PAOLO TORTONESE – Introduzione a “IL BENE E IL MALE. L’etica nel romanzo moderno”
[Vi proponiamo di seguito l’Introduzione di Paolo Tortonese al volume Il Bene e il Male. L’etica nel romanzo moderno, Roma, Bulzoni Editore, 2007. Paolo Tortonese insegna Letteratura Francese del XIX secolo presso L’Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3; tra i suoi interessi di ricerca ricordiamo lo studio della letteratura fantastica, le teorie della rappresentazione letteraria, la storia del romanzo e l’estetica]
On ne peut faire abstraction du caractère
téléologique de l’action humaine.
Jean Molino
Immoralità e frivolezza
«C’è bisogno di spettacoli nelle grandi città, e di romanzi per i popoli corrotti.»[1] Rousseau apre con queste parole la prefazione a Julie ou la Nouvelle Héloïse. Fingendosi vero, ma facendosi capire falso, il romanzo confessa il suo carattere pernicioso. La prefazione di Rousseau è un capolavoro di ambiguità, non per questo il giudizio che contiene è da sottovalutare. Incarna tardivamente un’opinione che, come si sa, ha tanto pesato sul genere romanzesco, da determinarne alcuni caratteri. La storia del romanzo è così segnata dalla condanna morale, che il romanzo gli deve una parte della sua fisionomia attraverso i secoli[2].
La corruzione è consustanziale al romanzo. Rousseau insiste: «Una fanciulla casta non ha mai letto romanzi»[3]. I suoi predecessori, dal medioevo in poi, avevano regolarmente biasimato un genere che subiva contemporaneamente l’accusa di leggerezza o superficialità e l’accusa opposta di penetrazione morbosa. Così il romanzo sembrava a Du Bellay, nel 1549, «molto più adatto a distrarre le damigelle che a scrivere dottamente»[4], e se incontrava ogni tanto qualche indulgenza, era perché qualcosa gli si poteva perdonare proprio in virtù della sua frivolezza[5]. Nel Seicento un giansenista come Pierre Nicole considerava il romanzo non meno pericoloso del condannatissimo teatro: nel suo trattato contro la commedia, per evitare malintesi, precisa che il romanzo è colpevole di tutte le stesse nefandezze di cui il teatro si macchia[6]. Agli antipodi ideologici, Voltaire scriveva nel 1733: «Se qualche nuovo romanzo esce ancora, e se diverte per un po’ la gioventù frivola, i veri letterati lo disprezzano[7]». Accusato di un’efficacia perversa, oppure di un’oziosa vacuità, il romanzo subiva gli attacchi incrociati degli opposti estimatori della fede e dello scetticismo, della grazia e della scienza, del pentimento e della perfettibilità.
Qualche apologista di merito si era pur fatto sentire, come Pierre-Daniel Huet alla fine del Seicento[8], ma il discorso sul romanzo continuava ad essere, ancora nella prima parte del secolo successivo, terribilmente dissociato dalla pratica dei romanzi. Pratica da vedersi sotto la doppia specie della scrittura e della lettura. Madame de Sévigné confessava alla figlia, con sincera civetteria, che non poteva staccare gli occhi da un romanzaccio di La Calprenède, e che, incollata alla sue pagine, si sentiva ridotta a lettrice bambina. Come rimedio, e nobile via d’uscita, si aggrappava alla conversazione del duca di La Rochefoucauld[9]. Difficile non invidiarle questa risorsa.
Diderot ed altri avrebbero aperto nuove strade alla coscienza del romanzo, chiedendogli di sottrarsi con le proprie forze all’immoralità e alla frivolezza. Gli inglesi davano l’esempio. Ma proprio quei francesi che ancora diffidavano avevano già elaborato un pensiero che doveva fornire alla loro narrativa la materia essenziale. Avevano portato al suo apogeo il discorso moralista, in cui si racchiudono e si confondono la valutazione morale e la penetrazione psicologica. Avevano inventato una scienza del personaggio mentre cercavano una morale per l’uomo. Il pensiero di La Rochefoucauld, che Mme de Sévigné vedeva come un antidoto alle bassezze romanzesche, doveva fornire ai romanzieri di che nutrire almeno altri due secoli di storie, e permettere alle dame delle generazioni successive di non dover più scegliere tra una narrazione appassionante e una psicologia appassionata.
Il rapporto tra morale e romanzo non si può ridurre alla sua immoralità, presunta, rimproverata, negata o esibita. È vero che non si deve prescindere, dal punto di vista della storia dei generi letterari, da questa presunzione di colpa, e dal peso che ha avuto sulle coscienze di scrittori e lettori. È vero anche che il romanzo ha incorporato l’accusa trasformandola in un proprio tema, tra i più importanti, e che Madame Bovary deve un po’ la sua nascita ai Pierre Nicole. Ma il legame tra morale e romanzo è da cercare anche su un altro piano: non quello dei valori che hanno presieduto alla contrastata crescita di questo genere imbarazzante, ma quello della sua organizzazione narrativa e dei suoi modelli drammatici.
Dobbiamo chiederci se le categorie della morale, cioè il bene e il male, possano avere una qualche utilità per capire i meccanismi narrativi del romanzo. La morale diventerebbe allora un problema narratologico. Sappiamo tutti che la parola morale può significare ciò che si estrae da un racconto, il messaggio finale che deriva non dall’esposizione di una teoria, ma dalla narrazione di eventi fittizi. La morale è il senso che resta quando il racconto scompare, ma se resta, vuol dire che c’era fin dall’inizio, o che si è formato attraverso la narrazione.
