Archivio mensile: febbraio 2016

LUCA DANTI – METAMORFOSI DEL MELODRAMMA RISORGIMENTALE

Download PDF

[Luca Danti (San Miniato, 1987) si è laureato in Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Pisa, e attualmente è dottorando di studi italianistici del Dipartimento di Filologia Letteratura e Linguistica. Il suo lavoro di tesi magistrale è diventato un volume dal titolo Il melodramma tra centro e periferia. Scene di provinciali all’opera nella narrativa dell’Ottocento e del Novecento, Venezia, Ca’ Foscari, 2014 . Presentiamo qui di seguito il capitolo del libro dedicato a Il Birraio di Preston (1995), romanzo in cui Camilleri, riallacciandosi originalmente a temi già toccati nel Gattopardo, mostra come il melodramma, dopo il 1861, passi da ʻcolonna sonoraʼ del Risorgimento ad arma di oppressione del centro sulla periferia del Regno d’Italia].

immagine pupi

I.

Alberto Banti, nel suo saggio La nazione del Risorgimento, individua chiaramente il ruolo svolto dal melodramma nella diffusione dei messaggi patriottici, in particolare del concetto di unità dei ‘fratelli’ italiani contro lo straniero oppressore: «una tragedia, una poesia, un romanzo o un’opera lirica potevano più facilmente toccare corde profonde nell’animo di un numero incomparabilmente maggiore di fruitori, di quanto non fosse mai stato possibile per un freddo e distaccato saggio analitico».[1] Di conseguenza lo storico inserisce fra i titoli del suo «canone risorgimentale»: L’assedio di Corinto, Mosè, Guglielmo Tell, Donna Caritea, Norma, Marino Faliero, Nabucco, I Lombardi alla prima crociata, Ernani, Attila, Macbeth e La battaglia di Legnano.[2]

Una conferma letteraria ci è offerta da Massimilla Doni (1837-1939); nel racconto di Balzac, il terzo capitolo è interamente dedicato a una recita del Mosè in Egitto di Rossini alla Fenice di Venezia. Fatte salve le debite differenze, il Mosè anticipa a livello di trama e di personaggi numerose situazioni del Nabucco: gli Ebrei deportati, la carismatica guida del popolo eletto, l’empio persecutore, l’amore di due giovani appartenenti a popoli nemici.
Il pubblico di Balzac coglie le sottili allusioni alla situazione politica presente a partire dalle piaghe che prostrano la famiglia del faraone e il suo popolo; così commenta Massimilla: «ʻComprendete il magnifico lamento delle vittime di un Dio che vendica il suo popolo. Solo un italiano poteva scrivere un tema così fecondoʼ».[3] Il culmine dell’azione sacra è costituito dalla celebre preghiera «Dal tuo stellato soglio», intonata mentre gli Ebrei si trovano nei pressi del Mar Rosso, dopo la liberazione dall’Egitto. Il calore degli applausi e i pensieri riportati da Balzac non necessitano di commenti: «ʻMi sembra di aver assistito alla liberazione dell’Italiaʼ, pensava un milanese. ʻQuesta musica risolleva le teste prostrate, e infonde speranza ai cuori più inertiʼ, esclamava un romagnolo».[4]
È risaputo che soprattutto i cori dei melodrammi verdiani furono la ‘colonna sonora’ del Risorgimento, la traduzione in musica degli appelli all’unità, a eliminare i particolarismi e le lotte intestine, a opporsi compattamente all’invasore. A prescindere dalle molteplici correnti che promossero la riscossa nazionale italiana, questa fu l’immagine ufficiale, non priva di retorica, ma neppure di riscontri nella realtà, che recepì un osservatore straniero come Balzac.

II.

