Archivio mensile: febbraio 2018

FABIEN VITALI – CONTRO «LA CONSEGNA DEL SILENZIO». Lettura di “Lampaduza” di D. Camarrone e “Appunti per un naufragio” di D. Enia

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[Fabien Vitali, nato in Svizzera, ha studiato lettere alle Università di Basilea, Ginevra e Pisa. Nel 2014 ha conseguito il dottorato di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Pisa con una tesi sul lavoro saggistico di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. È stato docente di letteratura italiana e francese alla LMU di Monaco e all’Università di Amburgo. Attualmente insegna alla Christian-Albrechts-Universität zu Kiel. Si è occupato soprattutto di letteratura italiana moderna, in particolare, di Tomasi di Lampedusa e di Pier Paolo Pasolini su cui portano anche alcuni progetti realizzati insieme alla casa editrice amburghese Laika. È co-redattore della rivista online per gli studi sulla letteratura e sulla cultura italiana lettereaperte. Dal 2017 è membro associato della Research Training Group Interconfessionality in the early modern period dell’Università di Amburgo.]

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Contro «la consegna del silenzio»
Lettura di Lampaduza di Davide Camarrone e Appunti per un naufragio di Davide Enia

 

Die authentischen Künstler der Gegenwart
sind die, in deren Werken das äußerste
Grauen nachzittert.

(Th. W. Adorno, Jene zwanziger Jahre)

 

Lampedusa, da lepas, lo scoglio […] che resiste e
conferma una presenza, anche solitaria, nella
smisurata vastità del mare aperto. Oppure,
Lampedusa da lampas, la fiaccola che risplende
nel buio, luce che sconfigge lo scuro.

(D. Enia, Appunti per un naufragio)

 

 

  1. Responsabilità a distanza, responsabilità e distanza

Questo saggio s’interroga su come sono stati affrontati da autori (e in parte minore anche da cineasti) italiani i fatti travolgenti che in questi anni hanno interessato il mediterraneo, una delle più grandi catastrofi umane della storia del dopoguerra? Più precisamente: Con quali soluzioni hanno cercato di reggere l’agone mimetico con questa sconvolgente e a tutti gli effetti “nuova” realtà? Secondo quali prospettive e con quale atteggiamento la (ri-)creano? E ancora: nelle forme di rappresentazione di volta in volta scelte entrano in dialogo con testi già tradizionali, ripiegano su determinati usi discorsivi? Non esige forse la sostanziale “novità” del tema nuove soluzioni di rappresentazione altrettanto nuove? Anzi, la portata degli eventi non supera forse la portata di ogni lingua ponendo di fronte a uno scacco espressivo ed etico chiunque, e specialmente se da estraneo, intenda raccontarli?

Formulate così, nella tranquillità di un soggiorno e di una casa situati in una zona relativamente pacifica e benestante dell’Europa, queste domande suonano oziose, se non ciniche. Preludono a una comoda discussione su problemi di estetica. Di contro, gli scritti o le pellicole cui è dedicata, sono per lo più ispirati a un senso di sgomento vivo, all’assunzione di una concreta responsabilità civile. Di fronte ai fatti e alle piaghe reali di cui trattano i testi e i film qui discussi – immobilismo, migrazione, prigionia e tortura, naufragi a esito catastrofico – la colpa di chi si limita a meditare su problemi di forma potrebbe sembrare semplicemente “originale”.

Il fatto è che non tutti possiamo, e non tutti dobbiamo intervenire con i gesti, correre sui luoghi della tragedia, dare una mano ai pur ammirevoli volontari del Lampedusa Forum Solidale. Salvo semplicemente ignorare tutto, e continuare a vivere come si viveva nella Vienna di inizio Novecento («Glücklich ist, wer vergisst…»), festeggiando all’ombra dell’ormai prossimo disfacimento dell’Impero, l’alternativa sembrerebbe essere un coinvolgimento a distanza. E proprio a questo ormai sembrano votarsi sempre di più anche gli studi di letteratura e di cultura, specialmente in area tedesca, e specialmente nell’ambito dell’italianistica. Chiamata in causa da eventi che, almeno da un punto di vista linguistico, interessano il territorio delle sue competenze, si mostra ora sollecita ad occuparsi della letteratura e del cinema che trattano di Lampedusa – grata quasi dell’accesso privilegiato a un tema così urgente con cui riscattarsi a fronte di recenti esigenze sia politico-sociali (i sempre più evidenti dubbi sulla legittimità delle filologie o, secondo un altro punto di vista, i sempre più precari equilibri dell’ordine mondiale e quindi il rilancio dell’idea del dovere civile dell’arte) che metodiche (estensione del canone dei temi e dei testi da prendere in considerazione; rinnovo dell’interesse per il referente reale quasi a dover scongiurare il demone dell’autoreferenzialismo).

Questa rinnovata attenzione alla realtà anziché alle forme che la mediano, pone il solito problema fondamentale delle modalità, anzi, dell’opportunità del coinvolgimento civile dello studio e della critica letterari. È un problema analogo a quello implicito alla domanda sul potenziale sociale della letteratura che Finkielkraut qualche anno fa aveva posto in esergo a un suo libro di conversazioni radiofoniche: «Que peut la littérature?»[1]: che cosa possono gli studi letterari? Rispondere a questa domanda naturalmente esorbiterebbe dai limiti di questo saggio. Il suo argomento però invita a fare ulteriori considerazioni preliminari.

Il senso di impotenza e l’oscuro senso di colpa di fronte ai disastri che travolgono il globo, realmente o apparentemente esteriori alla comfort zone dell’Occidente, sono all’origine di una generale inquietudine civile che ormai pervade un po’ tutti i campi della società. Assecondando le scienze sociali, anche gli studi letterari tendono ad imitarne lo zelo, non di rado sacrificandogli i loro stessi presupposti epistemologici. Anche là dove non sono tacitamente riassorbiti da discipline contigue, come le Cultural Studies, ma resistono inglobati nelle cosiddette scienze mediatiche, non è comunque l’attenzione alla loro natura, appunto, mediatica e al rispettivo specifico formale a orientarli. Sembra che a interessare i coinvolti, e cioè a tutti i livelli, dagli studenti ai ricercatori fino ai docenti, non siano più tanto i processi di mediazione, quella terza istanza complessa ed appassionante che si frappone tra esperienza e realtà. È bensì la realtà stessa. E nella misura in cui manca un quadro di riferimento teorico forte, tale da contrastare questo spostarsi degli studi letterari da uno studio filologico a uno studio storico-sociale, diventa sempre più difficile, specialmente nel lavoro con gli studenti, a contrastare – senza pertanto scoraggiarli – la loro tentazione di passare direttamente dal testo alla realtà; di scambiare indiscriminatamente la dimensione testuale per quella reale, ossia, per usare parole di Sartre, dei «feu follets» per la «terne consistence de la matière»[2].

In questo senso, il sospetto è che le scelte engagées oggi spesso siano concettualmente viziate e come tali motivate da quel desiderio di riscatto morale che già Adorno, in uno dei suoi appunti sul rapporto tra arte e engagement, criticava: «[…] Engagement ist vielfach nichts als […] Nachlassen der Kraft. […] [D]ie Linie des geringsten Widerstands [wird] mit einer moralischen Prämie [belohnt]»[3]. Che poi l’approccio engagé possa fare il gioco ed essere involontariamente complice dello stesso potere cui in buona fede i promotori di quello vogliono indirizzare il loro scandalo e la loro denuncia[4], è forse il meno evidente, ma non il meno inquietante dei suoi effetti. Eppure, ogni reticenza verso l’engagement non implica il semplice invito a ritirarsi nella proverbiale torre d’avorio a trastullarsi con giochi di forma e con il bello[5]. Una via d’uscita da questa falsa alternativa si da ricordando, come scrive Stefano Brugnolo, «che la forza estetica» di un’opera d’arte «sia in larga parte determinata dalla sua forza cognitiva»[6]; che lo specifico formale dell’arte è un dominio privilegiato di conoscenza sul mondo – secondo un’idea che in ambito letterario è latente, tra i tanti altri, nell’approccio di Spitzer e nella sua particolare declinazione del concetto del «circolo ermeneutico», ma anche in quelli di Auerbach o di Orlando[7]. Dovrebbe pertanto anche essere possibile che allo studio di questo specifico si deleghi una funzione civile, per quanto indiretta.

Come ricordava lo stesso Adorno, è a livello di forma che si realizza e che va cercato il significato sociale di un’opera d’arte; è in questa dimensione che si producono i suoi effetti sui lettori, nello «shock» che emana dalle irriducibili leggi cui l’arte obbedisce, sottraendosi e attentando alla logica dominante[8]. Salvo l’enfasi esclusivista, l’affermazione è valida anche per opere che, diversamente da quelle che aveva in mente Adorno, sono apprezzate per lo più come testimonianze e non per il loro virtuosismo di forma – quest’ultima sembrando anzi talvolta modulata in modo da non essere neanche notata da noi lettori, come per esempio può capitarci leggendo Se questo è un uomo. Ma basta tener presente le osservazioni di Primo Levi sulla vitalità, precisamente, del problema linguistico; sulla difficoltà, o per altri impossibilità, di trovare una lingua e uno stile appropriati per «rendere in parole» l’esperienza dell’efferatezza nei Lager nazisti, a ricordarci quanto in ogni opera siano sostanzialmente integrate questioni di tema e di forma: il che cosa? e il come?, res et verba[9]. A maggior ragione, nell’affrontare criticamente testi e discorsi che elaborano temi difficili o, secondo qualcuno addirittura inconcepibili (come l’esperienza dello sterminio organizzato), è indispensabile vagliare il peso ermeneutico della forma – anche indipendentemente dal grado di consapevolezza da parte di chi lo produce.

Paradossalmente, a provare l’importanza della filologia in questo senso oggi sembrano, anziché i letterati, appunto spesso ansiosi di smentire i vincoli con ogni formalismo, studiosi provenienti da altre discipline quali storia, sociologia, psicologia. Lo suggerisce l’esempio di Caroline Emcke e il suo Weil es sagbar ist [Perché è dicibile], uno studio sociologico che in Germania è stato premiato e molto discusso, anche per questioni di metodo; perché alla realtà violenta vissuta dalle persone cui è dedicato, l’autrice da lo statuto di un problema linguistico («Leid und Gewalt» sono, come scrive, un «sprachliches Problem»). Trattate allo stesso modo di testi letterariamente meditati come quelli di Primo Levi, le testimonianze orali e scritte degli intervistati dalla Emcke sono quindi studiate anche in base alle loro particolarità formali, ossia linguistico-strutturali, secondo un metodo idealmente familiare agli studiosi di letteratura[10]. A volte, più di ciò che si dice conta e significa il modo di dirlo.

Per evitare di usarli come documenti dal valore denotativo inconfutabile, come mezzi trasparenti o finestre attraverso cui guardare alla catastrofe migratoria in corso e poi parlare di questa secondo un latente consenso di scandalo e di misericordia, i testi in seguito presentati saranno discussi soprattutto in vista di questioni formali. Non si tratta di rivendicarne l’autonomia, rimuovere la loro ispirazione sociale e il loro pregio in quanto forme d’intervento più o meno efficaci sul presente. Ma siccome, precisamente, ciò che distingue la letteratura (e in generale l’arte) che tratta del fenomeno migratorio da interventi pratici, con il loro beneficio immediato (il soccorso in mare, l’assistenza medica, la distribuzione di viveri, ecc.), è l’impiego accorto della lingua e delle sue forma, merita prima descriverli alla luce delle rispettive scelte per poi interrogarne l’efficacia in rapporto al loro sconvolgente tema.