Morale come bene che vince sul male, morale come senso, morale come condensato di un racconto. I rapporti tra questi elementi sono da chiarire. Cercherò di fare qualche ipotesi su come la morale è presente nella psicologia romanzesca, e quindi nel senso stesso del romanzo: terrò presente il corpus classico di ciò che chiamiamo romanzo, in cui si ritrovano La Princesse de Clèves, Pamela, I promessi sposi, Anna Karenina, A Portrait of a Lady, À la Recherche de temps perdu e mille altre opere canoniche, e non le tendenze che nel XX secolo si sono sottratte a questo paradigma secolare.
Morale e azione romanzesca
A prima vista, non c’è romanzo senza azione, e le azioni sono il vero oggetto di un racconto. Ma non c’è neppure racconto senza personaggi, cioè senza l’elemento che si fa carico dell’azione, ne giustifica la presenza fornendo, per così dire, un soggetto al verbo. Si tratta quindi di capire quale legame unisca indissolubilmente personaggio e azione. Aristotele non ha dubbi sul fatto che questo legame esista e sia fondamentale, tantoché, presupponendolo, si preoccupa di stabilire il primato dell’azione sul personaggio, e invita a rifuggire il contrario. Nel nono capitolo della Poetica, si legge che il vero oggetto della mimesis è l’uomo in azione, e questo vale per tutte le rappresentazioni (non solo teatrali). Un uomo che non agisse, oppure un’azione non umana non sarebbero a quanto pare interessanti, l’uno perché sarebbe un puro carattere (al massimo legato all’espressione di un pensiero), l’altra perché sarebbe priva di un soggetto umano che la determini, e questa mancanza sembra fatale alla letteratura.
Immaginiamo un’azione senza personaggio: l’azione di un animale o di un agente fisico, meteorologico; perché non sembrano sufficienti per costituire una narrazione? Perché un romanzo non potrebbe strutturarsi attorno a questi agenti, a meno di antropomorfizzarli o di renderli allegorici? Aristotele non risponde, e ci costringe a farlo in sua vece. Se ciò che distingue l’azione umana da quella accidentale è una coscienza, almeno parziale, allora bisognerà cercare il discrimine nell’intenzione, visto che solo all’uomo attribuiamo atti intenzionali.
Non c’è racconto senza un’azione e non c’è azione interessante senza un’intenzione. Il personaggio umano, essendo capace di intenzione, dà all’azione una profondità e una prospettiva che nessun altro agente potrebbe darle. Perché l’intenzione è ciò che fornisce ai suoi atti un retroscena causale e un orizzonte finale. L’intenzione è ciò che permette di spiegare le azioni, ma anche ciò che permette di giudicarle. Causalità e finalità si stringono in un nodo indissolubile nelle vicende romanzesche, e il personaggio è questo nodo. Se causa e fine sono i due versanti dell’intenzione, la prima sarà soggetta all’analisi, il secondo sarà soggetto al giudizio. La ricerca dei moventi di un atto si confonde così, nell’esperienza del romanzo, con l’approvazione o la condanna dei fini di quello stesso atto.
L’azione umana è quindi simultaneamente indispensabile al racconto (in sua assenza non c’è nulla da raccontare) e necessaria al giudizio (in sua assenza non si può condannare né approvare nulla). Ma se facciamo attenzione, il versante causale (quello che da adito alla ricerca di ciò che ha determinato gli atti) e il versante finale (quello che consente di giudicarli) non sono sullo stesso piano rispetto all’umanità. Il secondo è ben più del primo strettamente dipendente dal carattere umano degli agenti. Un masso che cade da una montagna può essere una causa da scoprire, ma non contiene un fine da giudicare. Quando Edgar Allan Poe ha fatto commettere un delitto da una scimmia, ha infranto una regola narrativa, e ha proposto l’enigma di un atto senza fine umano, non giudicabile. Anche Aristotele, che pur considera il mondo come una grande macchina di cui si possono scoprire i meccanismi, e invita ad usare la meccanica del racconto per determinare i rapporti di causa ed effetto, tralascia le cause non umane, perché solo quelle umane sono giudicabili oltre che comprensibili.
Posti di fronte all’azione di un personaggio, ci chiediamo perché la compia. E questo perché è sempre duplice, contiene la ricerca delle cause e la comprensione dei fini. Come nell’universo leibniziano, anche nel mondo della finzione romanzesca nihil est sine ratione, nel doppio senso della parola ratio: se mi chiedo quali siano le ragioni dell’azione di un personaggio, queste ragioni sono simultaneamente ciò che lo ha fatto agire e lo scopo della sua azione. Solo nell’uomo (copia di Dio) la finalità è causa e la causa è finale[10]. Per dirla con Aristotele, qualsiasi racconto presuppone le due cause estrinseche, quella efficiente che è il principio stesso del movimento e quella finale che ne determina l’orientamento[11].