La situazione vista da lontano e con il senno di poi non poteva non suscitare scetticismo e disincanto. In un brevissimo passaggio del Gattopardo (1958) si fa riferimento non senza ironia all’azione di collante patriottico svolta dal melodramma. Dopo aver spaventato Chevalley con alcuni favolosi aneddoti più o meno sanguinari, Tancredi ha pietà del buon piemontese e decide di cambiare argomento di conversazione: «parlò di Bellini e di Verdi, le sempiterne pomate curative delle piaghe nazionali».[5]
Un altro indizio dell’insofferenza di Lampedusa nei confronti del melodramma è il nome dell’alano di don Fabrizio, Bendicò. Così scrive Orlando: «l’origine del nome […] si rifà a due versi del libretto del Rigoletto («Ah! ah! rido ben di core – che tai baie costan poco…»); come si vede la presenza aborrita e lo scherno del melodramma italiano sono insiti nel Gattopardo ancor più di quanto non appaia».[6] Sempre secondo Orlando, i versi cantati da Maddalena nel quartetto Bella figlia dell’amore bene si attaglierebbero al carattere cordiale, espansivo, irrazionale dell’enorme cane di casa Salina, complementare al temperamento introverso del suo padrone.[7]
Quando don Fabrizio arriva nella sua residenza di campagna, si legge: «Appena le carrozze entrarono sul ponte la banda municipale attaccò con foga frenetica ʻNoi siamo zingarelleʼ primo strambo e caro saluto che da qualche anno Donnafugata porgeva al suo Principe».[8] Ancora una citazione dal melodramma verdiano e, ancora una volta, spie testuali che fanno percepire un riso poco benevolo sulle labbra di chi scrive. Viene da chiedersi perché proprio quel coro della Traviata e soprattutto perché eseguirlo con impeto orgasmico. Sono domande destinate a restare inevase: l’aggettivo «strambo» è rivelatore dell’incongruità di quell’omaggio. Agli occhi di don Fabrizio quella stravagante esecuzione bandistica appare priva di autenticità. È la musica di Verdi, la musica dei tempi nuovi, dell’Italia unita e liberale, dell’Italia dei Calogero Sedara. È significativo che di tutto il repertorio verdiano sia stato scelto l’orecchiabile coro delle zingarelle, che sicuramente non rientra fra le pagine più dense di aspirazioni indipendentistiche e patriottiche.
Quella che Lampedusa ordisce ai danni del melodramma è una rete costituita da fili quasi impercettibili: si è parlato di indizi, di spie. Lo scrittore spezza l’eclatante solarità dell’opera per mezzo di sottigliezze, disponendo ad arte delle allusioni rivelatrici che compromettono il rivestimento ideologico risorgimentale.[9] L’avversione per il melodramma è testimoniata da numerose pagine di Lampedusa,[10] ma il disprezzo non è tanto verso la forma d’arte in sé, quanto verso il «popolarismo melodrammatico», caratteristico dell’opera italiana dell’Ottocento. Orlando non a caso stabilisce una sinistra continuità definendo Il Gattopardo come «un libro contro il melodramma, o contro le piaghe del meridione, o contro le pecche del Risorgimento – aspetti complementari di quanto per lui [Lampedusa] era irreparabilmente deplorevole nella storia italiana degli ultimi cent’anni».[11]
Senza approdare alle conclusioni estreme di Lampedusa, Andrea Camilleri, nel Birraio di Preston (1995), continua con un tono più divertito il controcanto risorgimentale del Gattopardo: immediatamente all’indomani del 1861, il melodramma, parte consistente del patrimonio comune dei protagonisti del movimento unitario, diventa lo strumento dell’oppressione degli italiani sugli italiani, del centro sulla periferia del Regno. […]
Fin dalle primissime pagine l’esito delle guerre del Risorgimento viene strumentalizzato da don Memè, uno dei mafiosi locali, che, grazie alla testimonianza di alcuni funzionari del Regno, è stato scagionato dall’accusa di duplice omicidio. Uscendo dal carcere Emanuele Ferraguto non può trattenersi dall’esclamare: «“Ma quant’è bella l’Unità d’Italia”».[12] Lo Stato è avvertito come oppressivo anche da coloro che si sono battuti per l’unificazione; così don Pippino Mazzaglia: «“Io stesso, con le mie parole, i miei atti, con gli anni di galera, con l’esilio, ho dato una mano a fare quest’Italia che è diventata così com’è, una parte che soffoca l’altra e se si ribella, la spara”».[13]
Del resto già Tomasi di Lampedusa, in un lapsus di Chevalley, evidenziava la conquista della Sicilia da parte dei piemontesi, più che lo spontaneo congiungimento dell’isola al Regno: «“Dopo la felice annessione, volevo dire la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna”».[14] Dal canto suo, nella nascita del Regno d’Italia, il principe di Salina non vedeva altro che la prosecuzione del destino dei siciliani, da secoli costretti a portare il peso di «magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate».[15] La Sicilia è fatalmente una colonia e i suoi uomini sono vecchi, «vecchissimi». Chevalley cerca inutilmente di tamponare quanto si è lasciato sfuggire e non coglie la radicalità del pensiero di don Fabrizio: il compiacimento per il proprio ritardo, la fascinazione per ciò che è già morto, non è qualcosa di contingente, ma l’ontologia della Sicilia e dei suoi abitanti.

