrittore peruviano, i trentun anni della cosiddetta «Era Trujillo» vengono ricostruiti attraverso il montaggio di tre linee narrative che si alternano nel corso dei ventiquattro capitoli di cui si compone il romanzo. La prima è dedicata a Urania, figlia del senatore Augustín Cabral, trujiillista viscerale caduto in disgrazia qualche mese prima del crollo del regime e nei confronti del quale Urania manifesta un odio le cui ragioni si svelano solo nelle pagine conclusive: per riconquistare la benevolenza del despota, il senatore gli aveva offerto la verginità della propria figlia. Nel presente della narrazione Urania torna nella Repubblica Dominicana, dopo trentacinque anni di esilio volontario negli Stati Uniti e di silenzio totale con la famiglia, per fare i conti col proprio passato e con l’episodio che ha distrutto la sua vita rendendola una donna incapace di amare, totalmente dedita al lavoro e a un unico, «perverso» passatempo, leggere tutto il possibile sull’Era, nel tentativo di comprendere le ragioni profonde del gesto del padre, ormai ridotto a un vegetale su una sedia a rotelle. Rompendo la censura che si è imposta come meccanismo di difesa, nel suo lungo monologo col senatore e nel successivo dialogo con la zia e le cugine, Urania rievoca la propria storia e nel contempo ricostruisce tre decenni di soprusi e vessazioni sofferti dal popolo dominicano.
Nella seconda linea narrativa il racconto retrocede al 1961 per narrare l’ultimo giorno della vita del dittatore dalla sua prospettiva: dal risveglio funestato da oscuri presentimenti all’imboscata mortale che lo sorprende mentre si reca a un incontro notturno con una ragazzina, «una fichetta fresca per restituire la gioventù a un veterano con settanta primavere» (fc 342).[2] Attraverso i ricordi di Trujillo e degli altri protagonisti viene ricostruita la storia della sua ascesa: l’aborrita discendenza dai neri di Haiti, quotidianamente celata sotto nubi di talco; l’infanzia di privazioni e i modesti lavori giovanili; l’arruolamento nel corpo di polizia creato dalle forze di occupazione statunitensi, in cui Trujillo si distinse per disciplina diventandone il comandante e, infine, le prime fraudolente elezioni grazie alla quali ottenne la carica di Presidente della Repubblica, che segnano l’inizio del crescendo del suo potere. Venerato dal popolo che vede in lui l’uomo che con pugno di ferro ha posto fine agli annosi conflitti interni, alla presenza haitiana e al dominio degli Stati Uniti, col tempo Trujillo riesce ad accentrare su di sé tutti i poteri e a diventare signore e padrone incontrastato della vita di tre milioni di dominicani.
Dalla rievocazione del passato emerge la figura di uno spietato trionfatore, di un essere sovraumano che secondo la mitologia popolare è instancabile, non suda mai e ha uno sguardo «al quale nessuno poteva resistere senza abbassare gli occhi, intimidito, annullato dalla forza che promanava da quelle pupille taglienti» (fc 227).[3] La cronaca del crepuscolo del despota, invece, mostra un uomo spesso malinconico, impegnato nelle più dure battaglie della sua vita: quella pubblica contro gli Stati Uniti e la Chiesa — per i quali, dopo anni di appoggio incondizionato è diventato uno scomodo ostacolo da eliminare a causa della sua crudeltà e dei suoi arbitri –, e quella privata contro l’avanzare dell’età e della decadenza fisica. Il romanzo presenta il dittatore ghermito da un tumore alla prostata che, provocandogli incontinenza e impotenza, mina la sua virilità e la sua impeccabilità esteriore. Il Trujillo della Fiesta del Chivo non è dunque semplicemente l’essere superiore che riconoscono in lui i suoi sostenitori né il demonio che vedono i suoi oppositori, è un essere umano che arriva a estremi di crudeltà inaudita perché ha accumulato un potere inaudito che lo pone al di sopra della legge e della morale.
In questa seconda linea narrativa al ritratto del dittatore si somma quello della sua corte, ovvero quello della famiglia amata e disprezzata e quello dei suoi più stretti collaboratori: Johnny Abbes García, il capo dei servizi segreti militari, autore dei lavori sordidi del regime e gli intellettuali aulici, il senatore Cabral ed Henry Chirinos — ambedue personaggi fittizi — e il letterato e giurista Joaquín Balaguer, figura di primaria importanza nella storia della Repubblica Dominicana. I tre intellettuali sono gli autori dell’apparato ideologico della dittatura e i grandi promotori del consenso, incaricati di celare con le loro doti retoriche e la loro cultura la macchina del terrore messa in piedi dal regime. Nel loro discorso Trujillo appare come il «Salvatore della Patria», come il «grande statista, la cui intelligenza, la cui volontà e la cui capacità di lavoro avevano fatto della Repubblica Dominicana un grande paese» (fc 35).[4] La figura di maggior rilievo è quella di Joaquín Balaguer, scelto da Trujillo nell’ultimo anno del regime come Presidente della Repubblica formale, e autore del testo più significativo fra i molti scritti per magnificare il Generalissimo, «Dios y Trujillo: una interpretación realista», con cui nel 1954 sancisce la natura messianica di Trujillo sostenendo che per più di quattrocento anni la Repubblica Dominicana era sopravvissuta a numerose avversità grazie all’opera divina, ma che dal 1930 «Rafael Leonidas Trujillo Molina aveva dato il cambio a Dio in tale improba missione» (fc 260).[5] Cabral, Chirinos e Balaguer sono nel romanzo i principali rappresentanti di un nutrito gruppo di cortigiani dediti anima e corpo al dittatore.
La terza linea narrativa, dedicata al complotto, è quella in cui appare con maggiore evidenza il dominio assoluto del tiranno, in grado di condizionare non solo le azioni dei dominicani ma anche il loro spirito, neutralizzandone la volontà e privandoli del libero arbitrio. È questa la ragione che, al di là dei rancori personali di ciascuno, induce i cospiratori a partecipare al tirannicidio, come emerge dalle considerazioni di uno di loro, Antonio Imbert: «il Chivo aveva privato gli uomini dell’attributo sacro che Dio aveva concesso loro: il libero arbitrio […]. Forse per questo aveva deciso che Trujillo doveva morire» (fc 165-166).[6] Ma la colonizzazione dello spirito e della volontà è anche la causa che determina il fallimento del colpo di stato che avrebbe dovuto ristabilire la democrazia. La morte del dittatore non è sufficiente ad affrancarli dal giogo trentennale, così il Generale José René Román, il comandante supremo dell’esercito, davanti al cadavere del despota, invece di mobilitare le Forze Armate e di far arrestare i trujillisti come convenuto, fa l’esatto contrario perché si sente ancora succube del Capo: «Immerso in quella specie di ipnosi pensò che la sua indolenza fosse dovuta al fatto che, sebbene il corpo del Capo fosse morto, la sua anima, il suo spirito o come altro si chiamava continuasse a tenerlo schiavo» (fc 369).[7]
Il tirannicidio ha luogo nel dodicesimo capitolo che, sebbene non esplicitamente, divide il romanzo in due parti. Nei restanti dodici capitoli la prospettiva dei tre assi narrativi si modifica: il racconto di Urania si sposta dalla casa paterna a quella della zia; la storia dei congiurati che attendono per ore il passaggio della macchina del despota è sostituita dalla cronaca della vendetta orchestrata dal figlio Ramfis; la linea della dittatura vista dalla prospettiva di Trujillo, infine, cede gradatamente il posto alla narrazione degli eventi che seguirono alla sua morte. Qui, come accadde storicamente, gioca un ruolo di primo piano Joaquín Balaguer, che riesce a prendere in mano le redini del paese e a guidarlo verso la democrazia, primo passo di una lunghissima carriera politica. Il romanzo, infatti, mostra gli inizi dell’ascesa dell’uomo che sarà eletto Presidente per ben sei volte e guiderà le sorti della Repubblica per ventiquattro anni dimostrando un attaccamento al potere pari o superiore a quello dello stesso Trujillo.