Ma la finalità è nel racconto una cosa da decifrare, attraverso ciò che l’azione lascia trasparire: segni da individuare e interpretare, indizi da connettere l’uno all’altro, illuminazioni e ostacoli che si succedono per sollecitare l’acume e mantenere la curiosità. L’azione, come ha spiegato Jean Molino, è sempre dotata di un versante interno e di un versante esterno, tra cui non c’è «corrispondenza diretta» perché il versante interno è noto solo al «soggetto agente». L’osservatore può soltanto «proporre un’interpretazione delle azioni altrui, facendo ipotesi sulle ragioni e i motivi che le rendono comprensibili»[12].
L’intenzione sarebbe quindi il versante interno dell’azione, e il romanziere sfrutta l’alternativa o l’alternanza dei punti di vista (focalizzazione interna o esterna) per porre il lettore di volta in volta nella situazione di uno spettatore complice o di uno spettatore giudice, anche se la possibilità del giudizio si fonda sia sui dati raccolti nell’intimo, sia sui segni osservati dall’esterno. Nella complicità interiore la finalità dovrebbe essere più evidente, ma in fin dei conti si rivela ancor più sfuggevole. Ciò che si vede dall’interno, i pensieri, le emozioni, i sentimenti, le volontà, le delusioni, sono certo più espliciti degli atti, ma esigono anch’essi, ad un altro livello, una decifrazione. Gli atti stanno ai pensieri come i pensieri stanno ad un elemento senza nome che li precede e li determina. Se l’interiorità è fatta di coscienza, di linguaggio, di volontà e di passioni, ciascuna di queste cose può spiegare le azioni che dall’esterno sembravano enigmatiche, ma può anche chiedere di farsi spiegare da un elemento ulteriore.
L’interiorità diventa, sulla scena romanzesca, un luogo stratificato, dove noi lettori cerchiamo come archeologi le cause delle cause, dopo aver analizzato le azioni come sintomi. Ma lo scavo, se non ha limiti di principio, conosce però limitazioni di fatto, e il lettore non può continuamente scendere verso il profondo, deve anche spesso risalire. Così contempla mano a mano gli elementi che costituiscono l’interiorità, osserva i rapporti tra di loro, fa ipotesi sulla loro gerarchia, pondera la loro influenza.
Allora il modello che ho dapprima proposto, secondo cui gli atti e il «versante esterno» erano spiegati dai pensieri e dal «versante interno», può capovolgersi, e i motivi confessati nell’intimo possono a loro volta esser spiegati dagli atti. Voglio dire che se l’azione non coincide con le spiegazioni proposte dal personaggio nel suo foro interiore, questa stessa azione può diventare il sintomo di una causalità nascosta, più profonda e più segreta ancora di un movente consapevole. La causalità rimbalza quindi verso gli atti, dopo esser scesa verso i pensieri. Se nel caso di un racconto poliziesco si tratta semplicemente di passare dal versante esterno al versante interno per capire chi ha voluto uccidere la vittima, in un romanzo psicologico si tratterà di fare anche il percorso inverso, ritornando a chiedere agli atti la chiave segreta di una causalità non sempre distinguibile al di là dei moti volontari o almeno consapevoli.
Gli atti stanno alla coscienza come la coscienza sta all’inconscio, ma l’inconscio si rivela proprio ancor più negli atti che nei pensieri, richiudendo il cerchio dell’azione romanzesca.
Il teatro dell’intenzione
Questo modello stratificato del comportamento riduce le istanze della personalità ad una gerarchia non sempre verificabile, e, come ogni metafora esplicativa, ha i suoi i suoi meriti e i suoi difetti. Il suo merito principale è di mostrare che l’intenzione, nel romanzo, non può ridursi ad un’istanza unica e monolitica, ma che si scinde sempre in una pluralità di moventi, producendo una problematica che siamo soliti chiamare psicologia. La metafora archeologica illustra questa pluralità, ma anche lo sforzo di superare le apparenze, lo scavo che raggiunge gli strati più nascosti e segreti.
È pensabile un racconto privo di questa stratificazione? Probabilmente non nell’ambito della letteratura canonizzata come grande, ma forse nella letteratura di second’ordine, popolare, infantile. Nulla vieta di raccontare una storia in cui l’intenzione di ciascun personaggio sia uniforme e costante, anche se i suoi atti la dissimulano: la storia di un lucido assassino, e del suo rivale, un giustiziere non meno consapevole. Ma la nostra cultura letteraria ha valorizzato piuttosto tutto ciò che si allontana da questa semplicità, e ha relegato in generi inferiori le produzioni che la adottano sistematicamente. Per noi tutti la vera psicologia romanzesca comincia laddove sorge, al di là della ricerca di un movente (chi ha ucciso e perché?), un interrogativo sul movente stesso. Si potrebbe dire laddove, una volta trovato il movente del delitto, si comincia a cercare il movente del movente. In questo senso si tratta di strati da penetrare. Possiamo forse accontentarci della miseria di Raskolnikov?
Ma i limiti della metafora archeologica si incontrano quando la disposizione delle istanze psicologiche non sembra gerarchizzata, almeno non immediatamente. Allora l’intenzione organizza la sua pluralità in modo più drammatico che gerarchico: e si presenta come uno spazio teatrale, una scena su cui si incontrano e si scontrano le diverse istanze. La metafora teatrale ha, a sua volta, il merito di farci pensare alla complessità psicologica come ad un insieme di forze diverse che producono con le loro interazioni una risultante: il comportamento. Ma quali sono queste istanze, nel romanzo? Siamo abituati a chiamarle in vario modo, e a elencarle con ritmo binario: egoismo e generosità, concupiscenza e rinuncia, passione e saggezza, anima e corpo, rivolta e obbedienza, tentazione e grazia, amore e amor proprio, ma anche coscienza e incoscienza, volontà e desiderio, ragione e sentimento.