A quali opere in particolare si riferisce dunque questo saggio? Punto di partenza è un libro di Davide Camarrone, Lampaduza (2014). Dopo una prima lettura di quest’ultimo avevo formulato alcuni interrogativi ed ipotesi che in secondo momento volevo approfondire, precisamente, in rapporto con il romanzo autobiografico, di tre anni posteriore, di Davide Enia, Appunti per un naufragio (2017). Salvo la coincidenza tematica, l’isola di Lampedusa e la migrazione, i due esempi corrispondono a tipologie testuali molto diverse. Lampaduza è un’opera ibrida, tra diario e saggio giornalistico, efficacemente magmatica, estesa su 18 brevi capitoli e completata da un folto apparato di note che corroborano il discorso principale con altre fonti, numeri, statistiche. L’autore rievoca, in prima persona e secondo uno stile a suo modo lirico, esperienze personali raccolte sull’isola di Lampedusa nel decennio precedente, alternandole a esposizioni fattuali e a considerazioni politiche. Ne risulta una sorta di J’accuse contro un male tipicamente meridionale o, meglio, diventato quasi topico nella letteratura del, e sul meridione: la presunta incapacità ossia il rifiuto di interrompere una tradizione di complicità colpevole ossia, come scrive Camarrone, la generale «consegna del silenzio»[11]. Anziché essere oggetto di un’analisi sistematica, il libro di Camarrone sarà da me adottato come punto di riferimento cui ricorrerò alla rinfusa. E a questo lo predestina la stessa sua natura centrifuga, di un’opera dettata dall’ansia di un autore che aveva troppe cose da dire, e che le dice con il ritmo incalzante di una mente in preda ad angosciosi processi associativi[12]. Camarrone, infatti, accumula argomenti, solleva problema dopo problema, senza mai soffermarsi, quasi a mimare la reale «molteplicazion[e] di infelicità» che racconta[13].

Assai differente è il caso dell’esempio di Davide Enia, Appunti per un naufragio, in cui la variazione dei registri discorsivi non inficia un disegno narrativo coerente (onde è plausibile la sua definizione di “romanzo”)[14]. Nel libro di Enia le testimonianze autoriali sulla tragedia della migrazione, sui luoghi e sulle persone che essa coinvolge, costituiscono una sorta di sfondo narrativo che si intreccia e quasi metaforicamente converge nella storia autobiografica, dei suoi rapporti con il padre e con lo zio, del decorso fatale della malattia di quest’ultimo.

La diversità delle caratteristiche testuali non impedisce che tra queste e altre opere di riferimento per il mio discorso esistano interessanti convergenze, anzitutto su un piano astratto di narrazione. Da qui lo stimolo a porre sin da subito la controversa domanda sulle modalità di discorso secondo cui di volta in volta è affrontato il “tema Lampedusa” – della prospettiva o del punto di vista e dei loro possibili significati.

  1. Lampedusa – a scanso di un equivoco comunque significativo

Lampedusa, nella letteratura italiana, fino a qualche tempo fa, non aveva molta importanza se non in quanto appendice nobiliare del nome di Giuseppe Tomasi, autore del Gattopardo. Solo di recente si è con qualche forza imposta anche come referente geografico e politico di interesse globale o, più precisamente, come “tema” con cui in vario modo si sono confrontati giornalisti, letterati, registi: da Davide Camarrone, Fabrizio Gatti, Davide Quirico, Davide Enia a Emmanuele Crialese, Andrea Segre, Gianfranco Rosi ecc.

Ravvicinare Lampedusa autore a Lampedusa isola è ovviamente un gesto bislacco, le due cose non c’entrano niente. E, in effetti, a Giuseppe Tomasi questo estremo meridione dell’Italia, queste «due malinconiche rocce» delle quali i viceré suoi avi non gli lasciarono «né un aranceto né un’ortaglia»[15], non interessava particolarmente, non l’aveva mai visitato. Non sono pervenuti documenti che mostrano il suo interesse per il significato strategico-politico di cui l’isola era stata insignita durante la Seconda Guerra Mondiale. Non poteva immaginarsi l’importanza che più tardi avrebbe avuto per la Nato, né tanto meno che sarebbe diventato il punto d’approdo e, perciò, uno dei teatri della più grande migrazione della storia – di circostanze drammatiche di portata internazionale. E di gran lunga trascendenti i problemi virtualmente presenti alla sua coscienza.

Eppure, il confronto tra il Gattopardo e le succitate opere su Lampedusa ha una qualche sua giustificazione, ed oltrepassa il criterio dell’interesse intertestuale (che almeno nel caso di Lampaduza trova riscontri anche espliciti). Il Gattopardo, convenzionalmente trattato come un romanzo di tradizione e pertinenza esclusivamente siciliane, in realtà veicola messaggi che sono a tal punto universali da rendere indifferente, non solo la loro specificità regionale, ma finanche la discriminante isola-terraferma – a favore di quella assai meno vincolante di periferia-centro[16]. A questo punto, che i problemi di quella estrema periferia che è geo-politicamente ancillare alla Sicilia di fatto siano imparentati ai problemi di quest’ultima[17], rende solo più scontata l’idea secondo cui certi temi nel romanzo di Tomasi possano applicarsi anche alla realtà dell’isola di Lampedusa, ossia, dei testi che ne parlano. E, in effetti, non poche delle osservazioni presenti nei testi di Camarrone e di Enia, sull’ambiente, sui costumi e i mal-costumi che caratterizzano lo spazio sociale della più nota delle isole Pelagie, ricordano le opere della cosiddetta “Sicilitudine”[18]. Soprattutto, ricordano l’esperienza siciliana e universalmente insulare del Gattopardo – i suoi temi e il modo ambivalente in cui l’autore gli si rapporta, con un misto efficacemente contradditorio di identificazione e di distanza, di coinvolgimento affettivo (per esempio rispetto alla bellezza epica dell’ambiente) e di critica (per esempio rispetto al noto sentimento di esclusività degli isolani; così, la frase sui lampedusani riportata in Enia, «[s]e non sei nato qui, per loro non potrai capire mai niente, sia dell’isola che della vita in generale» trova il suo equivalente romanzesco nel famoso discorso di Don Fabrizio Salina al delegato piemontese, nella fattispecie, su quel «senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che […] in realtà è cecità»[19]). Comunque non soltanto l’affinità nelle idee e nel sentire degli autori rispetto al loro referente, il meridione d’Italia, apparenta la letteratura (e il cinema) recenti su Lampedusa al romanzo di Tomasi. Una dinamica bipolare li avvicina anche a un livello più astratto, di tema e struttura del discorso: le opere, infatti, oscillano per così dire tra isola e mondo, tra un riferimento particolarissimo e un riferimento storico epocale. Parlando di cose che riguardano la vita nella provincia dell’estrema periferia europea, essi, infatti, illustrano aspetti inopinati di circostanze storiche dal significato e dalle ripercussioni globali – e vice versa.

Malgrado tutte le evidenti differenze tra, da un lato, opere autodiegetiche come Lampaduza e Appunti per un naufragio, alimentate dallo sguardo di intellettuali borghesi e, dall’altro, una variante moderna di romanzo storico come il Gattopardo[20], raccontato in terza persona e seguendo un punto di vista interno all’aristocrazia – il presupposto a tutti comune è il fatto di raccontare l’isola e il mondo a partire dall’isola, secondo una prospettiva periferica più o meno ricostruita o fantasticata in base al vissuto degli autori. Ma soprattutto, in tutti i casi questa scelta “periferica” corrisponde a una figura di narrazione strategica, e strategicamente ambigua nella misura in cui non esaurisce il sapere effettivo e i possibili punti di vista degli autori. Se, infatti, questi scelgono una visuale di parte, lo fanno comunque da persone che virtualmente disporrebbero di un orizzonte di conoscenze più ampio. Salvo i disegni di volta in volta diversi, ora più inclini a documentare, ora inclini a inventare – il modo di narrare in tutti gli esempi citati implica quello che Stefano Brugnolo a proposito del Giorno di giudizio di Salvatore Satta ha chiamato uno «sguardo da lontano», uno sguardo che «funziona a corrente alterna»[21]. Esso muove, sì, dalla provincia, da luoghi più o meno remoti dai centri della civiltà occidentale, ma al contempo rimane sostenuto dall’esperienza di questi centri. Ne consegue la possibilità di dinamizzare la rappresentazione, appunto, secondo un doppio registro – il primo periferico e quindi deliberatamente selettivo, straniato e straniante; l’altro distaccato, capace di contestualizzare, di relativizzare, di interrogare con strumenti critici propri della tradizione illuminista. Il vantaggio di una simile forma diegetica, tra l’altro, consiste nella possibilità di rivelare e denunciare, come scrive Brugnolo, «verità rimosse, non visibili da chi sia troppo dentro lo spirito del tempo, e finisce per darlo per scontato»[22]. Di alcune di queste probabili «verità» si terrà conto ai punti 4 e 5.

  1. In eines Anderen Sache sprechen…: Raccontare tra obbligo e divieto

Nelle opere di Camarrone e di Enia, quella periferica comunque non è l’unica, ma una delle forme in cui si articola la voce narrante[23]. Partecipa di un congegno narrativo complesso che varia a seconda dell’esempio per cui si richiederebbe ogni volta un’analisi a parte. In generale, si potrà distinguere tra vari gradi o forme di “perifericità” (dove il termine non indica solo un valore culturale, ma anche l’immediatezza del coinvolgimento nelle situazioni che si danno alla periferia).

Comincerei dal caso più estremo: il discorso diretto (eccezionalmente frequente nel libro di Enia in cui ampie parti di discorso, quasi trascrizioni di voci registrate, sono delegate a persone a vario titolo residenti o “approdati” sull’isola di Lampedusa[24]). Si alterna con questo caso quello, appena meno marcato, del discorso indiretto in cui il punto di vista del residente lampedusano è affidato alla voce dell’autore-giornalista. Si tratta di testimonianze di secondo grado. È inoltre sintomatico che nei testi sia di Camarrone che di Enia, entrambi appartenenti al genere “debole” (diari, lettere, saggi ecc.), siano rari i casi in cui abbiamo una focalizzazione interna o lo stile libero indiretto. Frequenti, e nell’esempio di Enia stilisticamente molto rilevanti, sono invece i casi in cui si verifica la focalizzazione esterna, quasi a lasciare integra e sottolineare l’autonomia della fonte, l’impossibilità di penetrarne le ragioni, la solitudine dei testimoni – solitudine nel dolore rispetto a quanto vissuto[25].