III.

Nel romanzo di Camilleri, il prefetto di Montelusa è la personificazione del potere che si prefigge di piegare la Sicilia con la forza. All’antica rivalità tra vigatesi e montelusani si aggiunge l’insofferenza per l’autoritarismo di Bortuzzi, il quale si intestardisce a voler inaugurare il Teatro Civico «Re d’Italia» di Vigata con Il birraio di Preston, melodramma giocoso in tre atti di Luigi Ricci, composto su libretto di Francesco Guidi. Bortuzzi è un funzionario che non ha alcun tipo di rapporto con la terra che è chiamato a governare in nome del re; questa astrattezza, questo scollamento dalla realtà, non fa altro che rendere ancora più inviso il potere dello Stato centrale: «“Voi sapete benissimo che io non amo uscire da ’asa. La Sicilia la honosco bene sulle figurine. Meglio che andarci di persona”».[16]
Nella sua Sicilia letteraria, a Vigata, Camilleri riunisce l’Italia neonata: il fiorentino Bortuzzi, gli alti graduati dell’esercito piemontese, il terrorista romano Traquandi, il questore milanese Everardo Colombo. L’impasto linguistico è accresciuto dall’italo-tedesco dell’ingegner Fridolin Hoffer; senza contare che alla lingua della voce narrante, a quella singolare mescolanza di italiano e siciliano caratteristica di Camilleri, si somma l’italiano impettito e burocratico – per esempio, nel manifesto del Birraio – e quello spiccatamente letterario dell’epistola che Bortuzzi indirizza alla moglie Giagia. Se i vigatesi avvertono come estranea l’autorità del prefetto, più in generale si può dire che l’incomunicabilità e i fraintendimenti sono i contrassegni di una costellazione di municipalismi tutt’altro che unitaria e omogenea. La formazione degli italiani auspicata da D’Azeglio è al suo stadio aurorale; spie linguistiche di questa condizione sono la netta predominanza dei dialetti e l’uso difensivo che se ne fa per non lasciarsi capire dagli altri.
L’ultimo capitolo del romanzo offre una rilettura dei fatti a distanza, che è poi la versione ufficiale e risistemata degli accadimenti. Nell’ottica della classe dirigente la costruzione di un teatro serviva a promuovere la crescita culturale della provincia depressa: «Col progressivo incremento delle condizioni economiche, la nostra cittadina cominciò a pigliare l’indirizzo di quel civile benessere che caratterizzò la vita italiana. Anche la borghesia mirò ad elevare il grado di cultura e cominciò ad accogliere i postulati della civiltà».[17]
La vita culturale di Vigata trova il suo organo promotore nel circolo cittadino «Famiglia e progresso», nome che esprime il saldo connubio tra i valori fondamentali della tradizione e la spinta positivistica e modernizzatrice della borghesia del secondo Ottocento. Al di là dei coloriti dibattiti che animano il circolo, come quello tra wagneriani e antiwagneriani,[18] bisogna tenere presente che sono proprio i membri di «Famiglia e progresso» i principali oppositori della scelta operistica di Bortuzzi, coloro che, come veri e propri congiurati, si impegnano a boicottare la prima. Il patto è suggellato dalle pagine di Bellini,[19] una gloria tutta isolana contrapposta al nemico, che può dirsi ‘straniero’ sia perché di stanza a Montelusa, sia perché rappresentante di un potere che viene da lontano. Seppure in un’ottica deformata, viene recuperato l’appello alla coesione che aveva infiammato gli eroi del Risorgimento. Non solo: la recita dell’opera di Ricci si carica paradossalmente di un significato politico, in quanto diventa l’occasione per un atto terroristico di matrice mazziniana contro lo Stato italiano.
La ristrettezza dell’orizzonte dei melomani vigatesi è resa palese nella loro inspiegabile avversione per la musica di Mozart; quando poi, per sentito dire, si diffonde la voce che Il birraio di Preston è «una dichiarata risciacquatura di una cosa di Mozart»,[20] la sorte dell’infelice decisione di Bortuzzi è segnata. Seppure frutto di un’analisi compiuta su un esiguo numero di esempi, è calzante il giudizio finale di Roberto Favaro: «[Camilleri porta] nella lettura non solo denso materiale musicale e ricchezze di sonorità linguistiche, ma anche la rilettura di un quadro della dimensione operistica italiana ottocentesca letta al di fuori dei grandi centri economico-culturali e delle grandi cattedrali del melodramma».[21]
L’inaugurazione del teatro di Vigata è innanzitutto una serata mondana; la rivalità che si stabilisce tra la moglie del medico Gammacurta e quella del preside Cozzo parla chiaro: «“Guarda che la musica non vale niente”. “[…] Sei diventato uno scienziato di musica, ora? E poi a me della musica non me ne impipa niente”. “Allora perché ci vuoi andare?”. “Perché ci va la signora Cozzo”».[22] Dal sapido scambio di battute tra marito e moglie emerge anche un altro elemento più volte messo in risalto: le posizioni dei melomani provinciali non sono quasi mai fondate su reali competenze; sono piuttosto puntigli, opinioni difese per partito preso. Il birraio di Preston potrebbe essere anche un capolavoro; magari, se non fosse stato imposto, sarebbe stato applaudito.
I coniugi Gammacurta hanno il loro posto in platea, due file più avanti rispetto al preside Cozzo e alla sua signora; il punto di vista del medico è il primo a essere chiamato in causa – «Il dottore si taliò attorno» –[23] e sarà quello privilegiato nel corso di tutta la serata. Ovviamente i commenti a voce alta degli altri convenuti non tardano ad arrivare:

A questo punto [durante l’esecuzione del primo coro], ad arrabbiarsi per davvero, fu don Gregorio Smecca, commerciante di mandorle e trita, ma soprattutto omo di puntiglio.
«Ma perché questi sei stronzi ripetono sempre le cose? Che credono, che siamo zulù? Noi quello che c’è da capire lo capiamo a prima botta, senza bisogno di ripetizione!». […]
«Sciavè, ma pirchì sunnu accussì allegri?» […]
«Perché vanno a travagliare» fu la risposta di Sciaverio
«Ma non dire minchiate!».
«E tu allora spialo a loro». […]
«Domando pirdonanza, ma me la volete contare giusta? Perché siete tanto contenti di ire a travagliare?».
Questa volta sulla scena ci fu un certo sbandamento. […]
Daniele Robinson allora si mise a regalare soldi a tutti mentre ordinava che si facesse una grande festa:
Cercate, trovate in tutti i contorni
i flauti, i timballi, i pifferi, i corni.
«I corni non hai bisogno di cercarli, vengono da soli» […]
«Ma il timballo non è quello che mi fai col riso, la carne e i piselli?» spiò seriamente Gammacurta alla moglie. […]
Daniele, come voleva la musica, ripeté l’occupazione del fratello in tono più alto.
Se quel brutto mestiero
di stare tra le palle…[24]
Le risa sguaiate coprono le parole di Daniele; il birraio cerca invano di esprimere la sua apprensione per il fratello, che con sprezzo del pericolo se ne stava «tra le palle e la mitraglia».