Il potere è uno dei principali centri di interesse del romanzo che si addentra nei suoi meandri per renderne visibili i meccanismi che lo rendono possibile e fra i quali figurano la coercizione fisica; la cooptazione, garantita da un vischioso sistema di corruzione, di favori e di crimini «cui tutti i dominicani prima o poi avrebbero dovuto partecipare come complici» (fc 165);[8] e soprattutto la coercizione ideologica esercitata sulla mente dei dominicani attraverso una propaganda martellante che riproduce il discorso elaborato dai chierici del regime, la «gigantesca menzogna» di un paese «che sotto la severa ma ispirata conduzione di uno statista fuori dal comune progrediva a marce forzate» (fc 162).[9]
Malgrado la sottile analisi degli aspetti pubblici e privati del potere dittatoriale, La Fiesta del Chivo sembra lasciare aperti due interrogativi. Il primo riguarda la natura del legame fra Trujillo e i suoi cortigiani, ovvero coloro che con lui occupano il centro da cui il potere si esercita, coloro che, come i tre intellettuali ricordati, hanno contribuito a creare il mito dell’unto del signore e a legittimare il regime. Proprio per questo sanno che dietro la cortina fumogena della loro retorica si cela «un tetro spettacolo» di persone distrutte, maltrattate e ingannate» (fc 162)[10] ma, nonostante ciò, professano al dittatore un amore servile e sono pronti a sottomettersi alle prove di fedeltà che questi infligge ai tutti i suoi collaboratori e che includono ogni tipo di umiliazione, fra cui quello di fornicare con le loro consorti. Su tale rapporto si interroga Urania, che in proposito pone al padre un quesito destinato a rimanere senza risposta:
- Com’era possibile papà? […] Che cosa vi faceva? Che cosa vi dava, per riuscire a trasformare don Froilán, Chirinos, Manuel Alfonso, te, tutti i suoi bracci destri e sinistri, in panni sporchi?
Non lo capisci, Urania. Ci sono molte cose dell’Era che sei arrivata a capire; alcune, dapprima, ti sembravano inestricabili, ma, a forza, di leggere, ascoltare, confrontare e pensare, sei arrivata a capire come mai tanti milioni di persone, martellate dalla propaganda, dalla mancanza di informazione, abbrutite dall’indottrinamento, dall’isolamento, spogliate del libero arbitrio, della volontà e persino della curiosità con la paura e con la pratica del servilismo e dell’ossequio, abbiano potuto divinizzare Trujillo. Non soltanto temerlo, ma amarlo […]. Ciò che non sei riuscita a capire è come mai i domenicani più preparati, le teste pensanti del paese, avvocati, medici, ingegneri […] sensibili, colti, con esperienza, letture, idee […] accettassero di essere vessati in modo tanto selvaggio (lo furono tutti prima o poi). (fc 60-61)[11]
Il secondo aspetto enigmatico del testo è costituito dalla figura di Joaquín Balaguer che da Presidente burattino, scelto da Trujillo per la sua umiltà e per la sua (presunta) mancanza di ambizioni, la notte stessa della morte del dittatore si trasforma d’improvviso nell’ambizioso burattinaio senza fili della vita politica del paese e, manovrando abilmente tutti coloro che potrebbero essergli d’ostacolo, riesce a smantellare il sistema politico familiare trujillista e a conquistare il potere col benestare degli Stati Uniti e della Chiesa. La sua personalità ha attirato l’attenzione di critici e lettori, fra i quali lo scrittore Edmundo Paz Soldan secondo il quale:
La novela es, en realidad, La fiesta de Balaguer, pues es este diminuto personaje quien se la roba: inescrutable y maquiavélico –maquiavélico por lo inescrutable– Balaguer pasa […] de ser un «presidente pelele» a ser un Jefe auténtico […]. ¿Cómo lo logra? Ni siquiera Vargas Llosa tan afecto a encontrar razones para todo –incluso la razón de la sinrazón–, está seguro de ello»[12]
Una possibile chiave di lettura dei due enigmi la offre la teoria della mediazione o del desiderio triangolare formulata da René Girard nel noto saggio Menzogna romantica e verità romanzesca.[13] A continuazione mi propongo di dimostrare che le leggi psicologiche del desiderio triangolare evidenziate dallo studioso francese pervadono gran parte dell’universo rappresentato nella Fiesta del Chivo e consentono di dare una risposta agli interrogativi sul comportamento degli intellettuali e sulla personalità di Balaguer
II
Per sintetizzare il complesso studio di Girard ai fini del presente lavoro si può ricordare che lo studioso, attraverso l’analisi di fenomeni sociali contemporanei quali la pubblicità e soprattutto attraverso la lettura delle opere di Cervantes, Stendhal, Proust e Dostoevskij, dimostra che, al contrario di quanto si crede, molti desideri non sorgono in modo spontaneo, secondo una linea retta che unisce soggetto desiderante e oggetto desiderato, ma nascono dall’imitazione del desiderio di un altro e si possono quindi rappresentare come un triangolo ai cui vertici vi sono il soggetto o «discepolo», il «mediatore» del desiderio o «modello» e l’oggetto o la persona desiderati. Don Chisciotte imita l’esistenza di Amadigi di Gaula, le sue azioni, i suoi sentimenti e i suoi desideri sono mediati dall’archetipo del cavaliere errante; a sua volta Don Chisciotte è mediatore di Sancio che da quando lo conosce sogna un’isola di cui diventare governatore; Emma Bovary desidera per tramite delle eroine romantiche; il giovane Marcel della Recherche desidera ciò che gli suggeriscono i genitori e lo scrittore Bergotte; l’eterno marito dostoevskijano riesce a desiderare la sua futura seconda moglie solo imitando il desiderio dell’amante della prima e, infine, il signor di Rênal, notabile di Verrières, desidera che Julien Sorel diventi il precettore dei propri figli perché è convinto che Valenod, l’altra personalità del luogo, intenda assumerlo. In altre parole, secondo Girard, nella gran parte dei casi gli oggetti del desiderio non hanno valore in sé, per le loro caratteristiche intrinseche, ma solo in quanto sono desiderati o posseduti da un altro a cui si riconosce un certo prestigio. Lo slancio verso l’oggetto, infatti, altro non è che «slancio verso il mediatore»[14] e ciò a cui realmente mira il desiderio del discepolo è l’ «essere del mediatore» di cui l’oggetto è un emblema o una «reliquia».