Le fin qui registrate varianti narrative si alternano e si congiungono a quelle meno marcate, più duttili, più aperte agli stimoli d’un sapere che è, se non del narratore stesso, di un osservatore che come questi arriva dall’isola madre, dalla Sicilia. Sia nel libro di Camarrone che in quello di Enia, quest’ultimo caso da luogo a due opzioni di discorso. La prima implica un’identificazione con il punto di vista isolano (particolarmente flagrante negli Appunti di Enia in quanto sono cosparsi di allusioni che presuppongono e spesso esibiscono la conoscenza delle abitudini locali, specialmente, dell’idioma nativo). Nella seconda, invece, il discorso tende a ricontestualizzare le impressioni isolane secondo un più ampio quadro di riferimenti culturali (come per esempio succede negli Appunti, là dove si riproducono parti del diario di un soggiorno di Enia nei Paesi Bassi ecc.[26]). Di rigore, i passi che corrispondono a quest’ultima forma di esposizione, di “periferico” non implicano più niente, se non l’origine isolana e quindi le conoscenze virtuali degli autori – un residuo più o meno sensibile, più o meno rimosso di cognizioni autoctone che, al limite, possono modulare il discorso anche nei momenti d’astrazione e di oggettivazione. Ma proprio questi momenti segnano ora l’estremo opposto al concetto “periferico”. Si tratta di parti di discorso in cui gli autori interpretano la situazione lampedusana in base a criteri storico-politici nazionali e internazionali (e sono molto frequenti in Lampaduza); o la commentano in un senso saggistico-filosofico, snodando barocche meditazioni sul destino dell’uomo (ne troviamo soprattutto in Appunti per un naufragio e, tra l’altro, sarebbe un ulteriore punto di contatto con il Gattopardo).

Volendo schematizzare, avremo così una gamma di cinque modi prospettici, delimitata, da un lato, da un massimo di vicinanza agli eventi e, dall’altro, da un massimo di distanza. In entrambi i nostri testi di riferimento – ma, mutatis mutandis, lo stesso vale anche per un film come Fuocoammare – la rappresentazione spazia dinamicamente, e talora anche molto bruscamente, tra momenti di forte soggettività, capaci di suggerire degli eventi gli aspetti più drammatici o idiosincratici, e momenti in cui la situazione è contemplata con distacco, quasi a volo d’uccello[27]. L’isola di Lampedusa, in queste ultime situazioni narrative perde il privilegio di essere “centro” di eventi storici clamorosi per essere invece restituita alla misura di piccolo punto sulla scacchiera politica internazionale; o di luogo-esempio che conferma il «movimento inarrestabile» della Storia o le leggi inesorabili della umana condizione, stretta tra approdo e naufragio – o, per dirla con le parole di un altro naufragato alla storia, «tra le due tenebre prima della culla, dopo gli ultimi strattoni»[28].

Ora, considerando che Lampaduza e Appunti per un naufragio sono opere che testimoniano degli accadimenti su Lampedusa, è flagrante la lacuna nella casistica delle voci o prospettive presenti: fin qui manca la voce dei soggetti della migrazione, il punto di vista dei testimoni (nel senso proprio di superstes, di «colui che ha vissuto qualcosa, ha attraversato fino alla fine un evento»)[29]. Potremmo pensare che si tratti di una lacuna che va a carico del senso di giustizia e di umanità degli autori, secondo un modo pregiudizioso di giudicare l’arte che oggi è molto diffuso[30]. In realtà, non si tratta probabilmente di negligenza, né tanto meno di indifferenza, ma di scelte d’autore. E come tali non sono male intenzionate, anche se potrebbero suscitare quelle stesse riserve che qualcuno aveva fatto valere a proposito di Fuocoammare di Rosi[31].

Intanto, è bene ricordare che in tutti i casi (in fondo vale anche per Fuocoammare) l’esperienza dei migranti e profughi non sono semplicemente assenti. Anche a non contare la variante della relazione d’autore basata su testimonianze originali, difatti non strettamente riducibili a “voci altre” (perché «il letterato», si sa, quando si mette nella veste del traduttore, «parte intende, parte fraintende»[32]) – sia in Camarrone che in Enia esistono parti più o meno brevi che rendono ragione del punto di vista degli sbarcati[33]. Incisivi in questo senso sono gli esempi che cogliamo in Appunti per un naufragio: alle pagine 51-52, alternate ai riassunti dell’autore, si riporta la voce di un ragazzo ventenne, nato in Marocco, cresciuto a Roma, espulso dall’Italia per una storia di furto e riapprodato a Lampedusa dopo i suoi inutili tentativi di rientrarvi per via legale. E notare che qui la testimonianza riesce, e riesce credibile anche grazie alle favorevoli circostanze comunicative, perché il ragazzo «era romano in tutto e per tutto», anche nel linguaggio. Altro esempio, più esteso, il racconto di Bemnet, il ragazzo eritreo, fuggito a diciassette anni (pp. 132-38). Anche qui, l’autore agisce a mo’ di “segretario”, nella misura in cui spesso al discorso diretto di Bemnet (che originalmente parlava in non si sa quale idioma) sostituisce il proprio riassunto. La voce diretta dell’”altro” comunque occupa porzioni testuali ampie, e anche là dove Enia interviene come interprete, è sensibile un suo sforzo stilistico, teso a mimare la voce originale, non fosse per la relativa contenutezza del discorso e il suo andamento in staccato, a tratti quasi telegrafico – segni forse del rispetto di quella stessa proporzione «moralmente necessari[a]» tra la «enormità [dell’]esperienza e la sobrietà oggettiva della parola che prova a dirla» che Mengaldo riscontra nelle testimonianze sulla Shoah (per si veda qui infra)[34].

In secondo luogo, si tenga conto che entrambi gli autori non ignorano il problema del diritto di parola, né probabilmente il risvolto etico della loro scelta di dare la preferenza alla voce dei loro “consimili”, isolani ed europei; o comunque di esporre le cose secondo un’angolatura più affine alla loro che non a quella dei profughi-migranti. Se ci rivolgiamo all’esperienza letteraria di Camarrone, troviamo che questo problema è stato da lui affrontato in un altro contesto, non a livello teorico, bensì in modo letterariamente “creativo”. In un racconto scritto qualche anno prima di Lampaduza, Questo è un uomo, Camarrone, infatti, inventa una situazione narrativa complessa in cui ampie parti sono riservate al discorso diretto di una testimone africana, una «donna memoria», o Djeli, o Gawlo [35]– vale a dire, di una figura che in sé corrisponde in almeno due punti a criteri minoritari  (e quindi dovrebbe soddisfare ai postulati egualitari che si chiede la letteratura di rispettare, quasi così ne si potessero redimere le passate “colpe”[36]). La testimonianza della narratrice fittizia porta su un giornalista, nero ma di nazionalità italiana, disperso nel tentativo di infiltrarsi tra i rifugiati in Sicilia per vivere la loro vita e raccontarla (secondo un’esperienza divenuta famosa con Günther Walraff). Il breve romanzo risponde al desiderio di «immedesimarsi», seppure attraverso una serie di schermi un po’ macchinosi, nella situazione delle vittime di una nuova tragedia, rielaborando le testimonianze di altri (in particolare, del giornalista Fabrizio Gatti ma anche di Primo Levi). La tragedia è definita immensa e come tale comparabile solo alla Shoah (onde il titolo che rinvia al libro di Levi, Se questo è un’uomo)[37]. Qui non importa discutere la riuscita della trovata di Camarrone, ma essa merita di essere ricordata quale tentativo di reagire concretamente alla sfida (purtroppo sempre più simile a un obbligo morale) di dare la voce agli “altri”.

In un certo senso lo fa anche Enia, ma con mezzi radicalmente diversi. Anzi, la sua reazione al problema implica una convinzione dichiaratamente agnostica, in un senso nient’affatto ironico del termine. In uno dei tanti discorsi diretti nei suoi Appunti, Paola, l’amica siciliana da anni residente su Lampedusa come proprietarie di un bed & breakfast, ribadisce che non sono persone come lei, non sono gli isolani, coinvolti «per caso», che «andrebbero intervistat[i]», bensì «i veri soggetti di questa storia». Sarebbero quindi i migranti stessi «che andrebbero ascoltati per comprendere i tanti perché di questo esodo di massa». Nell’appunto di Paola, in sostanza, ritroviamo quanto Andrea Segre aveva espresso e auspicato nella sua Lettera Aperta indirizzata agli spettatori europei i quali, dopo aver visto al cinema Fuocoammare di Rosi, si sono mostrati commossi (ipocritamente, secondo lui). Segre non nega al film del suo collega ogni riconoscimento, anzi, ne ammette la sua «potenza» come effetto proprio della scelta dei limiti prospettici entro cui si muove. Eppure, questa stessa scelta, vale a dire, il fatto che Rosi «evit[i] di conoscere i migranti […] come persone con storie, desideri, progetti», lo lascia perplesso[38]. Perché sarebbe a loro che spetterebbe la nostra attenzione: al dialogo che permetta di «costruire ponti» verso le persone che inevitabilmente continueranno ad approdare alle sponde europee. Di rimando, l’insistenza ossessiva su Lampedusa, tipico luogo di confine deciso «dal libero arbitrio politico e sociale»[39], sarebbe parte di una strategia di mistificazione: «serve», così Segre, «a non capire o a non dire ciò che le classi politiche europee stanno facendo».

Senza contestare la legittimità, per lo meno politica, della posizione di Segre, viene però da chiedere se è giusto dedurne un presupposto esclusivo per l’arte. È veramente utile postulare, come si faceva ai tempi della querelle gattopardesca (per restare alle opere del nostro “corpus”), che criteri del ragionamento politico con criteri di rappresentazione artistica debbano convergere secondo una determinata ideologia. Per dirlo con parole che Francesco Orlando indirizza ai detrattori del Gattopardo, romanzo presumibilmente di destra e presumibilmente devoto al punto di vista della classe dei privilegiati: «Dove sta scritto che progresso, giustizia, speranza e operosità debbano far parte della rappresentazione?»[40].

Ma c’è ancora un’altra questione che nel discorso di Segre rimane aperta: quella della rappresentabilità dell’esperienza altrui. Siamo ovviamente d’accordo sulla necessità di concedere agli altri il diritto di narrare la loro esperienza, e di fornirci così i tasselli mancanti «al mosaico di questo presente» (vedi infra). Ma deve per forza stare a un autore cresciuto in occidente a farsene carico? La fede positivista che sottende alle indagini di Emcke; la traduzione o anche solo l’integrazione delle voci altrui nella struttura di un libro o di film; il tentativo d’«immedesimazione» di Camarrone: ecco, non sono forse già una violazione della verità altrui, una rivisitazione dell’esperienza dell’”altro” in funzione di una Storia come la pensiamo e la vorremmo noi?

In Appunti per un naufragio a queste o simili domande si danno una risposta. Nel paragrafo che segue la citata osservazione dell’amica sulla centralità della testimonianza, l’autore fa una specie di statement in cui dichiara la propria posizione in merito. Secondo Enia, per l’appunto, non è compito di un autore europeo, di qualunque segno egli sia, a fare da interprete per i migranti. Del resto, anche se volesse, non potrebbe, perché la loro esperienza supera le potenzialità del suo linguaggio. Il loro vissuto è «qualcosa di più grande di noi tutti», come dice (con possibile allusione al libro di Giobbe, 42, 3: «[…] sono cose troppo alte, e non le capisco»)[41]:

A oggi, manca ancora un tassello al mosaico di questo presente, ed è proprio la storia di chi migra. Le nostre parole non riescono a cogliere appieno la loro verità. Possiamo nominare la frontiera, il momento dell’incontro, mostrare i corpi dei vivi e dei morti nei documentari. […] Ma la storia della migrazione saranno loro stessi a raccontarla, coloro che sono partiti e, pagando un prezzo inimmaginabile, sono approdati a questi lidi. […] Saranno loro a usare le parole esatte per descrivere cosa significa approdare sulla terraferma, dopo essere scappati dalla guerra e dalla miseria […]. E saranno loro a spiegarci cosa è diventata l’Europa e a mostrarci, come uno specchio, chi siamo diventati noi.