L’indisciplinato pubblico vigatese, che non si fa scrupoli neppure a intavolare una discussione con gli attori sul palcoscenico, attacca armato del suo buonsenso tutte le inverosimiglianze caratteristiche dell’opera del primo Ottocento: la ripetizione desemantizzante delle frasi, l’insensatezza dei contenuti, l’astrusa lingua poetica. Per quanto riguarda il primo elemento ha osservato Lavagetto: «Assunti dalla musica, i versi sono sottoposti a flagranti distorsioni […]. La struttura del libretto viene aggredita, piegata, distorta: le parole si disperdono e si sbriciolano in spezzoni di lunghezza variabile».[25] La poesia viene dissolta nella musica, le parole non contano tanto gli intrecci del melodramma romantico sono a dir poco prevedibili per il frequentatore assiduo. L’osservazione di don Gregorio Smecca sulle ripetizioni del coro d’apertura, rileva questo fenomeno e la sua immediata conseguenza: il modo in cui il testo viene recitato è innaturale, martellante e non ha alcun senso. È come se Smecca rifiutasse la sospensione dell’incredulità, necessaria per accettare la finzionalità esasperata del melodramma dove le frasi vengono ripetute ad libitum, dove, secondo Leopold Fechtner, «un uomo [che] viene pugnalato […], invece di morire, canta».[26] Non va meglio se si considera l’oggetto di questo assurdo modo di esprimersi; infatti, sul piano dei concetti, il gioioso panegirico della professione di birrai si scontra con la faticosa esperienza di Lollò Sciacchitano pescatore.
Il pubblico poco collaborativo si mette a fraintendere, si lascia prendere la mano dai doppi sensi: «Cercate i corni», «stare tra le palle». La puntualizzazione di Gammacurta sui «timballi» sta su un altro piano: è priva di malizia, è fatta con serietà. Se da una parte essa mette in luce la scarsa cultura dell’uditorio, dall’altra consente di ridere di una lingua poetica morta, ambigua, separata dalla realtà, che ricorre a «timballi» per non dire «timpani» o «tamburi».
Come nella Regenta (1884-1885) di Clarín, nel romanzo di Camilleri la farsa, o meglio, la doppia farsa del palcoscenico, dal momento che i commenti degli spettatori rendono ridicola l’opera già di per sé giocosa, si converte in tragedia nella realtà. Nel caso del Birraio di Preston, il rovesciamento è ancora più patente, in quanto la rappresentazione è una mise en abyme della dimensione siciliana, fondata sullo scambio di persona. Questa la riflessione dello sventurato Gammacurta: «Allora di che cosa poteva ridere per uno scangio più finto di quelli finti, gente che al contrario nello scangio quotidiano viveva?».[27] Quando il dottore riesce a uscire dal teatro per una porta secondaria, viene fermato da uno dei militi a cavallo che presidiano il «Re d’Italia»; il militare, scambiato il medico per un ladro, gli spara una fucilata mentre Gammacurta cerca di scappare per non dare spiegazioni.
Una volta uscito di scena – è il caso di dirlo – il dottor Gammacurta, la restante parte dello spettacolo fino allo svenimento del soprano e allo scoppio dell’incendio, è filtrata dal punto di vista del commendator Restuccia e del delegato Puglisi. Il primo non si sforza nemmeno di apparire interessato: «“Ma che minchia mi vieni a spiare? Quali re! Che ne saccio, io? Chi ci capisce niente? […] Ripiglia sonno che è meglio”».[28] (Camilleri 1995, p. 157). La moglie del commendatore non se lo fa ripetere, tant’è vero che il suo brusco risveglio, con tanto di urlo di spavento, contribuisce ad aumentare lo scompiglio che invade il teatro durante il terzo atto. Per quanto riguarda Puglisi, il lettore lo segue mentre dalla sala si reca fra le quinte e da qui assiste al duetto tra Effy e Anna, prima che si verifichi l’irreparabile effetto domino: il colpo di moschetto, il tonfo degli strumenti abbandonati nel golfo mistico, l’acuto da cetaceo del soprano, l’urlo della signora Restuccia, il fuggifuggi generale. Si verifica la degenerazione del rito sociale; infatti, visto che i militi impediscono a chiunque di uscire, le persone che si trovano dentro il teatro, anche le più ragionevoli, perdono la testa: «don Artemisio Laganà, fino a quel momento riputato omo di sireno animo […], perdette di botto […] l’assennato giudizio, tirò lo stocco, il bastone armato di lama, e infilzò la spalla a un milite […] gridando nello stesso tempo, e vai a sapere perché: ʻAlla carica!ʼ».[29]

IV.

L’unico personaggio che ha un rapporto intimo con l’opera, l’unico che non ce l’ha per punto preso con Mozart e che è competente in materia di musica, è il falegname don Ciccio Adornato. Molto suggestive le pagine in cui don Ciccio ricorda il suo incontro da bambino con Il flauto magico:

U jornu appresso dintra al triatro c’èramo solo noatri tre: il baruni e il signor Marsan stavano assettati dintra a o parco più granni che c’era, io me ne acchianai supra supra, vicino al tetto. Dopo manco cincu minuti che l’orchestra sonava e i cantanti cantavano, a mia sicuramente mi principiò una febbre àuta. […] Didopu, come si fossi addiventato un palloneddro di acqua saponata […] accominzai a volare. […] E prima m’apparse il triatro da fora, poi la piazza cu tutte le persone e l’armàla, po’ la citate intera ca mi parse nica nica, poi vitti campagni virdi, li sciumi granni du Nord, li deserti gialli ca dìcino che ci sono in Africa, poi tutto il mondo istesso vitti, una palluzza colorata come a quella che c’è dintra a l’ovo. Dopo arrivai vicino a u suli, acchianai ancora e mi trovai in paradisu, con le nuvole, l’aria fresca pittata di blu chiaro, quarche stella ancora astutata. Poi la musica e lu canto finero […] Dopu quella jurnata io vado a sentiri musica […] e cerco, cerco sempre senza truvare mai […] Una musica, cillenza, […] ca mi facissi vìdiri com’è fatto u cielu.[30]

Su questa base le riserve che don Ciccio ha nei confronti dell’opera di Ricci non possono essere considerate un semplice puntiglio. Al povero falegname bambino la musica ‘favolosa’ di Mozart aveva permesso di evadere della condizione meschina di Palermo: egli si era andato a mettere nel punto più alto del teatro e da lì la musica lo aveva sollevato sempre più su, fino a contemplare il mondo, fino a raggiungere il Paradiso. Il signor Marsan, che aveva iniziato il giovane don Ciccio alla musica, era un flautista; a sua volta il falegname aveva voluto imparare a suonare il flauto sia per imitare il suo maestro, sia per trasportare nella sua vita un nesso materiale con l’ultima opera mozartiana. La musica che dischiude la trascendenza può essere letta in contrapposizione alla musica sovraccarica di Storia, alla musica politicizzata che si è trasformata da emblema della fratellanza a emblema dello scontro tra i ‘fratelli’. È tragicomico che come terreno di questa metamorfosi sia stata scelta un’innocua opera giocosa.
Proprio perché non è stato storicamente acclarato per quale motivo il prefetto si fosse ostinato a far rappresentare Il birraio di Preston, Camilleri ricama sulle motivazioni e attraverso una romantica lettera di Bortuzzi alla signora Luigia viene svelato l’arcano: secondo quanto ricorda il prefetto, l’opera imposta ai vigatesi aveva favorito il suo incontro con l’amata Giagia. Così scrive il Bortuzzi-Aleardi: «… ecco perché ho voluto testardamente che a Vigàta quest’opera si rappresentasse. Altra cagione non v’è e quale essa sia stata niuno potrà mai scovrirla, essa si tien celata nell’intimo del cuor mio e del tuo».[31] La memoria di Bortuzzi s’inganna, l’opera galeotta era stata La Clementina di Luigi Boccherini; infatti, la sera del Birraio alla Pergola, Giagia era rimasta a casa: «“Io quella sera in teatro ’un son venuta. […] Avevo le mie hose, Dindino, e stavo tanto male”».[32] Vero e proprio fulmen in clausula, la rivelazione di Giagia smonta tutta la prosopopea di Bortuzzi e il suo inspiegabile capriccio operistico, tanto vacuo quanto foriero di tragici eventi.
Il grigiore mentale del prefetto trionfa in questo brano della lettera alla moglie: «i tuoi occhi incontrarono i miei… e di colpo mi sentii mutato […] in una bolla di sapone che […] volava, usciva fuori dal teatro, sorvolava la piazza, s’innalzava fino a veder rimpicciolita la città tutta…».[33] L’epistola è sapientemente intarsiata di logori stilemi amorosi, ma ciò che la rende un capolavoro di inautenticità non sono tanto le citazioni esplicite dall’Aleardi o il topos roussettiano degli occhi degli innamorati che si incontrano – ripetuto due volte –,[34] ma il saccheggio spudorato che il funzionario del centro fa della fantasticheria infantile di un provinciale aristocratico nei sentimenti.

 