[15] La connotazione religiosa del termine girardiano rinvia all’origine metafisica che lo studioso francese attribuisce al desiderio triangolare o metafisico, appunto. Le sue radici, afferma Girard, sono da ricercarsi nella «promessa di autonomia metafisica» annunciata dalle dottrine occidentali degli ultimi secoli, nel principio secondo il quale poiché Dio è morto spetta all’uomo prenderne il posto.[16] Più precisamente, il desiderio metafisico sorgerebbe dal contrasto fra la promessa di innalzamento divino dell’uomo e la realtà e dal senso di inadeguatezza che ne consegue. Il soggetto che nel proprio intimo scopre che la promessa è fallace si rivolge a un altro che, al contrario di lui, ai suoi occhi sembra godere del retaggio divino,[17] di quell’«aurea padronanza» a cui ambisce e di cui spera di carpire il segreto. Per questo Girard descrive il desiderio triangolare come una «trascendenza deviata verso l’umano»:[18] gli uomini, ormai incapaci di credere in Dio ma altrettanto incapaci di fare a meno del trascendente, cercano nell’altro una nuova divinità, lo venerano e a lui offrono sé stessi e quanto di più prezioso posseggono.[19]
Le origini metafisiche della mediazione, il senso di insufficienza o di ripugnanza che si prova nei confronti di sé stessi e la conseguente ricerca della superiorità divina nel prossimo, fanno sì che il mediatore venga spesso scelto in base a un «criterio negativo».[20] Indifferenza, rifiuto o persino disprezzo da parte del mediatore tendono a magnetizzare il desiderio perché vengono percepiti dal discepolo come indice di ciò che vorrebbe conquistare: «l’indifferente sembra possedere quell’aurea padronanza della quale noi tutti cerchiamo il segreto. Sembra vivere in un circuito chiuso, godendo del proprio essere, in una beatitudine che nulla può turbare. Egli è Dio»[21]. fra gli altri esempi di freddezza interpretata come divina autonomia viene ricordato lo Stavroghin dei Demoni che attira su di sé il desiderio di tutti i personaggi che «si spezzano contro il muro di ghiaccio della sua indifferenza»[22] e si trasformano in veri e propri «schiavi». Il termine, come precisa Girard e come emerge chiaramente dal suo studio, non è troppo forte, perché ciò che è in gioco nella mediazione è la libertà, sicché il binomio mediatore-discepolo finisce spesso per tradursi nel binomio padrone-schiavo.[23]
Girard distingue due tipi fondamentali di mediazione: «esterna» e «interna». Nella prima vi è fra discepolo e mediatore una distanza incolmabile che non è semplicemente di ordine spaziale o temporale, ma soprattutto spirituale, come quella che divide Sancio e Don Chisciotte che, pur essendo fisicamente vicini, sono separati da un divario sociale e intellettuale insuperabile. In questa modalità di mediazione il soggetto, come fa Don Chisciotte rispetto ad Amadigi, «venera apertamente il modello», ne riconosce la superiorità e si limita ad apprendere da lui solo quanto è significativo e desiderabile. Nella mediazione interna, invece, la distanza fra discepolo e modello si riduce sino a sparire del tutto in alcuni casi. La prossimità dà luogo a un rapporto di rivalità, infatti lo slancio del discepolo verso l’oggetto –che consapevolmente o inconsapevolmente rappresenta ai suoi occhi la cifra della superiorità del mediatore — è ostacolato dal mediatore stesso che presumibilmente desidera o possiede l’oggetto. Il mediatore interno riveste dunque il duplice ruolo di modello e di rivale, ma il discepolo percepisce solo quest’ultimo e da ciò l’atteggiamento di conflittualità.[24]La presenza del rivale fa anche sì che l’intensità del desiderio e quindi il prezzo che si è disposti a pagare per soddisfarlo aumentino considerevolmente. È quanto accade, per esempio, nelle trattative fra il signor di Rênal e il padre di Julien Sorel durante le quali Sorel padre dà a intendere al signor di Rênal che qualcuno è disposto a pagare un prezzo superiore al suo per assicurarsi i servigi del figlio. L’allusione convince definitivamente il notabile che il suo rivale Valenod voglia assumere Julien e la sua offerta aumenta.[25] Il valore concreto di Julien Sorel, com’è solito accadere nella mediazione, passa quindi in secondo piano, soppiantato da un valore che Girard definisce metafisico. La «trasfigurazione» o «metamorfosi»[26] dell’oggetto del desiderio «definisce l’unità di mediazione esterna e interna», perché in entrambi i casi il «prestigio del mediatore si comunica all’oggetto desiderato e gli conferisce un valore illusorio».[27] Don Chisciotte non scambierebbe una catinella per elmo di Mambrino se non imitasse Amadigi, allo stesso modo Emma Bovary non vedrebbe in Rodolphe il principe azzurro se non copiasse le eroine dei feuilletons. Tuttavia, sebbene comune ai due tipi di mediazione, la metamorfosi dell’oggetto è più spiccata nella mediazione interna: non appena il mediatore si avvicina al discepolo ed entra in gioco la rivalità, il valore metafisico dell’oggetto del desiderio aumenta vertiginosamente a discapito di quello fisico.
III
Come si è detto, le leggi psicologiche della mediazione isolate da Girard permettono di illuminare quelle che regolano gran parte dei rapporti nella Fiesta e di sciogliere i due enigmi proposti.