Questa serie un po’ ripetitiva di antitesi correnti può essere ridotta e semplificata, ottenendo due opposizioni principali, quella tra un’istanza consapevole e una inconsapevole, e quella tra un’istanza positiva e una negativa. La psicologia del personaggio sembra in ogni caso imperniarsi su queste due coppie oppositive: una di tipo cognitivo, l’altra di tipo assiologico. L’intenzione sembra scindersi in forze che vanno analizzate nella loro dinamica, perché la frontiera tra coscienza e incoscienza è sempre labile e precaria, e che vanno giudicate nella loro essenza, perché il carattere finalistico delle intenzioni permette di classificarle come buone o cattive.
Se prendiamo in considerazione la contrapposizione assiologica, ci accorgiamo subito che si tratta di assiologia morale. Le azioni umane, nella finzione letteraria, sono buone o cattive, non belle o brutte, né vere o false. Si tratta quindi di adottare come categorie il bene e il male: cerchiamo di pensare alla loro pertinenza in un qualsiasi racconto. È chiaro che il modello più semplice ci è offerto dal racconto per l’infanzia, in cui le due categorie dei personaggi buoni e dei personaggi cattivi sono ben distinte e separate. Chiunque abbia raccontato una storia a un bambino sa quanta importanza abbia questa distinzione per la comprensione del racconto. I fatti diventano letteralmente incomprensibili se i punti di riferimento morali sono cancellati o oscuri. In una prefazione ottocentesca alle favole di Florian si legge:
Perché un libro sia adatto all’infanzia, bisogna innanzitutto che sia semplice: la semplicità, questa condizione prima delle opere belle, è proprio ciò che ci vuole per l’infanzia; inoltre è necessario che nel libro non ci sia alcuna confusione tra il bene e il male, e che l’uno sia attentamente separato dall’altro in modo che nessuna cattiveria vi possa trovare una giustificazione[13].
Le regole di questo paradigma narrativo sarebbero tre: distinzione accentuata dei caratteri morali, evidenza di questi caratteri (i buoni sono belli, i cattivi sono brutti), permanenza degli stessi caratteri (un buono non diventa mai cattivo, un cattivo non diventa mai buono). Come tutti i paradigmi, anche questo è così astratto che forse non se ne troverebbe neppure una sola applicazione perfetta. Ma configurarlo è utile per capire due cose: primo, che tutta la psicologia romanzesca tende ad allontanarsene, perché non può esistere senza pluralità di istanze all’interno del personaggio, e che l’immenso corpus del romanzo è fatto di mille diversi tentativi di non rispettare il paradigma infantile. Secondo, che in realtà ci sono due meccanismi diversi di funzionamento morale di un racconto: quello in cui bene e male coincidono con diversi personaggi (o gruppi di personaggi) e quello in cui bene e male si fronteggiano sulla scena interna del personaggio. Probabilmente in ogni narrazione i due meccanismi coesistono in proporzioni ogni volta diverse, e non dovrebbe essere impossibile ponderarli, almeno approssimativamente. Il primo meccanismo non è certo assente dalla letteratura consacrata, ed è più attivo in certi generi letterari, come l’epica. Nel romanzo può essere parzialmente modificato o contraddetto, non necessariamente cancellato dal secondo, che il canone occidentale esalta: il romanzo è per eccellenza psicologico, e organizza il confronto di istanze morali sulla scena interiore.
Il modello letterario che più si avvicina al paradigma infantile è quello dell’«immaginazione melodrammatica», descritto da Peter Brooks[14], in cui sembra tornare a manifestarsi una elementare e ingenua esigenza del lettore, in un certo senso rimossa dal canone letterario elevato. Dal mélodrame di Pixérécourt al romanzo popolare di Sue, la morale riorganizza in base alla sua semplice polarità il sistema dei personaggi. Ma c’è una differenza da notare: contrariamente al racconto per l’infanzia, l’immaginazione melodrammatica contempla la possibilità che un personaggio cattivo diventi buono, alla sola condizione che lo diventi di colpo. Nel mondo umano dei Misteri di Parigi, tutto è bianco o nero, e non c’è posto per il grigio; un assassino può trasformarsi in santo, ma non starà a lungo a tormentarsi sul dilemma tra il male e il bene, e non si attarderà nelle mezze misure[15]. In questo senso lo schema melodrammatico potrebbe esser situato a metà strada tra il paradigma infantile, in cui gli attori si identificano sempre una volta per tutte agli attanti morali, e il paradigma del romanzo psicologico, in cui questa identificazione è evitata. Nel personaggio melodrammatico riconosciamo sempre uno solo degli attanti, ma non sempre lo stesso; le due istanze morali si succedono in lui, invece di manifestarsi contemporaneamente e conflittualmente.
