Archivio mensile: agosto 2016

ALEXANDRE CALVANESE – LETTURA DI “EN ATTENDANT LE VOTE DES BETES SAUVAGES” DI A. KOUROUMA

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[Il brano che Alexandre Calvanese ha scelto di commentare per la giornata dedicata a Francesco Orlando, che si è svolta presso l’Università di Pisa il 30 Maggio 2016, è tratto da En attendant le vote des bêtes sauvages (Seuil, 1998), terzo romanzo dello scrittore ivoriano Ahmadou Kourouma. Ne proponiamo la trascrizione integrale].

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Il passo che vi propongo si trova alla fine del primo capitolo, nel quale si narrano le prime fasi della colonizzazione europea in Africa occidentale. Il personaggio di spicco di questo capitolo è Tchao, il padre di quello che sarà poi il protagonista principale del libro, vale a dire il dittatore Koyaga. Tchao fa parte di una popolazione che vive in mezzo alle montagne, una popolazione costituita da uomini che vivono completamente nudi (vige infatti, presso di loro, il divieto di indossare vestiti) e che sono anche dei valorosi guerrieri, tanto che le truppe francesi non riescono a venire a capo della loro resistenza. Tchao si distingue per essere il più fenomenale campione di lotte rituali della storia di questa popolazione di uomini nudi, ed è anche a causa del suo desiderio di trovare un rivale alla sua altezza se un giorno, suo malgrado, finisce per indossare la divisa dell’esercito francese. Si ritrova così a combattere nelle trincee di Verdun durante la Prima Guerra mondiale, e anche in questa situazione si rende protagonista di un gesto di eroismo eccezionale, diventando un idolo dell’esercito e meritando numerose decorazioni. Tornato a casa, nel villaggio in mezzo alle montagne, tra gli uomini nudi, Tchao deve sciogliere un dilemma: deve decidere se rispettare i costumi tradizionali, e dunque continuare a vivere nudo, o se esibire le sue medaglie – ma per farlo ha bisogno di portare la divisa su cui appuntarle, quindi deve trasgredire il divieto di vestirsi. Prevale la vanità, cioè il desiderio di esibire le medaglie, e automaticamente scatta la condanna degli anziani del villaggio. Accade poi che i francesi lancino un nuovo assalto contro la popolazione che vive tra le montagne, e che sia proprio Tchao a guidare la resistenza. Ma alla fine i colonizzatori, grazie ad un inatteso cambio di strategia, hanno la meglio: fanno prigioniero Tchao e lo torturano per dei mesi – lui che avevano coperto di medaglie! – fino a farlo morire. Prima della fine, però, Tchao fa chiamare il suo unico figlio, Koyaga. Ecco come viene descritta la scena:

Votre père, avant d’expirer, de rendre l’une après l’autre ses nombreuses âmes de paléonigritique, chanta et prophétisa. À l’endroit des Français, il formula des maléfices plus gros que le Fouta-Djalon.
Il vous convoqua, vous, son unique fils, vous aviez alors sept ans. En tête à tête il vous parla. Que vous a-t-il dit, expliqué ?
– La fin atroce que je connais est un châtiment ; elle a pour cause la malédiction, le courroux des mânes des ancêtres, commença-t-il par me dire. Répondit Koyaga.
Puis il prit le temps de se surpasser – il était épuisé, vivait ses dernières heures. Et, comme inspiré, il me parla doucement, avec ces envolées oratoires des personnes qui énoncent leurs dernières paroles. Ma fin abominable est le châtiment qui m’est appliqué pour avoir violé le tabou de l’habillement. Les mânes des ancêtres considèrent que ma faute n’est expiable que par la mort, la mort dans les conditions les plus inhumaines. Je le savais ; je savais ce qui m’attendait. Je le mérite ; je l’ai cherché. Je me suis sacrifié pour toi d’abord, ensuite pour toute la jeunesse de toutes les tribus paléos. Mon voyage à Dakar, en France et à Verdun m’a appris que l’univers est un monde d’habillés. Nous ne pouvons pas entrer dans ce monde sans nous vêtir, sans abandonner notre nudité.