Alla luce delle teorie di Girard appare innanzitutto evidente che Trujillo si configura nel romanzo come il modello di coloro che lo circondano. Similmente al Re Sole, ricordato dallo studioso francese,[28] il mandato divino della sua missione, riconosciutogli dai sudditi e sancito da Balaguer nel discorso in cui lo descrive come uno «strumento dell’Essere Supremo», lo caratterizza come un mediatore esterno di tipo particolare, separato dai suoi discepoli da una distanza che impedisce qualunque tipo di rivalità. Nessuno desidera ciò che desidera il Generalissimo, al contrario, i dominicani, e in particolare i suoi collaboratori più stretti, gli offrono sé stessi e ogni loro bene e, come è proprio della mediazione esterna, lo venerano apertamente. Persino Johnny Abbes García, che suscita l’interesse di Trujillo per la sua freddezza glaciale,[29] gli dichiara la sua infinita devozione: «Non è che io l’ammiri, Eccellenza […]. Io vivo attraverso di lei. Per lei» (fc 80)[30]. Allo stesso modo, il senatore Cabral confessa che «da trent’anni viveva di lui e per lui» (fc 299)[31] e riconosce che, rimasto vedovo, aveva scelto di non risposarsi non per il bene di Urania ma «Per dedicare più tempo al Capo, consacrargli i giorni e le notti, dimostrargli che nulla e nessuno era più importante nella vita di Agustín Cabral» (fc 307).[32] La sua fedeltà sacerdotale non è motivata da alcun interesse materiale o da sete di potere ma, come ricorda Urania, dall’«ammirazione» e dall’«amore» che nutriva per il dittatore e che lo porta a imitarne il modo d’essere: «Come tanti, da giovane aveva fatto proprie le ossessioni del Capo: ordine, precisione, disciplina, perfezione» (fc 226).[33]
Il Trujillo rappresentato da Vargas Llosa, di fatto, si configura come il prototipo del mediatore. Tutto in lui rivela la superiore pienezza d’essere che polarizza il desiderio altrui: lo sguardo ipnotizzatore, l’atteggiamento ieratico, la personalità forte di uomo disciplinato, ambizioso e privo di scrupoli, la scalata al potere da una situazione sociale sfavorevole. Grazie a queste caratteristiche, dinanzi a lui i suoi sostenitori ma anche gli oppositori più coraggiosi e sicuri di sé, le personalità più brillanti del paese si tramutano in esseri inermi, in nullità.[34]. L’essenza messianica che i dominicani percepiscono in lui si riflette anche nella caratterizzazione nominativa: «Benefattore», «Salvatore», «Padre»; egli è un Dio, ma un dio di segno negativo, un’immagine richiamata sin dal titolo. Infatti il chivo, il capro o caprone, oltre a essere il tradizionale simbolo della lussuria, è anche emblema di Satana, così rappresentato quando presiede al Sabba.[35]
Il rapporto che lega i cortigiani a Trujillo non è l’unico caso di mediazione rintracciabile nel romanzo. Fra i cortigiani vi è un rapporto di mediazione interna e quindi di concorrenza. Oggetto del loro desiderio è Trujillo stesso: godere della sua benevolenza e del suo essere superiore.
Il legame di mediazione-rivalità fra i cortigiani si apprezza particolarmente in Cabral e Chirinos che, come osserva Trujillo, «erano — per chi non fosse stato addentro alle cose del regime — compagni inseparabili […]. Ma l’amicizia di quel duo era sempre stata relativa: terminava non appena erano in gioco la considerazione o le lusinghe del Capo» (fc 203).[36] La rivalità fra i due e fra i cortigiani in genere, com’è proprio della dinamica della mediazione interna, fa sì che l’oggetto Trujillo perda il suo valore concreto per caricarsi sempre più di virtù metafisiche: fra il Trujillo messianico che percepiscono i cortigiani e l’essere aberrante, crudele e grottesco che emerge dal romanzo, il divario, citando Girard, «è tanto grande quanto quello tra la bacinella da barbiere e l’elmo di Mambrino».[37]A portare al parossismo la trasfigurazione di Trujillo e l’adorazione dei cortigiani, contribuisce il tiranno stesso che, sebbene sia fondamentalmente un mediatore esterno, da abile «maestro manipolatore di ingenui, […] astuto approfittatore della vanità, della cupidigia e della stupidità degli uomini» (fc 90)[38] quale è, usa tattiche che possono essere interpretate alla luce della mediazione interna. Significativa a questo proposito la passeggiata vespertina a cui si dedica quotidianamente in compagnia di una ristretta cerchia di privilegiati che lo seguono a «rispettosa distanza, con gli occhi vigili, il cuore speranzoso, in attesa di un gesto, un cenno che permettesse loro di avvicinarsi al Capo, ascoltarlo, meritare una frase, fosse pure di rimprovero. Tutto, tranne che essere tenuti lontano, nell’inferno dei dimenticati» (fc 8).[39] In questa circostanza si mette in moto la dinamica del «contagio» propria della mediazione interna che contribuisce sia a intensificare il desiderio sia a diffonderlo. A detta di Girard, «il desiderio metafisico è sempre contagioso»,[40] in un universo di esseri incapaci di desiderare spontaneamente ciascuno può diventare modello inconsapevole di un discepolo che imita il suo desiderio. A sua volta il modello, nel vedere il proprio desiderio riflesso nell’altro, lo ricopierà, dando vita a una sorta di circolo perverso: poiché qualsiasi desiderio «raddoppia di intensità vedendosi condiviso», circolerà sempre più velocemente fra i rivali «aumentando di intensità ad ogni va e vieni», sino a trasformarsi in «violenta passione».[41] È quanto sembra accadere nella passeggiata di Trujillo, durante la quale ciascun cortigiano ha modo di vedere negli occhi dell’altro, degli altri, la propria smania di godere della considerazione del Capo. Di conseguenza la forza del desiderio e la trasfigurazione dell’oggetto si rafforzano e con queste si moltiplicano anche le possibilità di contagio i cui effetti si estendono al di là del circolo degli intimi per coinvolgere gran parte della popolazione. La mediazione reciproca, infatti, può interessare un’intera comunità:
La forza coattiva dell’illusione si accresce a mano a mano che il numero delle vittime aumenta. La follia iniziale si gonfia, matura, si espande, si riflette negli occhi di tutti […]. Le conseguenze che essa comporta sono tanto spettacolari, che il suo germe chimerico è seminato una volta per tutte[42]
Non è un caso che sia Urania sia Antonio Imbert utilizzino il termine «incantesimo» per riferirsi al fenomeno di adorazione collettiva del despota.[43]A infervorare ulteriormente i cortigiani interviene anche l’atteggiamento che Trujillo adotta nei loro confronti. Il dittatore rivolge l’attenzione ora a questi ora a quegli, mostrando verso gli altri un’olimpica indifferenza. Il suo comportamento appare affine a quello della civetta quale lo descrive Girard. La civetta, spiega lo studioso, è colei che copia il desiderio di chi l’ama e, finendo per desiderare se stessa, manifesta indifferenza nei confronti dell’amante. Tuttavia, poiché il suo desiderio è copiato da quest’ultimo, «ricerca avidamente le prove di tale preferenza».[44] In questa ottica possono essere lette le «prove» cui Trujillo sottopone coloro che lo adorano, gli sgarbi, le umiliazioni, i repentini allontanamenti dei suoi collaboratori che, significativamente, paragona a «donne dell’harem», ad amanti abbandonate:
Trujillo si divertiva — un gioco sottile e segreto che si poteva permettere –a cogliere le velate manovre, le stoccate nascoste, gli intrighi machiavellici che tramavano l’uno ai danni dell’altro […] tutti quelli del gruppo degli intimi –, per mettere da parte il compagno, portarsi avanti, farsi più vicini e meritare maggiore attenzione, considerazione e battute amichevoli da parte del Capo. «Come le donne dell’Harem per diventare la favorita», pensò. E lui, per tenerli sempre sul chi vive, e impedire la consunzione, la routine, l’anomia spostava alternativamente l’attenzione dall’uno all’altro, nella graduatoria, la caduta in disgrazia. Era quello che aveva fatto con Cabral; allontanarlo […]. Una prova attraverso cui aveva fatto passare tutti i suoi collaboratori […]. Cerebrito l’aveva presa male, disperandosi, come una donna innamorata respinta dal suo uomo.[45] (fc 203-204)
Il comportamento civettuolo di Trujillo, le sue manifestazioni di indifferenza e persino di rifiuto hanno il potere di esacerbare il desiderio dei suoi discepoli e di renderli totalmente asserviti, come dimostra, fra gli altri esempi, la reazione di Cabral evocata dal dittatore. Il senatore nel momento in cui si vede cacciato dal paradiso degli eletti manifesta l’immenso grado di schiavitù a cui lo ha condotto l’adorazione di una divinità umana. In preda alla disperazione si dichiara «disposto a tutto pur di riacquistare la […] fiducia» (fc 300)[46] del suo dio terreno, sicché, dopo aver consacrato a lui la propria esistenza, sacrifica al suo altare la vittima innocente. Urania diviene così l’Ifigenia mitologica, destinata a placare l’ira di Artemisia con la sua morte, l’Isacco Biblico, sul punto di essere immolato dal padre come prova del suo amore per il proprio Signore. Come nel caso di Ifigenia e di Isacco, nemmeno in quello di Urania il sacrificio si consuma totalmente, la salva l’impotenza di Trujillo, ma rimane comunque vittima della furia del Dio malefico che, per punirla di essere stata testimone del suo fallimento, la deflora con le mani, segnandone per sempre l’esistenza. [47] Nel testo Urania appare come l’incarnazione di molte altre vittime innocenti sacrificate sull’altare di Trujillo da padri o mariti vittime del desiderio metafisico e dei mostruosi legami cui questo dà luogo. Infatti sono da ricercarsi qui, nella trascendenza deviata, le motivazioni profonde del comportamento dei cortigiani in generale e degli intellettuali in particolare. Una lettura in tal senso è in qualche modo suggerita dalla stessa Urania che, nel tentativo di spiegarsi l’accettazione supina delle «teste pensanti» alle sofferenze che il dittatore infligge loro, ipotizza una tendenza masochista:
Era in nome dell’illusione di godersi il potere? A volte penso di no, che affermarsi fosse secondario. Che, a dire la verità, a te, a Arala, a Pichardo, a Chirinos, a Álvarez Piña, a Manuel Alfonso, vi piacesse sporcarvi. Che Trujillo tirò fuori dal fondo delle vostre anime una vocazione masochista, di esseri che avevano bisogno di ricevere sputi, maltrattamenti, che sentendosi abietti si realizzavano. (fc 62)[48]
Il masochismo, o meglio un «masochismo inconscio e diffuso», come scrive Girard, «impregna tutte le forme del desiderio metafisico»,[49] poiché, come si è visto, il disprezzo e le umiliazioni vengono interpretati dalle vittime del desiderio metafisico quali segni dell’«autonomia e padronanza divina»[50] del loro mediatore.La perdita di dignità e amor proprio dei fedelissimi di Trujillo, la loro accettazione di qualsiasi sopruso da parte del dittatore, che Urania interpreta come desiderio rettilineo di sofferenza e infamia di soggetti masochisti, altro non sono, dunque, che le conseguenze del loro desiderio triangolare, della schiavitù all’essere superiore a cui si sono assoggettati. È quella stessa profonda schiavitù spirituale che continua a perseguitare il generale Román dopo la morte del dittatore, impedendogli di agire come avrebbe voluto.
IV
Anche il secondo enigma del testo, l’imperscrutabile figura di Joaquín Balaguer, la sua inaspettata e fulminea ascesa al potere dopo tre decenni trascorsi all’ombra di Trujillo grazie alla sua totale mancanza di ambizione[51] trova una chiave di lettura nelle leggi del desiderio triangolare che regolano la Fiesta del Chivo.
Balaguer è insieme a Trujillo l’altro grande stratega in funzione del desiderio del romanzo. Se il tiranno appare come un abile «manipolatore di ingenui», Balaguer si configura come un maestro della dissimulazione. È la sua capacità di finzione che, durante il regime, gli consente di ricoprire le cariche più alte senza mai attraversare periodi di disgrazia e che, dopo la scomparsa di Trujillo, gli permette di scalare indisturbato il potere, al quale, contro ogni apparenza, lui stesso ammette nel proprio intimo di aver sempre ambito. Non appena gli viene comunicata la probabile morte del dittatore, Balaguer si rende conto che «Il suo incarico […] si caricava di realtà. Sarebbe dipeso dal suo comportamento passare da mero impaccio ad autentico Capo di Stato della Repubblica Dominicana» e riconosce che «Forse, senza saperlo, da quando era nato, nel 1906, aspettava questo momento» (fc 401).[52]La dissimulazione del desiderio è un elemento fondamentale per raggiungere gli scopi che ci si prefigge in un mondo in cui domina la mediazione interna. Infatti, poiché qualunque desiderio, per via del contagio, può generare desideri uguali e quindi dei rivali, «se il soggetto che desidera cede all’impulso che lo trascina verso l’oggetto, se dà spettacolo agli altri del suo desiderio crea a se stesso, a ogni piè sospinto, nuovi ostacoli e rafforza quelli preesistenti. Il segreto del successo […] è la simulazione; bisogna dissimulare il desiderio che si prova, simulare il desiderio che non si prova».[53] È esattamente quanto fa Balaguer, che per trentun anni riesce a convincere tutti, e in particolare Trujillo — «che si vantava di avere un fiuto da segugio con gli uomini» (fc 255) [54] –, che ambisce solo a quello che il dittatore era disposto a dargli: «Una delle poche certezze che nutriva su di lui era la sua mancanza di ambizione. A differenza degli altri del gruppo degli intimi […], Joaquín Balaguer gli aveva sempre dato l’impressione di aspirare soltanto a ciò che lui ritenesse di dovergli dare» (fc 255).[55]
L’unico che sin dall’inizio sembra leggere dietro l’apparente devozione e umiltà di Balaguer le sue reali mire è Johnny Abbes García, il quale si dichiara convinto che «il suo modo di essere, così discreto, sia una strategia. Che, in fondo, non è un uomo del regime, ma che lavora soltanto per Balaguer» (fc 83).[56] A tutti gli altri personaggi il Presidente appare un uomo impenetrabile. Per il generale Román, per esempio, «era impossibile sapere quello che pensava; dietro ai suoi modi affabili e alla sua disinvoltura, c’era un enigma» (fc 360);[57] Trujillo stesso, lo considera «alquanto ermetico» (fc 255).