NOTE

[1] Alberto Mario Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, p. 29.
[2] Cfr. ivi, p. 45.
[3] Honoré de Balzac, Massimilla Doni, trad. it. Giandonato Crico, Palermo, Sellerio, 1990, p. 111.
[4] Ivi, p. 143.
[5] Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 158.
[6] Francesco Orlando, Ricordo di Lampedusa, Milano, Scheiwiller, 1985, p. 86.
[7] Cfr. Idem, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Torino, Einaudi, 1998, pp. 92-93.
[8] Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 65.
[9] Cfr. Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit. pp. 44-46.
[10] Cfr. Idem, L’intimità e la storia, cit., p. 124, nota 59.
[11] Idem, Ricordo di Lampedusa, cit., p. 86.
[12] Andrea Camilleri, Il birraio di Preston, Palermo, Sellerio, 1995, p. 39.
[13] Ivi, pp. 106-107.
[14] Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 159.
[15] Ivi, p. 161.
[16] Camilleri, Il birraio di Preston, cit., p. 42.
[17] Ivi, p. 223.
[18] Si noti che l’incipit del capitolo in questione, «C’è un fantasima che fa tremare», riprende quello del Manifesto del partito comunista: «Uno spettro s’aggira per l’Europa». Il «fantasima», cioè il rinnovamento culturale legato alla musica di Wagner, si sostituisce allo «spettro», il rinnovamento sociale legato all’avvento del comunismo. Il riscontro che si trova in un’acuta riflessione di Francesco Orlando potrebbe essere solo un caso: «Nel 1848, anno di partenza della genesi dell’Anello, un sommo contemporaneo di Wagner aveva designato l’Altro storico nella classe che un giorno avrebbe messo fine al dominio del capitale» (Francesco Orlando, Proposte per una semantica del Leit-Motiv nell’«Anello del Nibelungo», in Idem, Le costanti e le varianti. Studi di letteratura francese e di teatro musicale, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 416-417). Secondo Orlando, Marx non aveva fatto altro che tradurre sul piano della Storia la costruzione mitica wagneriana della tetralogia: l’oro del Reno diventava il capitale; il sacrificio dell’eros per ottenere la ricchezza, il propulsore dell’economia borghese; il popolo asservito dei Nibelunghi, la classe operaia.
[19] Fra i canti intonati dai congiurati c’è anche «Vi ravviso, o luoghi ameni». Anche nel Gattopardo, la cavatina del conte Rodolfo è un segno distintivo di ‘sicilianità’: il generale fiorentino che arriva assieme a Tancredi a villa Salina nel giugno 1860 «in omaggio alla Sicilia, si era arrischiato al ʻVi ravviso o luoghi ameniʼ» (Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 63). Francesco Orlando così racconta la genesi di questo episodio: «[Lampedusa] Per il canto del generale […] aveva scelto dapprima ʻAh! non credea mirartiʼ; gli feci notare che questa era un’aria per soprano […] volle allora un altro suggerimento belliniano; adottò seduta stante ʻVi ravviso, o luoghi ameniʼ, che dava all’ʻomaggio alla Siciliaʼ un ironico secondo senso» (Orlando, Ricordo di Lampedusa, cit., pp. 83-84). «Vi ravviso, o luoghi ameni» è, appunto, una banale contemplazione di un locus amoenus dove Rodolfo ha trascorso gli anni della sua giovinezza. Il conte è il signore del villaggio che torna a prendere possesso del suo castello, delle sue terre e dei suoi sudditi; nonostante la sua sostanziale onestà, l’aristocratico non disdegna atteggiamenti da stagionato dongiovanni. Probabilmente tutta questa serie di elementi costituisce l’«ironico secondo senso» dell’omaggio: il generale ‘piemontese’ si identifica con la figura di un padrone straniero, che ha ancora qualcosa del prevaricatore libertino, nell’atto di stabilirsi nei suoi possedimenti.
[20] Camilleri, Il birraio di Preston, cit., p. 24.
[21] Roberto Favaro, La musica nel romanzo italiano del ʼ900, Milano-Lucca, Casa Ricordi-BMG Ricordi-LIM, 2003, p. 242.
[22] Camilleri, Il birraio di Preston, cit., p. 46.
[23] Ivi, pp. 46-47.
[24] Ivi, pp. 48-51.
[25] Mario Lavagetto, Quei più modesti romanzi. Il libretto nel melodramma di Verdi, Torino, E.D.T., 2003, pp. 95-96.
[26] Cit. in Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano. Opera omnia. Volumi I-V, a cura di Gino&Michele, Matteo Molinari, Milano, Baldini&Castoldi, 1998, p. 67.
[27] Camilleri, Il birraio di Preston, cit., p. 100.
[28] Ivi, p. 157.
[29] Ivi, p. 186.
[30] Ivi, pp. 171-172.
[31] Ivi, p. 210.
[32] Ivi, p. 211.
[33] Ivi, p. 207.

[34] Cfr. Jean Rousset, Leurs yeux se rencontrèrent. La scène de première vue dans le roman, Paris, José Corti, 1981, pp. 7-8.