C’est vrai que je suis le premier champion de lutte à avoir honte de la nudité, à avoir osé m’habiller. Il est vrai que c’est la nudité et rien d’autre qui, des millénaires durant, nous a protégés contre les Mandingues, les Houssas, les Peuls, les Mossis, les Songhaïs, les Berbères, les Arabes… C’est à cause de notre nudité que tous les envahisseurs, bâtisseurs d’empires, prosélytes de croyances étrangères nous ont méprisés et jugés trop sauvages pour être des coreligionnaires, des exploitables. Peut-être les colonisateurs français auraient-ils eu le même mépris. Peut-être, si je n’avais pas eu la folie, la stupidité, de me mesurer en lutte à l’univers entier et, surtout, de m’habiller, les Français n’auraient-ils pas violé les refuges, ne nous auraient-ils pas christianisés. Mais on n’aurait retardé notre habillement que de quelques années. On n’aurait fait que différer notre entrée dans le monde, repousser notre descente dans les plaines pour cultiver des terres plus généreuses, remettre l’envoi de nos enfants à l’école… On n’aurait fait qu’ajourner… que reporter… sursis…
Mon père ne termina pas ; il tomba en syncope sur sa chaîne, dans ses excréments et ses urines. Il mourut le lendemain.

Come è ben noto ai lettori di Kourouma, il personaggio di Koyaga trae ispirazione dalla figura del presidente-dittatore del Togo, Gnassingbé Eyadéma, che lo scrittore ivoriano aveva frequentato durante i dieci anni da lui trascorsi in Togo in qualità di direttore di una compagnia internazionale di assicurazioni[i]. Il regime di Eyadéma, durato 38 anni, era stato caratterizzato dall’instaurazione di un vero e proprio culto della personalità del dittatore. Per questo motivo c’è chi ha proposto di leggere il romanzo, ed anche questo episodio (che per la verità è altrimenti pressoché ignorato dai commentatori di Kourouma), come una parodia di certa pubblicistica celebrativa che circolava in Togo negli anni ’70[ii]. È una possibilità di lettura pertinente, tuttavia mi sembra che faremmo un torto a questo testo nel volerlo leggere soltanto come una risposta parodica alla propaganda di un regime dittatoriale. Credo che questo personaggio abbia qualcosa in più da dire, e soprattutto mi sembra che lo dica in un modo abbastanza particolare, in una forma rispetto alla quale sia opportuno evocare il concetto di formazione di compromesso che Francesco Orlando prende in prestito da Freud. È infatti possibile riconoscere nelle parole di questo personaggio due forze in opposizione che tentano di farsi strada e di prevalere l’una sull’altra, senza tuttavia che l’una abbia davvero il sopravvento sull’altra, lasciando dunque al suo discorso un’ambivalenza di fondo che proverò ad interrogare.
Ambivalente è, tanto per cominciare, la maniera con cui Tchao analizza la disperata situazione in cui si trova. Per prima cosa maledice i francesi – e questo non desta alcuna sorpresa: sono i suoi carnefici, è persino scontato che li maledica –; poi spiega la sua condizione attuale («la fin atroce») come conseguenza dell’ira degli spiriti degli antenati, e infine dice che la sua morte imminente è la diretta conseguenza della sua violazione del tabù del vestire, e riconosce come giusta la punizione che gli viene inflitta. E tuttavia, nell’accettarla, afferma anche che la sua scelta è stata consapevole, voluta. Qui, a mio avviso, si avverte un primo momento di frizione nel testo. Un semplice punto e virgola separa l’accettazione del castigo e la sottomissione ad un ordine ancestrale («Je le mérite») dalla rivendicazione, che ha anche il sapore della sfida, della consapevole attuazione del suo destino («je l’ai cherché»). Un confine che appare ancor meno netto per via della simmetria sintattica delle due affermazioni, e che richiama anche il «Je le savais» della frase precedente. In questa sequenza di verbi – sapere, meritare, cercare – trovano spazio sia il rispetto del personaggio per la legge degli antenati sia la sua consapevolezza e determinazione nell’affermare la propria volontà in competizione con quella legge. L’argomentazione di Tchao non intende esprimere una lamentela, giustificare un errore, abbozzare un pentimento. Non dice: “Sì, in fin dei conti mi merito questo castigo perché ho fatto un errore, ma se avessi saputo cosa mi aspettava mi sarei ben guardato dal farlo…”. Niente affatto, anzi è proprio il contrario: «je savais ce qui m’attendait», dice al figlio. Non c’è nessuna recriminazione, come se la punizione fosse stata l’inevitabile conseguenza del compimento del suo obiettivo finale.