La caratteristica del Presidente che maggiormente sconcerta Trujillo è il suo ascetismo. Nella loro ultima conversazione gli confessa che «Nonostante tutti questi anni che abbiamo passato insieme, per me rimane abbastanza misterioso. Non sono mai riuscito a scoprire in lei debolezze umane, dottor Balaguer», e più avanti aggiunge:
C’è qualcosa di inumano in lei […]. Non ha quegli appetiti che sono naturali negli uomini. […] il letto non la interessa. Nemmeno il denaro […]. Sono stato io a doverle imporre i ministeri, le ambasciate, la Vicepresidenza e persino la Presidenza […]. Lei non beve, non fuma, non mangia, non corre dietro alle gonnelle, ai soldi, al potere. Lei è proprio così? O questo comportamento è una strategia, con un progetto segreto? (fc 256).[58]
L’ascetismo, come pare intuire Trujillo, è effettivamente una «strategia», una tattica centrale nella dissimulazione ai fini del desiderio. Scrive Girard, che al fenomeno dedica un intero capitolo: «la rinuncia in funzione del desiderio è perfettamente giustificata. È infatti il desiderio del mediatore-rivale che, nella mediazione interna, separa il soggetto dall’oggetto […]. L’ascesi […] scoraggia l’imitazione; essa sola può dunque aprirsi una via verso l’oggetto».[59]
Come il Julien Sorel ricordato da Girard a questo proprosito, anche Balaguer deve il successo alla sua particolare forza d’animo che gli consente di contenere le passioni e di praticare, forse istintivamente, un ascetismo radicale. Come Julien Sorel, anche lui coltiva la sua peculiare forza d’animo «con la passione del mistico».[60] Di fatto la sua austerità ha radici religiose:
La religione gli dava un ordine spirituale, un’etica con cui affrontare la vita. Dubitava a volte della trascendenza, di Dio, ma mai della funzione insostituibile del cattolicesimo come strumento di contenimento sociale delle passioni e degli appetiti devastanti della bestia umana. (fc 267)[61]
La capacità di autocontrollo e di finzione di Balaguer si scopre solo verso la fine del romanzo, nel ventiduesimo capitolo, l’unico in cui il personaggio è focalizzato dall’interno. Sino a quel momento, quasi ad assecondare la personalità insignificante e nel contempo misteriosa che gli attribuiscono tutti, viene presentato attraverso il punto di vista degli altri personaggi. Non appena la narrazione penetra nella sua mente emerge l’alto grado di controllo che esercita su se stesso. Infatti, quando gli si prospetta la possibilità di ottenere il potere, quando, cioè, più facile sarebbe tradirsi, Balaguer svela il comandamento che ha retto tutta la sua vita, quello di mantenere il controllo: «Ancora una volta si ripeté la massima della sua vita: neppure per un istante, per nessuna ragione, perdere la calma» (fc 401).[62] Nel corso del capitolo, grazie all’alternanza fra lo stile indiretto libero e lo stile diretto che consente di cogliere il contrasto fra ciò che il personaggio pensa e ciò che dice o fa, il lettore ha modo di vedere come riesca a rispettare la propria massima anche nei momenti di maggior tensione e come, per merito della sua capacità di simulazione, riesca a convincere tutti di agire solo per il bene del paese, come aveva convinto il dittatore di lavorare solo a suo beneficio. Così, quando il colonnello Abbes García lo invita a dimettersi per lasciare la Presidenza a un membro della famiglia Trujillo, dopo averlo ascoltato con l’abituale atteggiamento di immensa modestia e umiltà, «come un tranquillo parroco», Balaguer risponde che «si sarebbe dimesso lì per lì se questo fosse servito alla nazione, naturalmente. Ma si permetteva di suggerire che, prima di infrangere l’ordine costituzionale, attendessero l’arrivo del generale Ramfis» (fc 405).[63] Anche al primogenito di Trujillo — a cui prospetta un piano che prevede la propria permanenza al potere per far sopravvivere l’opera compiuta dal padre — fa presente che, comunque, se il generale avesse valutato altre alternative, lui sarebbe stato pronto a presentare le proprie dimissioni al Congresso.
A sostegno delle sua capacità di simulazione, Balaguer fa ricorso alle sue abilità oratorie. Trova le parole e il tono adatti per adulare tutti e portarli a fare ciò che serve ai suoi fini. Riesce a convincere Abbes García, quel «sadico demente» (fc 405), come lo definisce nel proprio intimo, e i fratelli di Trujillo — «quella combriccola di spacconi idioti» (fc 405), di «bestie irrazionali» (fc 427)[64] — ad abbandonare il paese e Ramfis a lasciargli guidare la transizione verso la democrazia.
Le sue doti di attore e i suoi «prodigi di retorica» impediscono a tutti coloro che potrebbero ostacolargli il cammino verso la Presidenza di intravedere il suo desiderio di potere, nessuno quindi lo imita e gli pone impedimenti. In questo modo poco tempo dopo la morte di Trujillo, Balaguer raggiunge il proprio obiettivo e diventa il nuovo signore e padrone della politica dominicana:
Erano passate cinque settimane dalla morte del Generalissimo […]: in quel brevissimo tempo, da Presidente burattino, un signor nessuno era diventato l’autentico Capo dello Stato, carica che riconoscevano amici e nemici, e, soprattutto gli Stati Uniti (fc 417)[65]
Balaguer, che a una prima lettura può sembrare uno dei tanti cortigiani di Trujillo totalmente soggiogati dalla sua divina superiorità e separati da lui da una distanza incolmabile, a un’analisi più approfondita rivela una personalità prossima a quella del dittatore, uguale e nello stesso tempo contraria. I due sono accomunati principalmente dall’amore per il potere. Ma se Trujillo lo desidera apertamente e lo ottiene e mantiene attraverso la forza fisica e spirituale di cui fa sfoggio, Balaguer, al contrario, lo conquista celando la propria forza interiore e la propria passione. Lungi dall’essere il burattino, il discepolo fedele che tutti pensano, alla pari di Trujillo appare come un essere dotato di superiore padronanza, uno scaltro burattinaio che occulta i fili con cui muove tutti coloro che lo circondano approfittando della loro cecità, «della vanità, della cupidigia e della stupidità».
Note
[1] Mario Vargas Llosa, La Fiesta del Chivo, Madrid, Alfaguara, 2000; ed. it. La festa del Caprone, Torino, Einaudi, 2000, trad. di Glauco Felici. Tutte le citazioni, in italiano nel testo e in originale in nota, sono tratte da queste edizioni a cui mi riferirò d’ora innanzi, rispettivamente con le sigle Fdc e fc.
[2] «un coñito fresco para devolver la juventud a un veterano de setenta primaveras» (fdc 382).
[3] «Una mirada que nadie podía resistir sin bajar los ojos, intimidado, aniquilado por la fuerza que irradiaban esas pupilas perforantes» (fdc 47).
[4] «El Jefe sería un gran estadista, cuya visión, voluntad y capacidad de trabajo había hecho de la República Dominicana un gran país» (fdc 47).
[5] «A partir de 1930, Rafael Leonidas Trujillo Molina relevó a Dios en esta ímproba misión» (fdc 293).
[6] «El Chivo había quitado a los hombres el atributo sagrado que les concedió Dios: el libre albedrío […]. Tal vez por eso decidió que Trujillo debía morir» (fdc 190).
[7] «Sumido en esa especie de hipnosis pensó que su indolencia acaso se debía a que, aunque el cuerpo del Jefe estuviera muerto, su alma, su espíritu o como se llamara eso, continuaba esclavizándolo» (fdc 411).