È un passo molto efficace, dal vigore profetico, grazie alle strutture anaforiche e i tempi verbali futuri evocanti quella tale cosa «troppo grande» che qui si direbbe quasi essere una minaccia incombente (e cioè, non solo il conoscere «chi siamo diventati noi», ma lo stesso racconto degli altri, se è vero che «la vendetta» può essere «il racconto»).

Ora, il problema che nel passo citato è risolto su un piano anzitutto epistemologico, in realtà implica una dimensione anche etica. In altre parole, la questione non si pone solo nei termini di in/sufficienza empirica e quindi di im/possibilità linguistica (posseggo/ non posseggo l’esperienza altrui; posso/ non posso rappresentarla), ma anche in termini etici di diritto alla rappresentazione (devo/ non devo rappresentare l’esperienza altrui). Entrambi gli aspetti ci riconducono al dibattito e alle varie posizioni che si sono formalizzate attorno al noto “divieto” di Adorno[42]. Teoricamente comunque non dovrebbe essere necessario arrivare a quello per comprendere che il rifiuto di farsi carico del punto di vista altrui non significhi automaticamente: rifiutare una responsabilità, mettere in secondo piano, ridimensionare o addirittura ignorare la portata tragica dell’esperienza degli altri. Al contrario, può anche semplicemente voler dire: rispettare un limite.

È proprio rinunciando di immaginare l’esperienza altrui che gli si concede statuto di soggetto, riconoscendolo come altroaltro non nel senso idealista, di ontologicamente diverso e quindi mitico, bensì nel senso di storicamente incommensurabile con l’esperienza e le convenzioni della vita di un borghese europeo medio. Il rifiuto di raccontare l’esperienza altra, di ridurli alla traduzione e agli strumenti diegetici che si sono sviluppati nel seno della società occidentale moderna, in questo senso, è come una sorta figura retorica paradossale: la reticenza esprimendo l’idea di una diversità inudita, un’esperienza letteralmente enorme[43].

Per inciso, è proprio per queste ragioni, vale a dire, per esprimere l’idea, ideologicamente forzata, di una possibile alternativa alla vita e all’episteme borghese (alternativa secondo lui incarnata miticamente nella classe contadina, sottoproletaria, e parzialmente anche operaia[44]) che Pasolini narratore si era rifiutato dagli anni ’60 in poi di usare certe soluzioni narrative, di violare la sensibilità o psicologia “altra” ed entrare nel punto di vista dei suoi personaggi borgatari (Ragazzi di vita), in particolare, come regista, in quello del suo borgataro “tipo”, Ninetto (Uccellacci uccellini; Che cosa sono le nuvole; Teorema…). In effetti, «Pasolini», così scrive Cerami, «non voleva raccontare il popolo con sguardo borghese, superiore e quindi moralistico». Si rifiutava, precisamente, di piegare una loro – in questo caso, si, roussovianamente mitizzata – alterità all’esperienza culturale omologante e riduttiva della borghesia italiana[45].

E il discorso vale a fortiori se al termine “altro” o “alterità” si associa il significato, anziché d’un soggetto umano, di un fatto contingente, di un evento. In parole adatte al nostro contesto: è possibile oltre che lecito esprimere, con parole o immagini, le efferatezze alle quali sono sopravvissuti i profughi-migranti? L’evento trascende il linguaggio, precisamente, nella misura in cui non esiste niente che gli somigli? Le domande appunto ricordano il dibattito sulla dicibilità dell’Olocausto; alla questione della possibilità o no, come ha scritto Celan, di parlare «in eines Anderen Sache» e al rispettivo “no” di Adorno[46].

Non a caso, in Lampaduza, nel tentativo di parlare di quanto sono spesso costretti a subire i profughi-migranti, Camarrone rimanda a questa esperienza[47]. Nel Post Scriptum al suo romanzo, Questo è un uomo, leggiamo che «solo l’immedesimazione in quella tragedia senza più Dio che fu la Shoah [poteva] permettere [all’autore] di accostarsi a questa nuova tragedia». Auschwitz assume quindi valore di una figura iperbolica negativa, dell’abominio che trascende ogni forma di comprensione[48]. La scelta ovviamente tradisce e al contempo esprime l’imbarazzo concettuale dell’autore di fronte all’intuizione dell’enormità del vissuto dei profughi-migranti: un’enormità inimmaginabile o, appunto, altra. In assenza di testimonianze organiche da parte dei soggetti dell’attuale tragedia – in assenza cioè di quella «epica di Lampedusa» che secondo Enia nascerà da qui a poco [49]–, Camarrone ripiega sull’idea della Shoa come catastrofe unica nella storia – ed unica sicuramente era nel senso preciso che aveva dato luogo a una inconcepibile «sproporzione tra le cause e l’effetto»[50].

Ora, togliere allo sterminio organizzato dai nazisti il suo valore di “reliquia dell’orrore” ed assumerla a termine di paragone in base a cui, come diceva Bernard-Henri Lévy «vigil[er] sans répit sur tous les fronts contemporains du malheur»[51], è un gesto che comporta, tra i suoi oneri, la consapevolezza di una serie di rischi – prima fra tutti, ricorda ancora Lévy, «la banalisation, et de la chose, et du mot qui la désigne». Ma proprio in questo senso, la scelta di Camarrone pone qualche problema. Intanto, perché dicendo provare ad «immedesimarsi» nella prospettiva di un sopravvissuto ai Lager, salta e in un certo senso viola quella serie di passaggi logici che s’inizia con la perplessità linguistica degli stessi superstiti, nient’affatto concordi sull’idea della traducibilità della loro esperienza (e ricordare come lo stesso Primo Levi ribadiva che «Auschwitz potrebbero dirlo veramente solo “i sommersi”, coloro a cui è stata invece sottratta la possibilità di parlare»[52]). Ma anche perché, paradossalmente, elevandola (o riducendola) a figura, Camarrone ne ridimensiona il valore storico e simbolico di hapax. Contraddice l’assunto della sua unicità e quindi incomparabilità. E lo stesso vale ovviamente anche per il primo termine della comparazione: logicamente, l’enormità incomparabile e pertanto “altra” dell’esperienza dei soggetti della «più grande migrazione mai conosciuta dall’Umanità» è contraddetta[53]. La discussione potrebbe sembrare oziosa se in fondo non ne andasse di una questione più grande, una questione-tabu che riguarda, non solo le possibilità ana-logiche e quindi linguistico-retoriche, bensì la ripetibilità concreta dell’evento Shoah. E non è nient’affatto detto che Camarrone, consentendo a questa idea – consenso implicito alla scelta contradditoria di farne un termine di confronto – non abbia purtroppo ragione, e non solo da oggi.

In Appunti per un naufragio il problema della dicibilità non solo è sentito, ma ne coinvolge proprio tutti registri, sia tematici, strutturali che stilistici. È anzi presente sin dal titolo: Appunti. Di primo acchito il titolo, infatti, nega all’opera quello statuto di romanzo che l’autore comunque vuole gli si concedi. In realtà, rinvia a una prerogativa strutturale obiettiva: alla frammentarietà del discorso, a quella singolare alternanza di parola e silenzio che, visibile a livello anche tipografico, è il segno concreto di difficoltà d’espressione, se non di afasia[54]. A confermarlo, come in una mise en abme, ci sono le ricorrenti pause, le interruzioni o aposiopesi nelle interviste con persone a vario titolo coinvolte in situazioni d’emergenza[55]; o anche soltanto nei dialoghi con i familiari, specialmente con il padre[56]. Il tema della dicibilità quindi non riguarda soltanto l’evento sconvolgente che hanno subito i profughi, riguarda il mondo e le relazioni umane in generale. Enia ci torna sopra quasi ossessivamente. Registra ogni movimento che nei suoi interlocutori e in sé stesso tradisce il sempre difficile rapportarsi con il linguaggio – i gesti nervosi, i tic, spostare oggetti, guardarsi le mani, bere caffè, fumare… Spia con acume inesorabile, con «lo sguardo clinico» del medico[57], gli sforzi immani e a volte quasi comici (specie quando connotano una prerogativa siciliana[58]) che si devono compiere per sfuggire all’opacità linguistica, alla solitudine dell’esperienza umana, a quei silenzi in cui si fa sentire il vento o la risacca del mare – figure queste ultime di qualcosa di troppo «più grande di noi tutti».

E l’opera stessa, in effetti, configura una rivolta contro il peso schiacciante del silenzio e il rischio dell’afasia. È l’autobiografia di una ribellione contro una tacita imposizione del silenzio vissuta a casa, in Sicilia, dove «tacere è sintomo di virilità»[59]; ma anche contro l’esperienza dell’ineffabile, specialmente della morte, di ogni morte, violenta o no. Di fronte alla morte la narrazione è più volte data per essere la sola via d’uscita. «Raccontare aiuta, sicuramente […]», dice, infatti, il Comandante della Guardia Costiera, commentando così la propria esperienza delle tragedie in mare durante le operazioni di soccorso. Aiuta, dice, «anche solo per liberarsi di tutto ciò che si porta dentro». Ma già nella frase che segue, in cui lo stesso Comandante rivendica di preferire comunque il silenzio, è sensibile il dubbio pesante che si nasconde nella sua affermazione[60]. Se il libro di Enia in sordina solleva la questione generale della in/dicibilità o in/traducibilità dell’esperienza del mondo, la sua risposta è positiva ed è il libro stesso. Conferma il paradosso della dialettica negativa di Adorno: di una smentita che conferma ossia, vice versa, di una conferma che smentisce. Ed è anche a questo che si deve l’efficacia della sua «testimonianza», nello specifico, sulla tragedia migratoria. Se il racconto di Enia è una sfida all’opacità dell’esperienza altra, è nei silenzi, nei tagli, nella riduzione del discorso che questa si fa intuire come qualcosa, appunto, di enorme. Così come, a dire di Adorno, è nel tacere che la poesia di Celan riesce a esprimere l’orrore estremo. È, in questo caso, nel residuo formale di una delicata operazione di sottrazione che «das äußerste Grauen nachzittert»[61].

Senza entrare nel merito della discussione sulle ragioni e sul torto del concetto di “alterità” – credo si possa essere d’accordo con il postulato universalista di Emcke e di non cedere al credo oscurantista di «un’alterità categoriale»[62], senza pertanto negare la legittimità, l’interesse e anche determinati vantaggi conoscitivi a testi d’autori che presuppongono una dimensione altra, rifiutandosi quindi curiosare e sconfinare in ogni angolo di realtà. Lo stesso dicasi di testi che implicano limiti di rappresentazione meno assoluti, come, appunto, la restrizione artificiale e strategica delle vedute narrative. E qui torniamo ancora una volta al problema della prospettiva periferica e dei suoi punti di forza.

  1. «Ma chi minchia vulìti ri nuatri!». Punti di forza della prospettiva periferica

Fuocommare ne è una prova dagli effetti potenti: l’adozione di un angolo visuale parziale permette al regista di mediare visioni stranianti che turbano e possono quindi sovvertire la prospettiva dello spettatore occidentale nonché l’ordine valoriale che le sottende. Nell’esperienza del film di Rosi, nelle sue inquadrature e il suo racconto, le macro-categorie antitetiche, e il corollario di micro-categorie strutturalmente analoghe che a grandi linee regolano la nostra lettura degli eventi nel Mediterraneo (Europa vs. Africa; Settentrione ricco vs. Meridione povero; Occidente progressista vs. Oriente barbaro ecc.) vengono messe in crisi. Non le avallano. La realtà insulare che il regista prova a riprodurre, infatti, ne rimane estranea, proprio come in Fuocoammare sono mostrati estranei gli isolani dallo sconvolgimento degli approdi e dalle rispettive operazioni ufficiali – e questo certo per una scelta, la quale però sottende una realtà di fatto, una separazione artificiale, decisa dalle autorità, degli spazi del reale[63]. A questa estraneità di fatto però si aggiunge un tipo di estraneità che riguarda il modo di vivere e giudicare gli eventi da parte degli isolani – un modo appunto sconvolgentemente diverso dal nostro.