La questione dei tempi della trasformazione morale è decisiva. Se l’Innominato di Manzoni non ci pensasse un po’, prima di passare dalla parte dei buoni, starebbe sullo stesso piano dello Chourineur di Sue, convertito dall’esempio fulminante di Rodolphe. Idem per le conversioni al male. Nel Dom Carlos di Saint-Réal, romanzo del 1672, si trova questa riflessione a proposito di due personaggi che, nonostante si sentano minacciati, non decidono subito di sbarazzarsi del loro mortale nemico tramite l’omicidio:
Nessuno diventa scellerato di colpo. Non ogni sorta d’anima può decidere di commettere una grande cattiveria la prima volta che questa le viene in mente. Si giunge al crimine solo per gradi, proprio come si giunge alla virtù[16].
Agli antipodi del paradigma infantile, e anche della sua variante melodrammatica, il romanzo come lo concepisce Saint-Réal deve concentrarsi proprio su quel momento intermedio tra la tentazione del male e la scelta del bene, stendersi nello spazio del conflitto, agitare le forze in gioco, animare la battaglia, rappresentare la lenta successione di sfumature, insistere sulle ambiguità e le ibridazioni. Solo così potrà svolgere la sua missione, allontanandosi dallo schematismo delle opposte estremità e analizzando negli stadi intermedi il precario equilibrio delle forze e la dinamica delle lente trasformazioni.
I diversi modelli psicologici del romanzo corrispondono a diverse maniere di pensare alla complessità interiore dei personaggi, e di definire le forze in gioco. Facendo ricorso alla teologia o alla morale prescrittiva, il romanzo può dare alla contrapposizione fondamentale di bene e male l’aspetto di volta in volta specifico dello scontro tra vizio e virtù, tra peccato e grazia, tra legge e infrazione, tra appetiti e continenza. L’interesse del personaggio risiede nella sua natura composita e contraddittoria, e l’acume del lettore si esercita su questa complessità, grazie alle categorie morali di cui dispone. Così ritroviamo sempre la scena teatrale e lo scavo archeologico. Ciò che il romanziere dispone contraddittoriamente, il lettore e il critico cercano di configurarlo gerarchicamente: cercano cioè di trasformare il dramma in stratificazione, e lo spettacolo in scavo.
Che fa il critico, quando afferma che invece dello scontro tra dovere e desiderio, o tra ragione e passione, in un certo personaggio dobbiamo distinguere una volontà nascosta, dietro a una volontà esibita? Che altro è l’interpretazione psicologica, se non gerarchizzazione di istanze che dapprima appaiono sullo stesso piano? Che altro pensa il lettore attivo, se non che al di là dell’intenzione consapevole c’è un’altra intenzione, più profonda e più decisiva? E che dietro alle volontà ci sono moventi sconosciuti al personaggio stesso, talvolta non chiaramente pensati nemmeno dal romanziere? In questo modo si stratifica sempre di più l’intenzione: non solo il desiderio si nasconde dietro al discorso della ragione, ma questo stesso desiderio contiene trappole e doppi fondi in cui altre istanze agiscono.
In questo modo l’attività archeologica complica ulteriormente l’opposizione assiologica, e così facendo moltiplica l’incertezza cognitiva, spostando sempre più in là la frontiera tra noto e ignoto, tra consapevole e inconsapevole. Nell’interiorità sempre più profonda del personaggio, si incontra un punto oltre il quale non c’è più materia per lo scavo (mancano i concetti con cui pensare altri strati più profondi), ma c’è ancora bisogno di andare oltre. Là si perdono le tracce dell’intenzione, che si comincia ad immaginare nel buio di un’origine inafferrabile.
Forze interne e forze esterne
Questa origine può anche essere pensata come il punto in cui si toccano le forze interne e le forze esterne che premono sul comportamento umano. Una delle più grandi questioni, non solo letterarie, è certo quella della natura interna o esterna degli impulsi. Il racconto biblico del peccato originale e la materia della tragedia greca mettono in scena entrambi, nonostante le profonde differenze, un’interrogazione su ciò che nel comportamento malvagio venga dall’esterno dell’uomo. Eva tentata dal serpente, e Edipo in preda a forze sconosciute, vanno incontro a catastrofi provocate almeno in parte da qualcosa che non trae origine in loro. Certo, la cultura biblica produce una ben più forte identificazione del movente malvagio interno e della forza perversa esterna, personalizzata nel demonio, di quanto faccia la cultura pagana, e la aitìa oscilla molto più del peccato tra infrazione volontaria e furore involontario, ma i due schemi potevano essere avvicinati grazie a un tratto comune, e infatti non solo una tragicità, ma perfino una tragedia cristiana è esistita.
Nella visione biblica l’intervento di un elemento estraneo nel punto più intimo della persona umana, in quel misterioso centro in cui si determinano le intenzioni, drammatizza l’identificazione tra il movente interiore (quanto di più segretamente individuale ci sia nell’uomo) e la pressione esterna (quanto di più lontano, estrinseco, alieno all’uomo). L’idea di tentazione è tutta in questa possibilità di confondere i due elementi, di ridurli ad uno. Nel mondo tragico pagano invece, questo intervento, definendosi come fato, sembra dapprima mantenere una maggior distanza tra la forza esterna e il movente interno. Eppure la tragedia stessa semina dubbi su questa distinzione, e si presta ad essere interpretata in modo psicologico, cioè attraverso la trasformazione delle forze esterne in istanze della personalità.