Quale sia lo scopo ricercato lo capiamo dalle righe successive. In realtà, per prima cosa Tchao indica i beneficiari del suo sacrificio, vale a dire il figlio e, più in generale, tutta la gioventù di tutte le tribù che i francesi definiscono paleo. Il beneficio in questione consiste nell’aver reso fruibile a queste nuove generazioni la scoperta fatta durante il suo viaggio in Europa – vale a dire che l’universo è un mondo di gente vestita –, esperienza rielaborata poi nella constatazione che il suo popolo non può entrare nel resto del mondo senza vestirsi, senza abbandonare la sua nudità. Il beneficio, in definitiva, consiste nella possibilità di integrarsi al resto del mondo. E siccome nel resto del mondo vige una legge diversa – perché ovviamente il tabù porta sulla nudità, non sul vestire – era necessario che qualcuno infrangesse la legge degli antenati, che qualcuno portasse lo scandalo mettendo in discussione una tradizione secolare. Quello che era stato in precedenza descritto come un gesto di sciocca vanagloria – cioè vestirsi per esibire le medaglie al valore – nelle parole di Tchao diventa un’assunzione di responsabilità nei confronti dei figli, poco importa siano figli biologici come Koyaga o figli simbolici come «toute la jeunesse de toutes les tribus paléos».
Mi sembra che riconoscere la validità della legge dei padri per poi volerne emancipare i figli equivalga di fatto ad accettare e contemporaneamente rifiutare quella stessa legge. Tchao, insomma, sta dicendo: “Accetto per me la legge degli antenati e al tempo stesso non l’accetto per i miei figli”. O, ancor più semplicemente, visto che il nous dell’ultima frase del paragrafo abolisce ogni distinzione tra lui e i figli: “Accetto e non accetto la legge degli antenati”. Dicendo sì e no a tale istanza, Tchao non sta soltanto esprimendo un punto di vista sul rapporto tra generazioni, ma anche una visione dinamica della storia umana e della società, una visione che contempla – per non dire che reclama ! – la necessità del cambiamento, la necessità di rimettere in discussione quanto è stato deciso o quanto si è affermato come norma prima di noi.
Tuttavia tale cambiamento, per quanto reclamato, richiede comunque un prezzo da pagare. Lo capiamo dal paragrafo successivo, quando Tchao ritorna sul tema della nudità con delle considerazioni che sembrano contraddirsi. Da una parte, infatti, ammette che sia stata la nudità e nient’altro ad aver protetto, per dei millenni, gli uomini nudi contro tutta una serie di invasori. Mi sembra significativo che in questo elenco di invasori e fondatori di imperi non compaiano Europei, come a voler ricordare che, visto dall’Africa, il mondo non è fatto soltanto dagli Occidentali, che la storia del mondo non è solo la storia dell’Occidente, e che la storia dell’Africa non inizia con la colonizzazione. Dall’altra parte, rovesciando la prospettiva, è a causa di questo stesso tabù del vestire se le tribù di uomini nudi hanno ritardato il loro ingresso nel mondo, come se fino a quel momento avessero vissuto in una realtà separata, in una dimensione parallela, fuori dal mondo e dalla sua storia. Mi sembra abbastanza evidente che, nelle parole di Tchao, la nudità – e più in astratto possiamo forse leggere in essa una qualsiasi differenza che ci rende radicalmente diversi dagli altri – abbia una duplice valenza: da una parte significa garanzia d’indipendenza e protezione da minacce esterne, ma dall’altro sembra sinonimo di segregazione, di privazione.
Il periodo ipotetico intorno al quale è costruita la seconda parte di questo paragrafo – quello che inizia con «Peut-être, si je n’avais pas eu la folie […]» – non fa che approfondire la contraddizione in atto all’interno di questa coscienza. Nel chiedersi come sarebbero andate le cose se non avesse assecondato in modo sconsiderato la sua pulsione mimetica – quella che l’ha spinto a volersi misurare con l’universo intero – e soprattutto se non si fosse vestito, Tchao sta esprimendo un sentimento che possiamo definire di “senso di colpa” per aver contribuito alla sconfitta della sua gente, per aver sancito la fine di questo piccolo mondo chiuso. Tuttavia il peut-être posto all’inizio della frase sembra indebolire quello che è già un periodo ipotetico dell’irrealtà, cioè l’ipotesi che i francesi non avrebbero vinto. Al contrario, il mais che coordina la seconda principale introduce ben altre certezze sugli sviluppi della storia. Possiamo parafrasare il tutto così: “Forse i francesi non ci avrebbero colonizzati, ma di sicuro, prima o poi, avremmo dovuto vestirci”. La forma restrittiva on n’aurait… que ripetuta tre volte[iii] e sottintesa altre tre[iv] sembra solo l’ultima resistenza linguistica che il personaggio oppone per non ammettere apertamente che niente e nessuno avrebbe potuto evitare ciò che è successo, e che forse non era nemmeno auspicabile evitare che accadesse. In questa formulazione, infatti, il dato interessante non è tanto che Tchao stia in qualche modo minimizzando la sua responsabilità personale, quanto il fatto che l’idea del ritardo, del rinvio – evocato con sette diversi sinonimi, come per sottolinearne la durata eccessiva, o come per enfatizzare l’inutilità della resistenza –  non sembri riscuotere un gran favore. Il favore che incontra, invece, un mondo descritto – nel modo scarno ed essenziale proprio di chi ha ormai pochissimo tempo a disposizione – con i tratti di una novità (o di una modernità) che prefigura delle opportunità da cogliere, perché offre terre più generose e la possibilità di inviare i figli a scuola.