Un esempio è dato nel sesto capitolo di Lampaduza, dove Camarrone rievoca lo scenario degli sbarchi del dodici ottobre 2013. Passa in rassegna i fatti, lasciando spazio alle sue impressioni personali. Poi descrive e commenta la reazione dei Lampedusani, la loro perplessità e impazienza di fronte a questa ennesima irruzione della tragedia nella loro sfera privata. Per un breve istante, il discorso di Camarrone si sofferma allora sulla figura di un «vecchio pescatore, la pelle cotta dal sole». Nella generale confusione causata dall’arrivo della nave con i naufraghi salvati, il signore anziano non tiene più, ma sbotta, esasperato dai turisti e dai giornalisti curiosi, affollati sul molo, dallo spettacolo politico e mediatico che ancora una volta va in scena davanti a casa sua: «Ma chi minchia vulìti ri nuatri?» [64]. La scena descritta da Camarrone per un momento apre alla realtà di chi è concretamente minacciato, di chi è letteralmente travolto dagli eventi, dalla forza cieca della Storia. Di fronte alla quale imperativi morali di solidarietà e di empatia – sempre difficili, per carità, ma che dovrebbe esserlo un po’ meno per chi, diversamente dai lampedusani, vive al riparo di uno stato sociale funzionante – possono anche cessare e mostrarsi per quei valori sociali estremamente fragili che sono. Passi come questi, direttamente calcati sull’esperienza degli isolani, riescono a mettere in questione il sistema di coordinate del lettore nella misura in cui lo confrontano con l’enormità degli accadimenti. E sono tanto più efficaci quanto più l’idea stessa di una simile enormità non esiste più nella coscienza del borghese medio, abituato da decenni a una realtà fatta di rapporti sociali più o meno stabili (al punto da non concepire neanche più, come suggeriva Pasolini, che sarebbero modificabili[65]). Ora, questa osservazione lega con altri due punti di forza della narrazione periferica.

Il primo: rappresentare le cose secondo una loro dimensione per così dire primitiva o (con termine usato anche da Andrea Segre, ma con sottinteso critico) «epica». I limiti narrativi che autori come Camarrone e Enia, ma anche un regista come Rosi adottano, funzionano a mo’ di filtri. Questi eliminano quindi i residui di informazione che servirebbero a contestualizzare e restituiscono degli accadimenti l’illusione di un grado zero. Ne risultano scene in cui sembra rivivere l’esperienza dell’uomo alle prese con le leggi del più forte: le realtà efferate, di violenza e di morte, che nei centri delle società occidentali sono ormai ignorate, o sublimate (sport, spettacoli), o ridotte a fatti occasionali. Trasmettono lo shock, l’incontro-scontro tra uomini che s’ignorano e tra cui non è possibile altro legame se non istintivo – sia esso di solidarietà, di paura e difesa o di violenza. Negli Appunti di Enia questo effetto è dato soprattutto nei passi che riproducono, come in presa diretta, il vissuto dei testimoni. Per esempio, i resoconti delle operazioni di soccorso in alto mare dove «[t]utto si riduce a una questione di tempo»; le  traumatiche visioni dei sub costretti a ricuperare i corpi senza vita e mutilati degli annegati; o le situazioni di sbarco, come quello di una quarantina di persone avvenuto sotto casa degli amici Paola e Melo – un’esperienza capace di smascherare la forza degli istinti finanche nel più incallito «intellettuale di sinistra»; perché «poi, nel momento in cui [ci si trova] dentro, minchia…»[66]. L’immediatezza di questi episodi e i mezzi stilistici usati per conseguirla servono quindi a cogliere degli eventi un aspetto di realtà prima (o dopo) che essi siano trasformati in un anonimo dato di stampa o di saggistica politica.

Il secondo, ma non meno importante punto di forza della scelta periferica sta ovviamente nel fatto di ricordare che tra gli interessati degli sconvolgimenti migratori ci sono essi stessi, gli isolani, cittadini di Lampedusa. Dei quali, si noti, nella Lettera aperta di Segre non si parla: come se per loro non valesse quel diritto a essere conosciuti, giustamente rivendicato per i profughi; come se non valesse il diritto alla «conoscibilità di storia anche al tempo dei topi in trappola»[67].

Costretti da generazioni a vivere all’ombra (o al riparo) di uno stato di diritti cui teoricamente appartengono dal 1861, i Lampedusani, di fronte al repentino incalzare dei flussi migratori e delle loro problematiche conseguenze, di colpo si trovarono nel centro di un disastro – ma senza per questo essere al centro dell’attenzione. I drammatici accadimenti che, in poche parole, altro non sono che effetti di un sistema globale fatto di forze e di interessi da cui, poco manca, i lampedusani sono ignorati tanto quanto gli emigranti approdati alle loro sponde: questi accadimenti non solo sconvolsero i loro già precari sistemi di vita. Come in più di un punto ricorda Camarrone, essi finiscono anche sul banco degli imputati se, anziché comportarsi, come voleva l’opinione pubblica, con il suo immaginario romantico – a mo’ di marinai-cavalieri dal comportamento improntato ad antichi codici di fratellanza – si ribellavano e reclamavano il sostegno delle autorità[68]. Grazie a testi e documentari che, appunto, ce ne riportano il punto di vista, riusciamo a intuire che per i Lampedusani, infatti, poteva non essere semplice vedere come lo Stato, anzi, l’Unione Europea, per rimediare alle emergenze umanitarie esplose nei centri d’accoglienza (e placare l’indignazione pubblica), di colpo si presentassero e garantissero investimenti strutturali da cui loro stessi, i cittadini, ancora una volta, sarebbero rimasti esclusi. Una vecchia ferita si è così riaperta. E con essa il capitolo di un vecchio libro intitolato “questione meridionale”.

  1. «Verità rimosse» e richiami universali. Il Gattopardo ed altre lezioni

Il punto ci riporta all’osservazione sulle «verità rimosse» (Brugnolo). Verità rimosse e rivelatrici. Accanto ad autori e saggi politici che – si pensi a Badiou, a Žižek o altri[69] – degli attuali sconvolgimenti tendono a ricostruire il quadro d’insieme, la grande “scacchiera” degli interessi e dei conflitti su cui, inevitabilmente, Lampedusa è solo un piccolo punto, testi latamente poetici come Lampaduza o Appunti per un naufragio rendono conto di situazioni sociali, relativamente episodiche, ma proprio per questo significative: focolai nient’affatto nuovi, ma riaccesi dagli eventi. Così, una situazione veramente nuova, la «più grande tragedia migratoria del dopoguerra»[70], si scopre al contempo essere l’ennesima occasione che conferma il vecchio “caso” meridione: una combinatoria difficilmente penetrabile – tale quale era stata ai tempi della famosa inchiesta di Franchetti e Sonnino[71] – di responsabilità e colpe, di occasioni mancate e non concesse, di silenzi e di parole.

Seguendo un procedimento inverso a quello dei saggi che, presentando l’incastro globale, lo illustrano con l’aiuto di esempi, i nostri due sono incentrati sull’evento particolare, sull’aneddoto.  Da qui poi gli autori risalgono a problemi di portata sempre più ampia – fino ad arrivare a questioni di stampo politico internazionale o anche filosofico.

Si prenda per esempio, nel quarto capitolo di Lampaduza, la nota su Claudio Baglioni[72]. Questi, come ricorda Camarrone, è promotore di ‘O Scia, un festival votato all’isola Lampedusa e, come si legge sul sito della rispettiva fondazione Onlus, «al vero significato di parole come integrazione, solidarietà e partecipazione»[73]. Sempre sull’isola di Lampedusa, Baglioni possiede una villa situata però in una zona che un piano regolatore (non varato) definiva «non-edificabile». Scoperto il caso, la villa è stata sequestrata dalla Guarda di Finanza. Senza che Baglioni stesso sia incorso in sanzioni. Camarrone non commenta, si limita a prenderne nota. Perché il fatto parla da sé. È un aneddoto, forse più pittoresco di tanti altri simili, e che perciò ha valore quasi di figura per i ben noti, e sempre rimossi problemi strutturali e culturali del Sud: l’autorità sociale ripartita in una molteplicità di diritti detenuti da gruppi di potere locali; l’intrecciarsi di questi con lo stato di diritto; la mancanza di garanzie statali e/ o la loro mancata interiorizzazione; la doppia morale…. Così in Lampaduza, e in un certo senso anche negli Appunti, una crisi dall’estensione a tutti gli effetti globale come la migrazione, è letteralmente affiancata, se non ridotta al problema chiamato “questione meridionale”: come se nulla, neanche la più grande crisi della storia del dopoguerra, riuscisse a strappare l’isola (le isole, la penisola, secondo il teorema sciasciano dello spostamento della palma) dal suo stato di essere, con termine tolto al Gattopardo, «irredimibile»[74].

Il rinvio al romanzo è d’obbligo. Non solo perché Camarrone tra una divagazione e l’altra faccia il nome di Tomasi di Lampedusa[75]. In realtà, questo cenno è solo il momento esplicito di una più estesa e diffusa intertestualità. Come si è detto all’inizio, alla lettura sia degli Appunti che di Lampaduza si è irresistibilmente attratti dal ricordo del Gattopardo, ai suoi temi chiave e alla denuncia che il romanzo a suo modo veicola. Per parlare prima di Camarrone, tra i tanti temi controversi da lui toccati si impone tra gli altri quello dell’abuso del concetto di “progresso”, nota bene, uno dei target polemici di Tomasi di Lampedusa nel suo romanzo. In Lampaduza la critica all’utilizzo dell’argomento progressista si esprime sull’esempio plastico delle insegne del potere democratico europeo, beni d’esportazione convenzionali che innestati nel terreno del meridione non attecchiscono e quindi non fruttano. Proprio come prima di lui faceva Tomasi quando, nel Gattopardo, prende di mira i tanti aggeggi tricolori e il battage patriotico esibiti durante le celebrazioni del plebiscito in cui si inneggia, come dice il narratore, con ironia mutuata da Leopardi, alle «magnifiche sorti e progressive» dell’Italia Unita [76]– tutte cose cui i contadini analfabeti dell’entroterra siciliano assistono rimanendo loro totalmente estranei, senza né comprensione né simpatia, come già si narrava in Libertà di Verga[77]. Il posto che nel Gattopardo spettava all’iconografia garibaldina e alla fraseologia rivoluzionaria, in Lampaduza sarà di una generica retorica umanitaria e alle sue reificazioni; per esempio, il monumento di Mimmo Paladino, eretto per ricordare i morti nel Canale di Sicilia: «una porta d’Europa rettangolare e ben fatta, illuministica, convenzionale. Finta»[78]. Come a dire, dai giorni dell’Unità non sono molto mutati i rapporti di potere tra centro e periferia. Questa rimane ottusa alle lusinghe e ai simboli che quello continua a elargire in mancanza di un’iniziativa politica concreta.