La convergenza di questi schemi diversi non è impossibile ed è feconda, anche se resta imperfetta. Permette comunque di rilanciare sempre un interrogativo sulle origini del comportamento, associando e separando senza sosta ciò che appartiene più intimamente all’uomo e ciò che invece precipita su di lui. In questo senso il bene e il male non possono essere concepiti come interamente umani, pur essendo intesi come elementi intrinseci all’uomo. Tramite il bene e il male si tessono i rapporti dell’uomo con Dio e eventualmente con la sua antitesi demoniaca. E se il male appartiene all’uomo solo perché dapprima è appartenuto al diavolo, il bene gli appartiene solo perché Dio gliene concede un frammento.
La fatalità o il peccato, in modi diversi, dicono l’eterogeneità del male, ma dicono anche, attraverso innumerevoli racconti, che l’assoluta inumanità del male si converte sempre in una problematica umanità. E che tutto il divino riguarda l’uomo proprio mentre lo trascende. Nella psicologia letteraria, questo paradosso ha prodotto una serie di paradigmi binari, che tutti convergono sull’alternativa tra agire volontario e agire involontario. Che si tratti del conflitto tra volontà e destino tragico, tra ragione e follia, tra necessità e scelta, tra grazia e tentazione, sempre e in ogni caso si contrappongono l’umano conchiuso in se stesso e l’umano aperto alle influenze esterne.
Il teatro dell’intenzione non esisterebbe, se non potesse ospitare un confronto tra forze non solo diverse, ma propriamente eterogenee. La loro interazione, che determina in ogni istante il comportamento del personaggio, pone quindi essenzialmente una questione: quella della libertà umana. La morale è un problema di scelte, esattamente come il romanzo è un problema di scelte, e si organizza attorno a dei nodi narrativi costituiti da altrettante decisioni (consapevoli o meno): sposarsi o non sposarsi? con questo o con quello? uccidere o non uccidere? restare o fuggire? vendicarsi o perdonare? persistere o arrendersi? credere o dubitare? Ognuna di queste alternative tra atti contrapposti sembra presupporre un’alternativa interiore tra intenzioni opposte, corrispondenti a loro volta ad istanze che vanno definite dal lettore, distinte nel loro aggrovigliarsi, interpretabili nel loro dissimularsi.
Così il teatro dell’intenzione spezza l’unità del personaggio, dispone in uno spazio ordinato le istanze da esaminare e da gerarchizzare, impedisce la coerenza diretta e completa tra personaggio e azione, complica il rapporto tra quesi due elementi, situa la lotta tra bene e male sui due piani distinti del sistema dei personaggi e del sistema psicologico. Interiorizzando il conflitto, ovviamente, si interiorizza anche l’ostacolo. E l’antagonista che si oppone alla ricerca del personaggio, alla sua volontà di ottenere qualcosa, smette di essere un secondo personaggio, per diventare un pezzo del primo, una parte di lui. Complicandosi nell’ambiguità tra umano e divino, questo ostacolo deve produrre una profonda incertezza. La libertà umana è sottoposta dalla letteratura, soprattutto teatrale e romanzesca, a un martellamento problematico pari solo a quello che con altri mezzi le ha inflitto la teologia del peccato e della grazia.
La psicologia tra morale e scienza
In tempi moderni, certo, le istanze che agiscono sulla scena della decisione non sono più le stesse. Ma siamo sicuri che non occupino comunque, nell’organizzazione drammatica del romanzo, le caselle un tempo occupate dai concetti morali? A volte si ha l’impressione che le forze antiche ricevano nomi nuovi, o che forze nuove entrino in scena con nomi antichi. Le cose si mescolano, e il romanzo acquisisce nuove prospettive ripetendo gesti tradizionali, oppure ripercorre le strade del passato proprio mentre vorrebbe aprirne di nuove.
In un passo della prefazione a Thérèse Raquin, Zola ammette con un certo imbarazzo che la parola rimorso, da lui usata per definire lo stato d’animo dei suoi protagonisti assassini, non è adatta alla psicologia che lui stesso rivendica: «ciò che sono stato obbligato a chiamare rimorso consiste in un semplice disordine organico, in una ribellione del sistema nervoso, che si tende fino a spezzarsi»[17]. Il suo imbarazzo è significativo, ed emblematico della transizione da un modello psicologico di origine morale a un modello dichiaratamente scientifico. Il suo è un sistema basato sulla traduzione: tutti i fenomeni psicologico-morali, tutte le istanze interne che sono state nominate con categorie morali di origine religiosa, vanno tradotte in linguaggio scientifico. E la traduzione si fonda su una riduzione: tutto ciò che la cultura religiosa ha interpretato come realtà morale è da reinterpretare come realtà psico-fisiologica. L’istinto, il bisogno, la patologia nervosa, sono le realtà umane che vanno svelate, strappando i veli ideologici che le nascondono da millenni. Queste realtà sono materiali e si possono misurare, sono legate alla natura animale, e si possono comprendere senza fare alcun ricorso alla trascendenza, all’anima, all’origine divina. In questo senso si tratta di riportare tutte le istanze nell’alveo dell’uomo e del suo corpo, e quindi di renderle tutte esclusivamente interne, abolendo quel contatto tra forze interne e forze esterne su cui si era concentrata la psicologia morale. Tutto ciò che l’uomo fa viene da lui, e non dalle opposte pressioni della tentazione e della grazia.