[8] «lo endiablado del sistema […] en el que todos los dominicanos tarde o temprano participaban como cómplices» (fdc 190).
[9] «esa fachada de un país que bajo la severa pero inspirada conducción de un estadista fuera de lo común progresaba a marchas forzadas» (fdc 186).
[10] «un tétrico espectáculo de gentes destruidas, maltratadas y engañadas» (fdc 186).
[11] «–¿Cómo era posible, papá? […] ¿Qué les hacía? ¿Qué les daba, para convertir a don Froilán, Chirinos, Manuel Alfonso, a ti, a todos sus brazos derechos e izquierdos, en trapos sucios?
–No lo entiendes, Urania. Hay muchas cosas de la Era que has llegado a entender; algunas, al principio, te parecían inextricables, pero, a fuerza de leer, escuchar, cotejar y pensar has llegado a comprender que tantos millones de personas, machacadas por la propaganda, por la falta de información, embrutecidas por el adoctrinamiento, el aslamiento, despojadas del libre albedrío, de voluntad y hasta de curiosidad por el miedo y la práctica del servilismo y la obsecuencia, llegaran a divinizar a Trujillo. No sólo a temerlo, sino a quererlo […]. Lo que nunca has llegado a entender es que los dominicanos más preparados, las cabezas del país, abogados, médicos, ingenieros […] sensibles, cultos, con experiencia, lecturas, ideas […] aceptaran ser vejados de manera tan salvaje (lo fueron todos alguna vez)» (fdc 75).
[12] Edmundo Paz Soldan, “Vargas Llosa, entre Chivos y demonios”, www.librusa.com/columnista.htm. , 2001 (anche in www.sololiteratura.com./vargasentrechivo.htm, 2001) Al riguardo si veda anche Pedro Conde, “Los cortesanos de Vargas Llosa”, El Siglo, Santo Domingo, 29.6.2000.
[13] René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, Milano, Bompiani, 1981 (I ed. 1965).
[14] Ibid., p. 14.
[15] Ibid., p. 49, p.73.
[16] Cfr. ibid., pp. 51-52.
[17] Cfr. ibid., p. 53.
[18] Ibid., p. 71.
[19] Cfr. ibid., pp. 49-60.
[20] Ibid., p. 62.
[21] Ibid., p. 94.
[22] Ibid., p. 54.
[23] Cfr. ibid., p. 96.
[24] Cfr. ibid., pp. 12-14.
[25] Cfr. ibid., pp. 10-11.
[26] Ibid., p. 23, p. 89.
[27] Ibid., p. 23, p. 19.
[28] Cfr. ibid., p. 105.
[29] Cfr. fc 65 (Fdc 79).
[30] «A usted no lo admiro, Excelencia […]. Yo vivo por usted. Para usted» (Fdc 95).
[31] «desde hacía treinta años vivía por él y para él» (Fdc 335).
[32] «Para dedicar más tiempo al Jefe, consagrarle días y noches, demostrarle que nada ni nadie era más importante en la vida de Agustín Cabral» (Fdc 343).
[33] «Como tantos, desde joven hizo suyas las obsesiones del Jefe: orden, exactitud, disciplina, perfección» (Fdc 256).
[34] Il generale Román, sebbene sia consapevole di essere un uomo valoroso di fronte a Trujillo, «come tanti dominicani», perde il suo coraggio e il suo senso dell’onore e si sente pervadere da «una docilità e una riverenza servili» (fc 357; cfr. fdc 398). Persino Antonio de la Maza, che per anni ha combattuto contro le forze del dittatore, soccombe al «magnetismo che diffondeva quell’uomo instancabile, […] che, secondo la mitologia popolare, non sudava, non dormiva, non aveva mai una piega nell’uniforme» (fc 91) («no pudo sustraerse al magnetismo que irradiaba ese hombre incansable […] que, según la mitología popular, no sudaba, no dormía, nunca tenía una arruga en el uniforme» Fdc 108). Così, quando vorrebbe vendicare l’assassinio del fratello, uccidendo Trujillo non vi riesce «Non per paura di morire […]. Era qualcosa di più sottile e indefinibile della paura: quella paralisi, l’addormentamento della volontà, del raziocinio e del libero arbitrio che quell’infimo personaggio azzimato fino al ridicolo, con la vocina flautata e gli occhi da ipnotizzatore, esercitava sui dominicani poveri e ricchi, colti e incolti, amici o nemici» (fc101) («¿Por qué no saltó sobre él cuando lo tuvo tan cerca? […] No por miedo a morir […]. Era algo más sutil e indefinible que el miedo: esa paralisis, el adormecimiento de la voluntad, del raciocinio y del libre albedrío que aquel peronaje acicalado hasta el ridículo, de vocecilla aflatuada y ojos de hipnotizador, ejercía sobre los dominicanos pobres o ricos, cultos o incultos, amigos o enemigos» Fdc 119).
[35] Dominato da una divinità malefica, tutto il mondo della Fiesta finisce per configurarsi come un cielo al rovescio, un’immagine ricorrente nella novela del dictador latinoamericana, nella cui tradizione si iscrive il romanzo di Vargas Llosa (al riguardo si vedano Francisca Noguerol-Jiménez, «Novela del dictador: un descenso a los infiernos» Revista Acta Académica, Universidad Autónoma de Centro América, n° 20, Mayo 1997, pp. 65-69 e Bernardo Subercaseaux, «”Tirano Banderas” en la narrativa hispanoamericana (la novela del dictador 1926-1976)», Hispamérica, n° 14, 1975, pp. 49-50, 55-56 e). Come osserva Subercaseaux (ibid, p. 56), nell’infernale mondo del dittatore la scala dei valori umani è invertita. Così è nella Fiesta dove i collaboratori più stretti di Trujillo sono gli esseri moralmente più disprezzabili. Come sottolinea Urania, infatti, «il requisito per rimanere al potere senza morire di schifo» era diventare «un ‘essere senza anima come il […] Capo» (fc 117; cfr. fdc136-137).
[36] «Chirinos y Cabral eran –para quien no estuviera en las intimidades del régimen– compañeros inseparables. […]. Pero, la amistad de ese tandem fue siempre relativa: cesaba en cuanto estaban en juego las consideración o los halagos del Jefe» (Fdc 232).
[37] René Girard, op. cit., p. 90.
[38] «maestro manipulador de ingenuos, […] astuto aprovechador de la vanidad, la codicia y la estupidez de los hombres» (Fdc 107).
[39] «a respetuosa distancia, los ojos alertas, el corazón esperanzado, aguardando un gesto, un ademán que les permitiera acercarse al Jefe, escucharlo, merecer un diálogo, aunque fuera una recriminación. Todo, menos ser mantenidos lejos, en el infiernos de los olvidados» (Fdc 16-17).
[40] René Girard, op. cit., p. 87.
[41] Cfr.ibid., pp. 87-88.
[42] Ibid., pp. 91-92.