Quei bilanci negativi su cui chiude la storia del Gattopardo e che un «ottimismo progressista semplificatore e bugiardo»[79] continua a negare, Lampaduza non solo li conferma, ma li estende in modo drammatico. Si tratta in questo caso di bilanci veri e propri, di statistiche allegate puntualmente per corroborare con dati positivi le testimonianze degli intervistati e le impressioni d’autore. Camarrone li usa come uno strumento di verifica per mettere a nudo, con ironia amara, la tuttora scandalosa sproporzione tra ciò che è virtualmente possibile e ciò che concretamente è stato realizzato. Tra le promesse e i fatti. Per quanto riguarda l’isola di Lampedusa, la tutela dell’ambiente naturale e l’organizzazione comunale: scandalosa è la sproporzione tra le sue risorse (virtualmente, «Lampedusa sarebbe una centrale elettrica naturale») e la realtà effettiva («l’elettricità si continua a produrre con il costosissimo e inquinantissimo gasolio»)[80]; scandalosa la sproporzione tra la bellezza della natura, con le sue spiagge su cui «le tartarughe depongono le uova», e la gestione incosciente degli scarichi fognari di cui le stesse spiagge regolarmente sono sommerse (nel Gattopardo, il sindaco che promette al comune di Donnafugata un sistema di fognature, incorre in un lapsus che le prevede realizzate entro solo 101 anni, cioè mai…)[81]. Per quanto, in particolare, riguarda la gestione dell’emergenza migratoria: è scandalosa la sproporzione tra il numero delle persone sbarcate (14.818 solo nel 2013) e la capacità di accoglienza delle strutture sull’isola (250 persone); come scandalosa è la sproporzione tra le promesse politiche e il loro effettivo riscontro, le promesse di «investimenti milionari e leggi speciali» che o non arrivano mai o finiscono in mano ai Sedara, agli sciacalli che «lucrano sull’ospitalità dei migranti»[82].

«La morte cambia ogni cosa», così Camarrone chiosa la rievocazione di un naufragio avvenuto sul lungomare catanese. Ma il suo discorso lascia intuire altro. Che le cose non cambino. Da un lato, infatti, c’è l’elenco dei numeri dei morti annegati nel Canale di Sicilia: 100 (4 agosto 2011), 55 (17 gennaio 2012), 360 (3 ottobre 2013) 268 (11 ottobre 2013)… Dall’altro il racconto delle iniziative politiche, degli impegni presi per garantire un sostegno, tanto più facilmente dimenticati quanto più tronfi. E tra i due, tra le parole e i fatti, il rapporto è tale da ispirare lo sconforto e le formule che già erano dell’autore del Gattopardo. Se alle emergenze migratorie più clamorose seguirono giorni pieni di promesse e di «sogni», come al solito, così leggiamo in Lampaduza, «[il] mattino dopo non era cambiato nulla»[83]. Così si fa strada la tentazione del pessimismo, storico se non antropologico: «La Sicilia […] è un’isola che ha smesso da secoli di rivoltarsi contro ogni ingiustizia, lasciando il compito d’insorgere a pochi eroi e a perfetti sconosciuti». Un giudizio drastico, in cui troverebbero spazio anche le vedute di Lampedusa sul Risorgimento[84], ma che, è bene ricordare, denuncia un immobilismo di fatto, non di natura.

La permanente estraneità o impenetrabilità del meridione d’Italia, in particolare, della Sicilia alla lezione dell’Europa dei Lumi: a oggi parte della fama equivoca del Gattopardo risiede nella sua presunta risposta a questa domanda – una risposta a fondamento antropologico e naturalistico che in realtà, vale ripeterlo, non è dell’autore, bensì del personaggio principale, il Principe di Salina, che in realtà non fa che attualizzare un vecchio stereotipo[85]. Secondo Salina, infatti, la colpa della refrattarietà degli isolani a mettersi a passo con i tempi starebbe nella «immemoriale» ed «irredimibile» diversità dei Siciliani, stregati dal loro ambiente, vanitosi e perciò eternamente immobili[86]. Da qui deriva anche l’ingenua fiducia del protagonista nell’attuabilità del famoso e sin troppo equivocato motto gattopardesco: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutti cambi» – non il cinico motto politico di Tomasi di Lampedusa, appunto, ma la boutade del personaggio Tancredi che, come l’autore sapeva sin troppo bene, contiene una «previsione più falsa che vera», e che come tale corretta anche «storicamente»[87]. Infatti, la cosiddetta strategia di Tancredi si rivelerà fallimentare, proprio come è stato nella realtà storica. Perché alla fine del romanzo le cose non solo non saranno cambiate, ma saranno cambiate in peggio: la profezia del Principe alla fine della parte quarta secondo cui tutto «sarà diverso, ma peggiore» troverà una conferma concreta, e si realizza quindi un perfetto circolo vizioso. Ed è quest’ultimo che il romanzo illustra, ossia, vice versa, la responsabilità concreta dell’uomo – non un’oscurantistica convinzione in una Sicilia immobile e dove nulla mai potrebbe cambiare.

Intanto lo stereotipo e la rispettiva fraseologia si sono conservati nel tempo. Ne troviamo gli strascichi finanche in Appunti per un naufragio. Fa capolino e per un attimo si concretizza nei pensieri del narratore, assorto nella contemplazione di una foto che ritrae «uno scenario immobile, come immobile è la Sicilia, il mondo, la vita stessa»[88]. Nell’esperienza della Sicilia, la condizione dell’uomo è riassunta quasi figuralmente. Solitario, separato dai suoi prossimi come la Sicilia è separato dalla Calabria, l’isola dalla terraferma, immobile nella sua eterna esposizione alle contingenze, agli approdi, alla «insicurezza» della morte[89].

Il fatto è che nessuna figura, e fosse anche la più convenzionale, può esaurirsi in un solo significato. Allo stesso modo, l’analogia Sicilia-uomo come la troviamo in Enia, non si riduce, né tanto meno incita a lezioni pessimiste. Ne cova, anzi, di contrarie. Ché se la Sicilia, pur nella sua presunta diversità irriducibile, richiama l’idea dell’individuo e del destino umano, come suo corollario richiama anche l’idea della solidarietà tra gli uomini. Nel libro di Enia, infatti, ne abbiamo numerosi esempi: da quelli che riguardano legami di famiglia in senso stretto, a quelli che invece riguardano i legami di una ideale famiglia umana. La diagnosi della morte inevitabile, che nel Gattopardo ha trovato una delle massime espressioni letterarie, non invita alla disperazione, ma alla rivolta – alla «luce» e alla «resistenza» cui richiama il nome di Lampedusa[90].

Note.