Però le cose si complicano quando ci accorgiamo che il concetto di istinto, di cui fa uso il primo Zola, finisce per mettere in gioco, nel personaggio romanzesco, una forza per definizione collettiva, e che il comportamento è quindi nuovamente determinato da un agente bensì naturale, ma non individuale. Usciamo quindi da ogni teologia, il che è ideologicamente rilevante, ma non dal dissidio tra volontà individuale, interna, e pressione universale, esterna, dissidio che è letterariamente decisivo. Addirittura ritroviamo quella temibile identificazione tra l’intimità più nascosta, da cui sembra sprigionarsi la pulsione, e l’universalità più assoluta, da cui proviene la prescrizione. Che sia ormai la scienza e non più la religione a dare un nome e un senso a questa forza che preme sull’uomo e si manifesta al centro del suo essere, questo cambia i connotati ideologici, ma non l’organizzazione romanzesca.
Il terribile problema della libertà, da cui dipende tutto il complesso equilibrio del personaggio, resta intatto in uno schema psicologico dominato dalla violenza degli impulsi naturali, a cui si aggiungono le crisi nervose e gli scompensi cerebrali[18]. La forza esterna sembra non precipitare più sull’uomo dall’alto dei cieli, né salire dalle profondità infernali; assale piuttosto l’uomo alle spalle, penetrandone la volontà, determinandone il comportamento. Allora il nemico della volontà libera e cosciente sarà il corpo, divenuto un registro delle leggi animali, un dispotico notaio che applica alla lettera il codice della natura.
Quando Zola verrà a conoscenza delle teorie del dottor Lucas[19], potrà sostituire l’istinto con l’eredità, e usufruire di una gamma più ampia di impulsi. Questo gli permetterà soprattutto, nel ciclo dei Rougon-Macquart, di caratterizzare in modo più preciso i personaggi, dominati non solo da una necessità naturale universale, ma da una tara famigliare precisa. L’alcoolismo da un lato, la famosa fêlure dall’altro, produrranno personaggi su cui agisce una sorta di destino laico e neurologico, non meno violento di quello tragico. All’azione della forza naturale esterna, che si infiltra nel sangue, il personaggio può solo opporre resistenza, ed è palesemente incapace di opporvisi con successo. Ma qual è la forza che in lui resiste alla prepotenza dell’eredità? La coscienza e la volontà non sono più sostenute da un’illuminazione divina, e devono appoggiarsi anche loro a un dato verificabile. Quindi, per completare il quadro e per arricchire la drammatizzazione, Zola mette in gioco un altro elemento, il milieu, cioè l’insieme di agenti sociali che impongono a loro volta regole e dettano tendenze all’individuo. Questo dato storico viene a scontrarsi con il dato naturale, e la coscienza umana non è altro che l’interstizio vitale tra le opposte pressioni di una natura e di una società entrambe dispotiche. Un romanzo come Le Rêve mette in scena schematicamente questa alternativa, e mostra un personaggio bloccato dall’equivalenza delle forze che premono su di lui.
Quello di Zola è soltanto un esempio, ma davvero esemplare. Zola ci aiuta a capire, perché la radicalità polemica della sua proposta produce chiarezza. Brandendo come una bandiera la frase di Taine «il vizio e la virtù sono dei prodotti, come il vetriolo e lo zucchero»[20], ha reso più visibile un processo in corso, che riguardava il romanzo in molte sue tendenze, ben al di là del naturalismo.
Tutta la letteratura romanzesca moderna ha dovuto riadattare le sue categorie psicologiche a un mondo in cui la morale stava perdendo i suoi diritti sull’anima. O almeno una parte dei suoi diritti, contestati non solo dalla filosofia, con cui aveva imparato a spartirsi il terreno, ma anche dalla scienza, con cui il compromesso era meno facile. L’alienismo ha creato, già nella prima metà dell’Ottocento, una visione della psiche in cui la contrapposizione tra norma e malattia si complicava, si arricchiva di sfumature, si confrontava alla infinita gamma dei comportamenti, e tendeva a sostituirsi alla contrapposizione tra bene e male. L’Ottocento ha conosciuto il moderno imbarazzo di fronte al crimine del folle, si è spinto sul terreno accidentatissimo dell’irresponsabilità giuridica, si è posto il problema degli stadi intermedi tra coscienza e incoscienza, si è stupito e interrogato di fronte alla palese compresenza di ragione e follia, ha cercato di darsi nuove categorie per orientarsi nella foresta dei pensieri, degli impulsi e dei comportamenti.
La tentazione di ridurre i fatti psicologici a fatti fisiologici ha certo posto un’ipoteca su questo grande sforzo concettuale, ma gli ha anche dato una straordinaria violenza polemica. Uscita da questo scontro tra corpo e spirito, la psicologia ha finito per assestarsi in una zona intermedia tra la trascendenza religiosa e il materialismo organico. Lo spazio della psicologia è stato sottratto alla morale, e la nuova disciplina ha definito il proprio oggetto come una cosa a sé stante, la moderna psiche. La letteratura è stata protagonista di questa rivoluzione, nei tre secoli in cui si è lentamente e progressivamente demoralizzata. Ha rotto il suo contratto con la morale su due piani: quello della finalità edificante, e quello della solidarietà tra morale e psicologia romanzesca. Ha fatto entrare nella drammatizzazione del personaggio nuove forze, e le ha battezzate con nuove categorie; ha ridefinito la scena interiore facendovi apparire la mania, la demenza, l’idiozia, l’allucinazione, la dissociazione, la perversione, la depressione, la nevrosi.