In queste ultime parole di Tchao risuona la speranza che l’uscita dall’isolamento porti un miglioramento delle condizioni di vita del suo popolo, un’idea che si potrebbe riassumere – se la parola che sto per usare non fosse carica di pesanti contraddizioni – con il termine progresso. Tra l’altro, i due argomenti evocati da Tchao per spiegare la necessità di vestirsi e dunque di entrare nel mondo, cioè la ricerca di terre più redditizie e di un’opportunità educativa, riecheggiano la retorica di una consistente parte dell’opinione pubblica francese tra tardo ‘800 e primi decenni del ‘900, una retorica nella quale l’impresa coloniale veniva prospettata come una vastissima opera di educazione e di sviluppo tecnologico ed economico – una specie di applicazione su scala planetaria dello spirito dei Lumi[v]. Insomma, è come se dal suo viaggio in Europa, insieme al desiderio di vestirsi, Tchao avesse portato indietro anche uno slancio verso quell’idea di progresso che lo spinge a un compromesso, fatto di adesione e insieme repulsione, con la tradizione. Il fatto che sia un desiderio indotto, o mediato per dirla con René Girard, non lo rende certo meno urgente o meno vero, e forse, se teniamo a mente il particolare concetto di imitazione (mimicry) di Homi Bhabha[vi], non lo rende neanche tanto innocuo. In fondo Tchao sta esprimendo un desiderio di emancipazione che non può non scontrarsi con la dominazione coloniale.
Direi comunque che la vera sorpresa in questo brano è proprio l’inattesa presa di posizione cui da voce questo personaggio, perché da una vittima dei colonizzatori ci aspetteremmo probabilmente soltanto le maledizioni che pure Tchao rivolge all’indirizzo dei francesi all’inizio del  suo discorso, proprio come fa Calibano all’inizio della Tempesta. E invece, sebbene stia morendo vittima di quegli stessi invasori che hanno interrotto il millenario isolamento degli uomini nudi, Tchao concepisce ancora l’uscita da quella dimensione come un fatto necessario se non addirittura positivo. E forse è proprio questo aspetto a rendere invisibile questo brano ai radar dei critici che si occupano di letterature africane, in particolare a coloro che adottano una prospettiva postcoloniale un po’ troppo rigida, sensibile esclusivamente alle manifestazioni di aperta sfida nei confronti dell’ex potenza coloniale.
Tuttavia non bisogna dimenticare che questa apertura al mondo, opposta ad una tradizione ancestrale che è sinonimo di isolamento opprimente, rimarrà una speranza irrealizzabile. Non solo perché Tchao sta pronunciando queste parole da prigioniero morente dei francesi (che risultano dunque doppiamente vili: la prima volta per ingratitudine nei confronti dell’eroe di Verdun; la seconda perché insieme a Tchao uccidono anche quell’ideale di progresso di cui pure dovrebbero essere portatori e difensori); tale speranza rimarrà irrealizzabile anche perché nel seguito della vicenda il primo beneficiario del suo testamento, il figlio Koyaga, dimenticherà le parole del padre, e una volta che il suo paese sarà diventato indipendente lui avrà a cuore solo l’affermazione del suo potere personale. Del resto il titolo stesso del romanzo, En attendant le vote des bêtes sauvages, allude a una regressione antropologica che vanifica l’attesa creata da quanto viene comunemente inteso come una conquista, come un sintomo di maturità civile, cioè il voto – e questo a maggior ragione in una giovane nazione indipendente come quella che fa da sfondo al romanzo.