[1] A. Finkielkraut, Ce que peut la littérature, Paris, Stock, 2006, p. 9.
[2] Sono le parole con cui Sartre descrive l’attrazione che la letteratura esercitava su di lui bambino, complice, appunto, l’equivoco di una corrispondenza immediata tra parole e cose; J.-P. Sartre, Les mots, Paris, Gallimard, 1964, p. 117; e più tardi, p. 151: «[…] je pris longtemps le langage pour le monde».
[3] «[…] Engagement ist vielfach nichts als […] Nachlassen der Kraft. […] die Linie des geringsten Widerstands [wird] mit einer moralischen Prämie [belohnt]»; Th. W. Adorno, Die Möglichkeit von Kunst heute, in id., Ästhetische Theorie, hrsg. v. G. Adorno u. R. Tiedemann, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1970, p. 372.
[4] «Indem noch der Völkermord in engagierter Literatur zum Kulturbesitz wird, fällt es leichter weiter mitzuspielen in der Kultur, die den Mord gebar»; Id., Engagement, in id., Noten zur Literatur, hrsg. v. R. Tiedemann, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1981, p. 424.
[5] È quanto sembra lasciar supporre un postulato come quello che Saviano articola nell’apertura di una sua raccolta di saggi, denunciando, certo a ragion veduta, «il cinismo» di chi nega alla letteratura ogni forza politico-sociale e ne limita l’interesse all’intrattenimento e alla bellezza dello «stile», R. Saviano, Il pericolo di leggere, in id., La bellezza e l’inferno, Milano, Mondadori, 2009, pp. 9-10.
[6] S. Brugnolo, La tentazione dell’altro. Avventure dell’identità occidentale da Conrad a Coetzee, Roma, Carocci, 2017, p. 23.
[7] Cfr. L. Spitzer, Sprachwissenschaft und Literaturwissenschaft, in id., Texterklärungen, Frankfurt a. Main, Fischer, 1990, in particolare si vedano le pp. 24-25. Per gli approcci, rispettivamente, di Auerbach, in cui è fondamentale l’interesse per «la messa in forma […] degli elementi di realtà» e di Orlando, per cui «il primo criterio per definire un discorso come letterario è formale», rimando a Stefano Brugnolo, Davide Colussi, Sergio Zatti, Emanuele Zinato, La scrittura e il mondo. Teorie letterarie del Novecento, pp. 125-30 (p. 128 per la citazione) e pp. 241-56 (p. 243).
[8] Cfr. Th. W. Adorno, Engagement, cit., p. 412.
[9] P. Levi, Conversazioni e interviste. 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino, Einaudi, 1997, p. 214. Su questo problema si vedano anche le testimonianze sparse commentate da Mengaldo in: La vendetta è il racconto. Testimonianze e riflessioni sulla Shoa, Torino, Bollati Borringhieri, 2007. Un esempio tra tanti: «Ciò che è accaduto non era qualcosa che si potesse scrivere o leggere» (Blady Szwajger), ivi, p. 12. O ancora, «[A]ppena uscimmo dal luogo dove avevamo trascorso la notte, ciò che ci accolse non ha nel linguaggio umano alcun riferimento» (Piera Sonnino), ivi, p. 20.
[10] C. Emcke, Weil es sagbar ist. Über Zeugenschaft und Gerechtigkeit, Frankfurt a. M., Fischer, 2015, p. 15. L’interesse dell’autrice, infatti, riguarda «[n]icht einfach die Geschichte […] [s]ondern auch wie diese Geschichte [erzählt wird]» (mio il corsivo): non solo cosa narrano gli intervistati, manche anche come lo narrano, con ripetizioni, insistenze, circolarità, lacune, metafore ecc. (ivi, p. 42). Farei comunque valere la seguente riserva: Emcke concede alle testimonianze, anche orali, uno statuto letterario, e questo, seguendo una concezione estensiva del concetto “letteratura” come per esempio era stato promosso da un teorico come Francesco Orlando, è condivisibile. Più problematico, di rimando, è ridurre a semplice documento un testo denso di mediazione poetiche come Se questo è un uomo. E questo non per una questione di valore, ma per il rischio di fraintendere la portata ermeneutica proprio di quelle scelte di lingua che giustamente Emcke mette in relazione al problema delle esperienze dei soprusi. Per una definizione estensiva del concetto “letteratura” si veda F. Orlando, Teoria della letteratura, letteratura occidentale, alterità e particolarismi, in AA.VV., Un canone per il terzo millennio. Testi e problemi per lo studio del Novecento tra teoria della letteratura, antropologia e storia, Introduzione e cura di Ugo M. Olivier, Milano, Mondadori, 2001, pp. 75-76. Anche Mengaldo, pur facendo valere qualche riserva metodologica, procede sulla base di una provvisoria abolizione delle differenze tra testo letterario e testimonianza, vedi La vendetta è il racconto, cit., per esempio alle pp. 54-58.
[11] D. Camarrone, Lampaduza, Palermo, Sellerio, 2014, p. 29.
[12] Diverso è il parere esposto sulla quarta di copertina secondo cui l’autore lascerebbe «salire alla memoria, col ritmo lento di un relitto che emerge, spunti diversi […]». Ma è l’autore a definire la redazione del suo testo, almeno in parte, come frutto di un «libero sfogo [di] associazion[i] d’idee»; D. Camarrone, Lampaduza, cit., p. 86.
[13] Ivi, cit., p. 60.
[14] D. Enia, Appunti per un naufragio, Palermo, Sellerio, 2017. Per l’appartenenza del testo al genere «romanzo», si veda il secondo paragrafo sulla quarta di copertina.
[15] Citazioni da una lettera all’amico torinese Bruno Revel, scritta l’8 dicembre 1932. La lettera è ancora inedita e mi è stata messa a disposizione dagli eredi dell’autore. L’isola di Lampedusa che un tempo era parte del feudo dei Tomasi, Duchi di Palma e Baroni di Montechiara, nel 1842 fu ceduto a re Ferdinando II, poco prima di essere poi integrata al Regno d’Italia.
[16] Cfr. per esempio, S. Brugnolo, L’idillio ansioso. “Il Giorno del Giudizio” di Salvatore Satta e la letteratura delle periferie, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2004, pp. 12-13.
[17] Che per i lampedusani la Sicilia, periferia dell’Italia (dell’Europa), sia una sorta di centro; che, insomma, i termini di centro e periferia siano relativi, è ricordato da Camarrone a proposito del significato e dell’utilizzo della parola “terraferma” («terraferma è il nome che le isole più piccole danno alle isole più grandi»); D. Camarrone, Lampaduza, Palermo, Sellerio, 2014, p. 18.
[18] Secondo un termine di Crescenzio Cane, ricordato e discusso in L. Sciascia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Milano, Adelphi, 1991, pp. 11-18.
[19] D. Enia, Appunti per un naufragio, cit., p. 63 e G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in id., Opere, Introduzione e premesse di G. Lanza Tomasi, I racconti, Letteratura inglese, Letteratura francese a cura di N. Polo, Milano, Mondadori, 2004, p. 185. La consapevolezza da parte di Tomasi di Lampedusa dei limiti e i vizi di prospettiva propriamente provinciali dei suoi concittadini è documentata da Francesco Orlando nel suo Ricordo di Lampedusa (cfr. soprattutto le pp. 28-31). Nel Gattopardo affiora più volte questo senso di fastidio per «la mancanza del distacco autocritico necessario a correggere mentalmente una prospettiva geografica particolare». Sennonché, esso è imprescindibile da quel senso di affetto e di nostalgia per l’isola che quindi caratterizza il discorso sul polo opposto.
[20] Per un’analisi dettagliata, si veda F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del “Gattopardo”, Torino, Einaudi, 1998, p. 38-41.
[21] S. Brugnolo, L’idillio ansioso, cit., p 6.
[22] Ivi, p. 7.
[23] Salvo tenere conto di un esempio cinematografico come Terraferma di Emmanuele Crialese (2011) in cui il dramma degli sbarchi è vissuto principalmente mediante l’esperienza del quotidiano e, quindi, il punto di vista dei protagonisti lampedusani, specialmente del giovane Filippo.
[24] I diversi intervistati da Enia rappresentano un vero e proprio campionario delle persone coinvolte negli sbarchi (o salvataggi o naufragi) lampedusani, vuoi perché vi risiedono, vuoi perché vengono volontari o perché sono designati a qualche carica ufficiale. Senza voler esaurire l’elenco, troviamo quindi le voci di semplici amici del narratore e dei loro conoscenti (tra cui Paola e Melo menzionati anche in Lampaduza), il Direttore Sanitario del Poliambulario (Pietro Bartolo che compare anche in Fuocoammare), una donna medico dell’ordine di Malta, il comandante della Guardia Costiera, capitaneria del porto, un mediatore culturale, persino il responsabile del cimitero…
[25] Esemplare, e quasi subito a inizio del libro, il caso della testimonianza del sommozzatore che partecipa alle operazioni di soccorso. I commenti d’autore, intervallati al resoconto in forma di discorso diretto, restano principalmente esteriori al personaggio del sommozzatore: descrivono la sua figura, la sua postura, i suoi movimenti, il suo modo di articolare il discorso, senza mai, e neanche quando scoppia a piangere, trasgredire i confini della sua interiorità. Il narratore, insomma, non si avvicina se al suo personaggio se non in forma di supposizioni, per lo più esplicite: «Mi domandai cosa mai dove[sse] avere visto», «Sembrava inscalfibile», ecc. E anche quando sono implicite, sarebbe comunque troppo considerarle come vere e proprie intrusioni: «Il suo sguardo […] andava oltre, in un punto del mare Mediterraneo che non avrebbe mai dimenticato». Lo stesso si verifica più tardi, in occasione dell’incontro con Gabriella, la dottoressa Cisom. Il lungo resoconto riporta l’esperienza della sua uscita in motovedetta a soccorrere un gommone con centoquattro persone, di cui ventinove moriranno, pur dopo essere state salvate. Il resoconto diretto sarà interrotto da solo poche frasi d’autore, scandite come versi, che molto discretamente colmano il vuoto al momento in cui il discorso della dottoressa è spezzato dal pianto che causa il ricordo e il dubbio sulle proprie responsabilità delle ventinove morti: «Scoppiò a piangere./ Era un pianto covato a lungo./ ecc., per poi concludere con un aforisma che è ancora troppo generico per essere considerato introspettivo: «Sotto la cenere del tempo, ardono le braci del rimorso». Cfr. D. Enia, Appunti per un naufragio, cit., pp. 12-16 e, pp. 108-16.
[26] Cfr. ivi, pp. 164 ss.
[27] Più drammatici: sono quelli in cui per esempio Enia lascia spazio alle voci delle persone in vario modo partecipi delle tragedie in alto mare, sul largo della costa lampedusana, sulla terraferma; racconti in presa diretta dell’orrore vissuto dai soccorritori. Più idiosincratici: si pensi ai passi in cui Camarrone rende conto delle reazioni risentite, per esempio gimnofobe, dei Lampedusani; cfr. Lampaduza, cit., pp. 52-53.  A volo d’uccello: anche letteralmente, se si pensa che sia Camarrone che Enia traggono spunto del loro viaggio in aereo da (o a) Lampedusa per rievocare, da una distanza ottica e metaforica, una loro visione delle isole di Lampedusa e di Sicilia. Vedi in Lampaduza, la descrizione di Lampedusa a p. 17; e in Appunti per un naufragio, p. 175, la visione dall’alto durante il volo Palermo-Lampedusa. Come dirò meglio (infra, paragrafo 4), queste pagine stanno in sintonia con la grande tradizione narrativa della o sulla Sicilia (o meridione) quale luogo ambiguo, tra inebriante sensualità e morte, tra bellezza e inferno.
[28] È la frase di Don Fabrizio nella Parte sesta de Il Gattopardo, poco prima della sua morte (il cui avvento, tra l’altro, è figurato in termini di «oceano tempestoso»); cfr. Il Gattopardo, cit., p. 219, e p. 243. Riflessioni sulla Storia, con la maiuscola, si trovano sia in Appunti per un naufragio, per esempio a p. 21 (da cui proviene la citazione) che in Lampaduza, per esempio a p. 67 che inizia con un appunto con-testualmente identico: «La storia non si ferma» ecc. Più problematica, e che richiederebbe un discorso a parte, la continua trasposizione dei fatti di Lampedusa dal piano del particolare al piano dell’universale. Negli Appunti di Enia questa trasposizione, protratta sistematicamente, trova il proprio nucleo programmatico nella metafora del mare e dei suoi derivati, a cominciare da quello nautico, suggerito sin dal titolo. La lettura anche figurata dei ripetuti episodi incentrati sul tema del naufragio e dell’approdo, e cioè non solo quelli dei migranti, è autorizzata sin dalla dedica epigrafica, «A Silvia, mio approdo», vale a dire: una ripresa antitetica, dichiaratamente metaforica del titolo in cui è anticipata la domanda straziante che quasi alla fine del libro, pone lo zio moribondo, personaggio e anche lettore degli Appunti: «Ci sono tanti naufragi qua dentro. E io? Ce l’ho un approdo, io?» (p. 206). A questo punto, il significato sin troppo evidente del moltiplicarsi di episodi di naufragio e o approdo sarebbe riducibile a un postulato di solidarietà, o a una formula più prosaicamente metaforica quale “siamo tutti nella stessa barca”, senza con questo ignorarne eventuali sottintesi escatologici (per cui si veda, per esempio, il Salmo 107, 23-32). Le rincorrenti riflessioni d’autore sulla dicibilità delle proprie esperienze, e quindi la componente meta-poetica del suo libro, portano a chiedere, infine, se a questo valore metaforico non s’innesta quello, diversamente tradizionale, della navigazione-scrittura (per cui si veda per esempio E. R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelater, Tübingen und Basel, Francke, 1993 [1948], pp. 138-41.