Tutte queste forze erano inedite, perché concepite scientificamente e al di fuori di qualsiasi valutazione morale, ma erano anche compatibili con gli schemi elementari a cui la psicologia morale aveva dato forma nel romanzo. Garantivano quindi una buona dose di novità, che le rendeva rivoluzionarie, e una buona dose di continuità, che le rendeva comprensibili ed efficaci. Calandosi nella parte del male, l’impulso biologico assumeva una maschera nota; prendendo i panni del bene, la legge sociale era a sua volta riconoscibile. A meno che non si voglia capovolgere la metafora, e pensare che siano state le antiche forze morali ad adottare le maschere della natura e della società, della malattia e della salute, dell’Es e del super-io, per insinuarsi sulle nuove scene e perpetuare il dramma antico attraverso la diagnosi moderna.
Note
[1] «Il faut des spectacles dans les grandes villes, et des romans aux peuples corrompus.», «Préface» della prima edizione di J.-J. Rousseau, La Nouvelle Héloïse, 1761.
[2] W. Siti, «Il romanzo sotto accusa», in Il romanzo, Einaudi, vol. I, Torino 2001, p.129-155.
[3] «Jamais fille chaste n’a lu de romans», ibidem.
[4] «[…] beaucoup plus propre à bien entretenir damoizelles qu’à doctement écrire» J. du Bellay Défense et illustration de la langue française, 1549, cap. V : «Du long poème français».
[5] «Dans un roman frivole aisément tout s’excuse; / C’est assez qu’en courant la fiction amuse», N. Boileau, Art poétique, III, v. 119-120.
[6] P. Nicole, Traité de la comédie et autres pièces d’un proces au théâtre, éd. par Laurent Thirouin, Paris, Champion, 1998, p.35.
[7] « Si quelques romans nouveaux paraissent encore, et s’ils font pour un temps l’amusement de la jeunesse frivole, les vrais gens de lettres les méprisent. » Voltaire, «Essai sur la poésie épique», The Complete Works of Voltaire, a cura di U. Kölving, vol.3B, Voltaire Foundation, Oxford 1996, p.495.
[8] P.-D. Huet, Lettre à Monsieur de Segrais de l’Origine des Romans (più tardi Traité de l’Origine des Romans), Barbin, Paris 1670.
[9] Lettera di Madame de Sévigné a sua figlia, 12 luglio 1671, Correspondance, vol.I, Gallimard, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, 1972, p.294.
[10] Si obietterà che è possibile dotare di intenzione l’universo, ma nel romanzo l’intenzione universale (Provvidenza, Storia, ecc.) sembra generalmente manifestarsi attraverso quei personaggi che chiamiamo, appunto, provvidenziali.
[11] La famosa distinzione di Aristotele tra i quattro tipi di causa si trova nella Fisica
[12] J. Molino et R. Lafhaïl-Molino, Homo fabulator: théorie et analyse du récit, Leméac / Atctes Sud, s.l. 2003, p.26.
[13] Florian, Fables, illustrées par J.-J. Grandville et précédées d’une notice sur la vie et les ouvrages de Florian par P.-J. Stahl [pseudonimo dell’editore Pierre-Jules Hetzel], Dubochet, Paris 1842.
[14] P. Brooks, The Melodramatic Imagination : Balzac, Henry James, Melodrama and the Mode of Excess, Yale University Press, New Heaven, 1976.
[15] È quella che Brooks chiama «the logic of the excluded middle», ivi, p.18.
[16] « Personne ne devient scélérat tout d’un coup. Il n’appartient pas à toutes sortes d’âmes de résoudre une grande méchanceté la première fois qu’elle vient dans la pensée. On n’arrive au crime que par degrés, de même qu’à la vertu. » C. Vichard de Saint-Réal, Dom Carlos, nouvelle historique, a cura di L.Plazenet, Le Livre de Poche, Paris, 2004, p.95.
[17] «[…] ce que j’ai été obligé d’appeler leur remords, consiste en un simple désordre organique, en une rébellion du système nerveux tendu à se rompre.» E. Zola, prefazione alla seconda edizione di Thérèse Raquin, Albert Lacroix, Paris 1868.
[18] Sono i termini stessi usati da Zola: «Thérèse et Laurent sont des brutes humaines, rien de plus. J’ai cherché à suivre pas à pas dans ces brutes le travail sourd des passions, les poussées de l’instinct, les détraquements cérébraux survenus à la suite d’une crise nerveuse», ibidem.
[19] P. Lucas, Traité philosophique et physiologique de l’hérédité naturelle dans les états de santé et de maladie du système nerveux…, Baillière, Paris 1847-1850.
[20] Questa frase è stata posta da Zola come epigrafe della seconda edizione di Thérèse Raquin. Taine aveva scritto: «Le vice et la vertu sont des produits, comme le vitriol et le sucre, et toute donnée complexe naît de la rencontre d’autres données plus simples dont elle dépend» H. Taine, introduzione alla Histoire de la littérature anglaise, Hachette, Paris 1863, p.XV.