[43] Cfr. fc pp. 9, 442 (fdc, pp. 18, 490). L’ipotesi della trascendenza deviata e del contagio quale causa della soggezione del popolo nei confronti di Trujillo, non esclude il ruolo svolto dalla propaganda, dalla parola, sottolineato da Urania all’inizio del romanzo. Al contrario la parola ha una funzione fondamentale nella mediazione. Girard, per esempio, sottolinea come nel desiderio metafisico di Don Chisciotte e di Emma Bovary la letteratura abbia una «funzione seminale» (op. cit., p. 9) la stessa che nell’imitazione di Napoleone da parte di Julien Sorel hanno Le mémoirial de Sainte-Hélène e i bollettini della Grande Armée. Nella Recherche il suggerimento orale e quello scritto hanno il potere di alimentare i desideri del protagonista e di trasfigurarne gli oggetti. Marcel, per esempio, vuole intensamente vedere recitare la Berma, perché lo scrittore Bergotte, che gode «presso di lui di un immenso prestigio», la ammira. La recitazione della Berma lo delude, ma il giudizio positivo di un amico di famiglia e il resoconto dello spettacolo di un giornale mondano sono sufficienti a convincere Marcel della sua bellezza e dell’intensità del piacere provato: «Come nei romanzi anteriori, il suggerimento orale e quello letterario si sostengono vicendevolmente» (ibid., pp. 29, 31). Sembra essere questo anche il caso della Fiesta dove, fra l’altro, a glorificare il narratore in forma orale e scritta sono le persone che godono di maggior prestigio nel paese, che dunque hanno sul popolo un enorme potere di suggestione.
[44] Ibid., p. 9.
[45] «A Trujillo le divertía –un juego exquisito y secreto que podía permitirse– advertir las sutiles maniobras, las estocadas sigilosas, las intrigas florentinas que se fraguaban uno contra otro […] todos los del círculo íntimo– para desplazar el compañero, adelantarse, estar más cerca y merecer mayor atención, oídos y bromas del Jefe. “Como las hembras del harén para ser la favorita”, pensó. Y él para mantenerlos siempre en el quién vive, e impedir el apolillamiento, la rutina, la anomia, desplazaba, en el escalafón, alternativamente, de uno a otro, la desgracia. Eso había hecho con Cabral; alejarlo […]. Una prueba por la que había hecho pasar a todos sus colaboradores […]. Cerebrito lo había tomad mal, desesperándose, como una hembra enamorada a la que despide su macho» (fdc, pp. 232-233). È interessante osservare che, oltre che a quelle della civetta, le tattiche di Trujillo paiono analoghe anche a quelle del dandy che, come ricorda Girard, fa della freddezza uno spettacolo per infiammare il desiderio altrui: «il dandy vuole che gli altri ricopino il desiderio che egli vuol far credere di provare per se stesso. Porta a spasso la propria indifferenza in pubblico come fosse una calamita nella limatura di ferro» (op. cit., p. 142). Trujillo, di fatto, è un dandy, un maniaco della cura personale e dell’eleganza –«La pulizia, la cura del corpo e il ben vestire erano stati, per lui, l’unica religione praticata sino in fondo» (fc 20; fdc 30) — e ha un mediatore legato a questa sua ossessione: Petronio, l’elegantiae arbiter che ama imitare e menzionare (cfr. fra le altre, fc pp. 144, 299; fdc pp. 167, 334).
[46] «estoy dispuesto a todo, para recobrar su confianza» (fdc 336).
[47] Cfr. María Elvira Luna Escudero-Alie, «Urania en “La Fiesta del Chivo”», in www.arrakis.es/~trazeg/urania.html, p.3 (già in El Patio, La Revista de la Cultura Hispano-Guineana, n° 70, junio-julio 2000).
[48] «¿Era por la ilusión de estar disfrutando del poder? A veces pienso que no, que medrar era lo secundario. Que, en verdad, a ti, a Arala, a Pichardo, a Chirinos, a Álvarez Piña, a Manuel Alfonso, les gustaba ensuciarse. Que Trujillo les sacó del fondo del alma una vocación masoquista, de seres que necesitaban ser escupidos, maltratados, que sintiéndose abyectos se realizaban» (fdc 76).
[49] René Girard, op. cit., p. 158.
[50] Ibid., p. 156.
[51] Al riguardo cfr. fc p. 255; fdc p. 287.
[52] «Su cargo […] se cargaba de realidad. Dependía de su conducta pasar que pasara, de mero embeleco, a auténtico Jefe de Estado de la República Dominicana. Tal vez, sin saberlo, desde que nació, en 1906, esperaba este momento» (fdc p. 446).
[53] René Girard, op. cit., pp. 94-95.
[54] «se jactaba de tener un olfato de gran sabueso para los hombres» (fdc p. 287).
[55] «Una de las pocas certezas que abrigaba respecto a él era su falta de ambiciones. A diferencia de los otros del grupo íntimo, […], Joaquín Balguer siempre le dio la impresión de aspirar sólo a lo que a él se le antojaba darle» (fdc p. 287).
[56] «Yo creo que su manera de ser, tan discreta, es una estrategia. Que, en el fondo, no es un hombre del régimen, que trabaja sólo para Balaguer» (fdc p. 98).
[57] «Era imposible saber lo que pensaba; detrás de sus maneras afables y su desenvoltura, había un enigma» (fdc p. 401).
[58] «Pese a todos estos años juntos, para mí es usted bastante misterioso. Nunca he podido descubrirle las debilidades humananas, doctor Balaguer»; «Hay algo inhumano en usted […]. No tiene los apetitos naturales en los hombres. […] la cama no le interesa. Tampoco el dinero […]. Yo tuve que imponerle los ministerios, las embajadas, la Vicepresidencia y hasta la Presidencia […]. Usted non bebe, no fuma, no come, no corre tras las faldas, el dinero ni el poder. ¿Es usted así? O esa conducta es un estrategia, con un designo secreto? (fdc pp. 288-289).
[59] René Girard, op. cit., p. 137.
[60] Ibid., p. 136.
[61] «La religión le daba un orden espiritual, una ética con que afrontar la vida. Dudaba a veces de la trascendencia, de Dios, pero nunca de la función irremplazable del catolicismo como instrumento de contención social de las pasiones y apetitos desquiciadores de la bestia humana» (fdc p.301).
[62] «Una vez más se repitió la divisa de su vida: ni un instante, por ninguna razón, perder la calma» (fdc p. 446).
[63] «Renunciaría en el acto si ello servía a la nación, por supuesto. Pero se permitía sugerir que, antes de romper el orden constitucional, esperaran la llegada del general Ramfis» (fdc 450).
[64] «sádico demente» (fdc 450); «pandilla de matones idiotas» (fdc 450); «las bestias irracionale» (fdc 475).
[65] «Habían pasado apenas cinco semanas de la muerte del Generalísimo […]: en ese tiempo brevísimo, de Presidente pelele, un don nadie, pasó a ser el auténtico Jefe de Estado, cargo que reconocían tirios y troyanos, y, sobre todo, los Estados Unidos» (fdc 464).