[29] Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino, Bollati Borringhieri, 2007 (1998), p. 15.
[30] Come corollario, forse non strettamente necessario, dei colonial studies, cfr. a questo proposito, gli appunti di S. Brugnolo, La tentazione dell’altro, pp. 22 ss.
[31] Rosi, così sostiene parte dei detrattori del film, sarebbe «empatico» solo «versi gli Italiani», mentre resterebbe estraneo al «volto del migrante», http://www.wired.it/play/cinema/2016/02/18/fuocoammare-osannato-berlino-i-nostri-dubbi/. Un giudizio simile per quanto riguarda questa scelta, ma assai più generoso per quanto riguarda tutto il resto, si legge anche nella recensione di Goffredo Fofi per Internazionale: http://www.internazionale.it/opinione/goffredo-fofi/2016/02/22/fuocoammare-rosi-lampedusa-recensione. Tornerò più tardi alla posizione di Andrea Segre, quale espressa nella sua Lettera aperta all’Europa che si è commossa (http://andreasegre.blogspot.de/2016/03/dopo-fuocoammare-lettera-aperta.html.
[32] Com’è detto nei Promessi sposi, capitolo XXVII, e commentato da S. S. Nigro, nel suo saggio introduttivo a T. Costo/ M. Benvenga, Il segretario di lettere, Palermo, Sellerio, 1991, pp. 9-23.
[33] In Lampaduza (p. 123), Camarrone per esempio lascia la parola a un ragazzo ormai residente al Nord, venuto come tanti altri in Sicilia, a Nocellara del Belice, per la raccolta delle olive. Si tratta però solo di un paio di frasi, il resto è un discorso riportato, non passibile di una definizione in termini di “voce altra”.
[34] P. V. Mengaldo, La vendetta è il racconto, cit., pp. 117 ss.
[35] D. Camarrone, Questo è un uomo, Palermo, Sellerio, 2009, p. 29 e p. 30.
[36] Per una critica dell’utilizzo della letteratura come «programma di redenzione sociale», cfr. H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età, Milano, Rizzoli, 2012, p. 443. Ma cfr. anche F. Orlando, Teoria della letteratura, letteratura occidentale, alterità e particolarismi, in AA.VV., Un canone per il terzo millennio, cit., pp. 72-73.
[37] Per una descrizione più dettagliata, si veda il Post Scriptum in D. Camarrone, Questo è un uomo, cit., pp. 87-90.
[38] A. Segre, Dopo Fuocoammare – Lettera aperta all’Europa che si è commossa, cit.
[39] D. Camarrone, Lampaduza, cit., p. 85.
[40] F. Orlando, L’intimità e la storia, cit., p. 156.
[41] Per la citazione di Enia, inclusa quella più lunga che segue, Appunti per un naufragio, cit., pp. 145-46.  Per il riferimento biblico, cfr. anche il saggio di P. V. Mengaldo, La vendetta è il racconto, cit., p. 147, in cui fa da explicit.
[42] Rimando all’utile raccolta di testi a cura di P. Kiedaisch, Lyrik nach Ausschwitz? Adorno und die Dichter, Stuttgart, Reclam, 1995.
[43] Sulla controversa portata del termine “alterità”, specialmente, sul suo utilizzo enfatico, in ultima istanza irrazionalistico, si vedano le utili precisazioni di Stefano Brugnolo nel primo capitolo del suo La tentazione dell’altro, cit., pp. 27-35.
[44] Un’alterità che in altre circostanze, rimanendo quindi nella sfera del biologico, definisce in termini di «razziale», come si legge nello scritto preparato, poco prima di morire, per il congresso del Partito radicale; P. P. Pasolini, Lettere luterane, in id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, con un saggio di Piergiorgio Bellocchio, Milano, Mondadori, 2012, pp. 706-15, e p. 711.
[45] Cfr. V. Cerami, La trascrizione dello sguardo, in P. P. Pasolini, Per il cinema, vol. I, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, p. XXXII. Anche Domenico Quirico che ha cercato realmente di immedesimarsi nel punto di vista dei migranti, riconosce, e forse è ovvio, l’incommensurabilità della propria esperienza alla loro. In un suo servizio investigativo – servizio per il quale l’autore si è mescolato tra «cento disperati» in rotta dalla Tunisia verso Lampedusa – ricorda come, anche condividendo con essi tutto, dall’imbarco sino al naufragio, rimanesse tra di loro un residuo irriducibile di distanza. Dai suoi compagni di viaggio lo separava, così Quirico, «qualcosa di impalpabile e prezioso». Si veda http://www.lastampa.it/2011/03/16/esteri/in-fuga-dalla-tunisia-la-mia-odisseadi-ore-su-una-barca-di-metri-JGta2qWvVAJ4ovbDqhQg4J/pagina.html.
[46] P. Celan, Der Meridian, citato in AA. VV., Lyrik nach Ausschwitz?, cit., p. 79.
[47] Parlando dei campi profughi in Libia, Camarrone li definisce luoghi di «annichilimento dell’uomo, della distruzione della sacralità della vita umana» ispo facto paragonabili ai campi di concentramento; cfr. D. Camarrone, Lampaduza, cit., pp. 77-79.
[48] D. Camarrone, Questo è un’uomo, cit., p. 90.
[49] D. Enia, Appunti per un naufragio, cit., p. 145.
[50] P. V. Mengaldo, La vendetta è il racconto, cit., p. 16.
[51] Cfr. B.-H. Lévy, Réfléxions sur la Guerre, le Mal et la fin de l’Histoire – précédé de: Les Damnés de la guerre, Paris, Grasset, 2001, pp. 338-39.
[52] P. V. Mengaldo, La vendetta è il racconto, cit., p. 17.
[53] D. Camarrone, Questo è un’uomo, cit., p. 90.
[54] Di frammentarietà, anche se a un livello di consapevolezza stilistica molto più bassa, si può parlare anche in Lampaduza. La saltuarietà logica, lo stile associativo che si riflette anche nella scansione del testo in paragrafi e capoversi, sono il segno di una retorica dell’ansia che caratterizza il testo intero – ansia, appunto, di chi prova a dire, ma non ci riesce, vuoi perché le impressioni sono troppe, vuoi perché emanano da qualcosa di inafferrabile. A questo proposito viene da ricordare la «forma-passeggiata», concetto di ispirazione deleuziana, che Wu-Ming 1 nel suo saggio New Italian Epic definisce come corrispondente a una «situazione in cui si coglie “qualcosa d’intollerabile, d’insopportabile […]». Si veda alla p. 10, il paragrafo VIII della versione 2.0, disponibile in rete: https://www.wumingfoundation.com/italiano/WM1_saggio_sul_new_italian_epic.pdf
[55] Così il discorso, interrotto dal pianto, del sommozzatore: «”E quando salvi un bambino in mare aperto e lo tieni in braccio…”/ E scoppiò a piangere, in silenzio./ Le braccia rimasero conserte. […]», D. Enia, Appunti per un naufragio, cit., p. 14.
[56] Ivi, p. 29.
[57] Il testo suggerisce più volte la fondamentale analogia tra la professione dell’autore e quello del medico (che è la professione del padre dell’autore), cfr. ivi, p. 52 e p. 79.
[58] «Per alcuni palermitani parlare sembra richiedere un tale sforzo che serve un accurato riscaldamento iniziale», ivi, p. 29.
[59] Cfr. ivi, p. 42.
[60] Ivi, p. 99.
[61] «Celans Gedichte wollen das äußerste Entsetzen durch Verschweigen sagen»; Th. W. Adorno, Ästhetische Theorie, cit., p. 477 e n. 16. Per la seconda citazione, riportata anche in epigrafe, si veda il saggio «Jene Zwanziger Jahre», in AA. VV., Lyrik nach Ausschwitz?, cit., pp. 49-53 e p. 53.
[62] «Gewiss, daran glaube ich noch immer: dass es das kategorial “Andere” nicht gibt, dass es sich einfühlen lässt in andere kulturelle, religiöse, ästhetische Lebenswelten, dass sich andere Praktiken und Überzeugungen als die eigenen verstehen lassen. Nicht nur das, sondern dass diese Empathie unverzichtbar ist, für uns alle»; C. Emcke, Weil es sagbar ist, cit., p. 20.
[63] Si veda l’appunto di Enia: «La percezione è che qui in paese pare che non arrivi proprio nulla di ciò che accade in mare. Si consuma tutto quanto al molo o dentro al Centro»; D. Enia, Appunti per un naufragio, cit., p. 65.
[64] Cfr. D. Camarrone, Lampaduza, cit., pp. 51-52.
[65] Cfr. P. P. Pasolini, Lettere luterane, in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 711 ss.
[66] Uno dei racconti delle operazioni di soccorso, quello del Comandante della Guardia Costiera, è alle pp. 93 ss.; il racconto dello scenario straziante e d’orrore che si presenta a Simone, sommozzatore, è alle pp. 161-62; la storia dello sbarco narrata da Paola e Melo è alle pp. 32-39. La successione degli istinti della paura, poi, della solidarietà, è ritratta anche in Terraferma, a partire dalla scena dell’uscita notturna in barca di Filippo.
[67] F. Orlando, L’intimità e la storia, cit., pp. 158-59.
[68] Inutile ricordare che, accanto alle comprensibili proteste e alle sue derive populiste, la solidarietà ci sia stata e ci sia pure, anche se forse non nel modo previsto dal suddetto ideale romantico. Si veda a proposito gli appunti di Camarrone in Lampaduza, cit., p. 53: «Prima del tempo della rabbia e dell’abbandono [leggi: dallo stato] la regola dei lampedusani era il soccorso dei migranti. È ancora così, intendiamoci. Ma costa un po’ più caro». La considerazione trova conferma nelle testimonianze raccolte da Enia, nelle varie affermazioni da parte degli isolani circa l’obbligo della solidarietà, che sia in mare o sulla terraferma; cfr. D. Enia, Appunti per un naufragio, cit., p. 36 e p. 159.
[69] Per esempio in A. Badiou, Notre mal vient de plus loin. Penser les tueries du 13 novembre, Paris, Fayard, 2016 ; o S. Žižek Der neue Klassenkampf. Die wahren Gründe für Flucht und Terror, Berlin, Ullstein, 2015.
[70] D. Camarrone, Lampaduza, cit., p. 117.
[71] L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative in Sicilia, Donzelli, Roma, 1993. L’inchiesta risale al 1876.
[72] D. Camarrone, Lampaduza, cit., pp. 35-36.
[73] Si veda http://www.fondazioneosciaonlus.org./
[74] Il rapporto d’inclusione, se non d’identità tra l’isola di Lampedusa, l’isola di Sicilia, la penisola italiana (senza escludere finanche il continente europeo) è suggerito in Lampaduza, a p. 18 e a p. 107. Per il termine chiave «irredimibile» si veda G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 186. «[…] dinanzi a lui [al Principe Salina] sotto la luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile».
[75] Cfr. D. Camarrone, Lampaduza, cit., p. 102.
[76] «Due o tre facce forestiere (cioè di Girgenti) insediate nella taverna di zzu Menico […] decantavano le “magnifiche sorti e progressive” di una rinnovata Sicilia unita alla risorta Italia; alcuni contadini stavano muti ad ascoltarli ecc. ecc.»; G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 116.
[77] Cfr. a tal proposito il saggio di S. Brugnolo, ‘Libertà’ di Verga ovvero come il testo rovescia l’ideologia dell’autore, in Lettere aperteOffene Briefe, offene Wissenschaft. Prospettive e polemiche per lo studio della letteratura italiana, 1, 2014, a cura di D. Winkler e F. Vitali: http://www.lettereaperte.net/ausgaben/ausgabe-1-2014/liberta-di-verga-ovvero-come-il-testo-rovescia-lideologia-dellautore
[78] Lampaduza, cit., p. 103.
[79] F. Orlando, L’Intimità e la Storia, cit., p. 123.
[80] D. Camarrone, Lampaduza, pp. 36-37.
[81] Ivi, pp. 32-33; ma si veda per esempio anche p. 44, «Lampaduza avrebbe le risorse naturali per essere diversa da come è stata ridotta». Per il lapsus di Sedara, si veda invece G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., pp. 118.
[82] Cfr. D. Camarrone, Lampaduza, cit., p. 60 e p. 67.
[83] D. Camarrone, Lampaduza, cit., pp. 58-59, il corsivo è mio.
[84] Precisa Gioacchino Lanza che Lampedusa, e come lui anche Visconti «aderivano alla tesi della rivoluzione tradita»; G. Lanza Tomasi, Il Gattopardo di Lampedusa e l’Unità d’Italia, in Segno, 324 (Aprile 2011), pp. 5-15 e p. 13 per la citazione.
[85] Si veda per esempio V. Teti, Maledetto Sud, Torino, Einaudi, 2013, p. 49, passim; ma anche F. Renda, Lampedusa e la storia, in AA. VV., Giuseppe Tomasi di Lampedusa – Cento anni dalla nascita, quaranta dal Gattopardo, Atti del convegno tenutosi a Palermo, 12-14 dicembre, 1996, a cura di F. Orlando, pp. 59-75, e in particolare, pp. 74-75.
[86] Secondo quanto, in un celebre passo della parte quarta, il Principe di Salina professa al suo ospite, il positivistico delegato del nuovo regno, il piemontese Chevalley. Per i due aggettivi «immemoriale» e «irredimibile», cfr. G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, cit., p. 174-86.
[87] F. Orlando, L’intimità e la storia, cit., p. 14.
[88] D. Enia, Appunti per un naufragio, cit., p. 102
[89] «Diceva Sciascia che le coste e le spiagge aperte agli approdi suggeriscono il primo […] elemento della vita e della storia siciliana: l’insicurezza», ivi, p. 140. Poco dopo, pensando alla morte imminente dello zio, l’idea della «morte come approdo concreto» compare alla coscienza dell’autore», ivi, p. 141.
[90] Secondo una possibile etimologia del nome, cfr. ivi, p. 210.