Non bisogna però credere che in questo romanzo al fallimento del progresso faccia seguito una riabilitazione festosa delle credenze ancestrali e delle leggi tradizionali. Se in alcuni casi Kourouma può guardare a credenze e costumi tradizionali con nostalgia e affetto, non è certo perché contengano un potenziale di liberazione[vii]. Non c’è nessuna speranza nel voto delle bestie selvagge, o in un regime dittatoriale che esalta i legami tribali. Mi sembra piuttosto il caso di dire che in questo romanzo ci ritroviamo a fare i conti con una doppia eredità: quella della tradizione e quella dei colonizzatori. E nel dare voce tanto all’una quanto all’altra Kourouma si troverà più spesso a riconoscere il torto dell’una piuttosto che la ragione dell’altra, ad infliggere, per riprendere le parole di Francesco Orlando, più mezzi fallimenti che non mezze riuscite[viii]. Il pessimismo che sembra avvolgere l’opera di Kourouma dipende probabilmente in larga misura dalla consapevolezza che se il colonialismo ha rappresentato il peggior esito – o il maggior tradimento, per non dire pervertimento – di una missione emancipatrice condotta in nome della razionalità, guardare indietro, recuperando in modo acritico una visione del mondo ormai superata, rischia di produrre guasti ancora maggiori.
Per concludere, mi sembra che in questo brano il concetto di formazione di compromesso permetta di cogliere al meglio la tensione tra forze opposte che animano il discorso del personaggio. Tchao si sottomette alla legge dei padri quando accetta come giusto il castigo che punisce la sua trasgressione e quando riconosce al tabù della nudità di aver salvaguardato per secoli l’indipendenza e la libertà del suo popolo; ma al tempo stesso non rispetta questa legge perché rappresenta un freno alle possibilità di vita in senso lato, alle ambizioni individuali e collettive. Nelle sue parole possiamo riscontrare il senso di colpa per aver contribuito, anche se magari solo in modo marginale, alla fine di una tradizione e di un’identità millenaria, ma dall’altra parte sentiamo anche il desiderio di essere protagonista della storia del mondo. Il conflitto è lacerante perché non esiste alternativa indolore: il prezzo da pagare per l’indipendenza e per la salvaguardia della tradizione è una forma di segregazione opprimente e senza futuro, mentre l’ingresso nel mondo e nella modernità non può avvenire che sotto forma di contaminazione e di sacrificio della propria identità; non può avvenire che a patto di tradire i padri e farsi disconoscere da essi; non può avvenire che sacrificandosi per i figli ed essere, magari a propria volta, traditi da essi.

NOTE:

[i] Jean-Michel Djian, Ahmadou Kourouma, Paris, Seuil, 2010, p. 108 et 131.
[ii] Cfr. Sélom Komlan GBANOU, « En attendant le vote des bêtes sauvages ou le roman d’un diseur de vérité », Études françaises, vol. 42, n. 3, 2006, p. 51-75.
[iii] « Mais on n’aurait retardé notre habillement que […]. On n’aurait fait que différer […]. On n’aurait fait qu’ajourner ».
[iv] [On n’aurait fait que] « repousser notre descente […], remettre l’envoi […] … que reporter… »
[v] Raoul Girardet, L’idée coloniale en France de 1871 à 1962 [19721], Paris, Hachette, «Pluriel», 1979, e in particolare p. 83 per il celebre discorso di Jules Ferry del 28 luglio 1885, p. 162-63 per la posizione di Jean Jaures almeno fino al 1904, p. 189-193 per gli interventi di due esponenti del partito radicale come Albert Sarraut e Edouard Daladier.
[vi] Bhabha considera l’imitazione una strategia di dominazione esercitata dal colonizzatore, ma anche una strategia di camuffamento del colonizzato che «mima le forme dell’autorità fino al punto da privarle del loro stesso potere» («Of Mimicry and Man: The Ambivalence of Colonial Discourse», October, Vol. 28, Discipleship: A Special Issue on Psychoanalysis (Spring, 1984), p.125-133, ripubblicato in The Location of Culture, London, Routledge, 1994, tr. it. in I luoghi della cultura, Roma, Meltemi, 2001, p. 123-132, p. 131).
[vii] Cfr. Stefano Brugnolo, L’idillio ansioso, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, p. 138.
[viii] Francesco Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1992 p. 212.