Archivio mensile: aprile 2018

INTERVISTA A PIER VINCENZO MENGALDO DI STEFANO BRUGNOLO

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[la seguente intervista si è tenuta nel dicembre 2006 in occasione dei settant’anni di Pier Vincenzo Mengaldo. È stata pubblicata in quella data nella collana I nuovi Samizdathttp://www.inuovisamizdat.eu/doc/Samizdat43-Mengaldo.pdf]

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Caro Enzo, intanto per cominciare le domande sono tante. Sentiti libero di rispondere e perciò scarta pure quelle che ti stimolano poco. E ad altre rispondi se vuoi prendendo il lato che più ti interessa delle questioni, giocando anche di contropiede.
Bene. Cominciamo dunque, e più o meno dall’inizio: com’è stata la tua infanzia? quanto ha contato nella tua formazione il tuo ambiente familiare? Hai già parlato una volta del rapporto con tuo padre, e io mi sono fatto l’idea che lui fosse un uomo buono oltre che intelligente. Lo so che la bontà è una virtù screditata ma si può dire questo di lui? E poi il resto, naturalmente… Mi pare per esempio che tuo padre avesse interessi musicali e anche d’altro tipo. C’è qualcosa della personalità di tuo padre che hai fatto tuo o che ti sarebbe piaciuto fare tuo?

Sì, mio padre era un uomo di straordinaria bontà, una bontà che era anche cresciuta attraverso un’infanzia e una giovinezza di povero, molto dure (ne rievocava episodi di rado, ma quelle volte ci si stringeva il cuore al pensiero). È una delle rarissime persone a cui credo di poter attribuire quel difficile sostantivo senza riserva alcuna. Ma era anche un uomo intelligente e simpaticissimo, pieno di vita (eppure con una specie di riserva intangibile), giovane fuori e dentro fino ad età avanzata – e spiritoso: conservo ancora una buona parte del suo vasto repertorio di storielle e battute che non poteva fare a meno di ripetere spesso ma che, curiosamente, riuscivano più divertenti le volte successive che la prima; mia figlia da piccola quando, come a me accade più raramente, raccontavo qualche barzelletta o simili, chiedeva regolarmente: “L’ha inventata il nonno?” – ma purtroppo l’ha potuto conoscere pochissimo. Io ho passato in sua compagnia, fino a oltre i miei vent’anni quando ci siamo fisicamente separati, molto molto più tempo di quello che normalmente un figlio passa col padre, e mai per dovere o con sforzo. Mi piaceva molto stare con lui, lo cercavo come lui cercava me, i momenti o i riti comuni nella vita quotidiana erano tanti. Il fatto è che dentro il guscio, per me ma anche per lui così protettivo, del forte amore reciproco si era sviluppato molto presto, già fin da quando ero bambino, qualcosa che non posso chiamare altrimenti che amicizia: è quasi incredibile se si pensa che lui aveva trentotto anni più di me, non una ventina.

La passione per la musica, che non era certo l’unico dei suoi interessi ‘culturali’ (o ancor più forse per la bellezza) ma era certamente il più intenso, me l’ha passata prestissimo, con naturalezza, perché pedagogismo e istinto plagiario erano cose del tutto estranee al suo carattere: era un uomo in tutto e per tutto ‘leggero’, deliziosamente leggero. È naturale che quella passione sia poi diventata a sua volta il più forte fra i nostri legami. È la persona, ancora oggi a vent’anni dalla sua morte, che mi manca di più, di gran lunga – e dunque anche quella, fra gli scomparsi, con cui più convivo quotidianamente. Temo disgraziatamente di non aver ereditato affatto da lui quello che più conterebbe e mi piacerebbe, la leggerezza e la bontà senza condizioni; semmai, mi dicono ma lo vedo io stesso, e questi fin quasi all’identità, certi tratti fisici che ovviamente solo fisici non sono, del tipo della camminata o della voce. Ma l’insieme del mio carattere è molto diverso dal suo, ahimè.

La mia prima infanzia dev’essere stata felice: io non ricordo nulla, ma in famiglia era una specie di luogo comune quanto ero stato estroverso, allegro e vivace. Poi le cose sono un po’ cambiate, come indicano anche certi incidenti scolastici di percorso; soprattutto questo: all’esame di quinta elementare sono stato mandato a ottobre in italiano, meritatamente, avevo difficoltà a esprimermi. C’era poi il rapporto con mio fratello maggiore (di sei anni), piuttosto tormentoso: perché da un lato mi coinvolgeva fin troppo nella sua vita, il che per me era motivo d’orgoglio, ma al punto di raccontarmi regolarmente anche ciò che non avrebbe dovuto della sua impetuosa e precoce giovinezza, dall’altro mi schiavizzava, anche pesantemente. Eravamo dunque molto attaccati (e lo siamo rimasti), ma… E certo hanno contato molto le vicende del mondo, cioè la guerra, soprattutto i due anni in cui siamo stati sfollati sulle colline sopra Modena: per un piccolo cittadino esperienza eccezionale di libertà, di vita nella natura e di contatto con un ambiente contadino interessantissimo (non dolce però…); ma insieme abbiamo visto molto da vicino tanti aspetti non gradevoli di quei tempi. Se posso procedere un po’, allora devo dire che la mia adolescenza non è stata per nulla felice, prima di tutto perché ero piccolissimo di statura e sono cresciuto (si fa per dire) non prima dei quattordici-quindici anni. Risultato: quando giocavo a calcio coi miei coetanei, che mi chiamavano “pinoceto”, bastava che uno alzasse regolarmente un piede per colpirmi alla testa; peggio ancora, le mie coetanee erano donne fatte, mi sopravanzavano di una ventina di centimetri (abitavamo a Carrara, e le carrarine sono ben note per la loro precocità, oltre che per la loro bellezza fuori del comune). Fortunatamente c’era pur sempre mio padre a proteggermi e compensarmi.

M’interessa un’altra cosa: tu sei naturalmente afflitto dalla passione per la lettura, questo vizio impunito! diceva Valéry Larbaud. Puoi dirci quando hai cominciato e cosa leggevi tra i sei e i quattordici anni? Mi piacerebbe sapere se hai fatto letture ‘da ragazzo’: Salgari per esempio, oppure il “Corriere dei piccoli”. E inoltre: spesso questa passione per la lettura è il primo segno di una distinzione dolce e amara, quella dai propri compagni di gioco e scorribande. Si è consumata presto questa separazione, se si è consumata, o sei riuscito a tenere insieme a lungo queste due dimensioni? Insomma quand’è che ti sei scoperto ‘diverso’ dagli altri ragazzi, quand’è che ti sei scoperto ‘intellettuale’?

Piano, Donatella sostiene e non senza ragioni che io non sono un grande lettore ‘naturale’; o forse non lo sono più, perché la vecchiaia ha accentuato uno dei miei peccati capitali, l’ossimoro di pigrizia e impazienza. Ma è anche vero che bisogna difendersi, in particolare dall’afflusso di poetae novi, per cui ho elaborato l’idea che basta leggere, e anche abbastanza di volo, due o tre testi per vedere se vale la pena di continuare, dato che la poesia è quella cosa che o c’è o non c’è. È un alibi o per caso ho un po’ di ragione? Per la narrativa è diverso (per quanto, per quanto…), onde ne leggo sempre meno, soprattutto di italiana: l’offerta del mercato è terrificante. Ma via, confessiamolo, tendo sempre più a scorrere, non a leggere. Il mio antimodello, da me invidiatissimo, è il poeta e grandissimo critico Sergio Solmi: il quale, dopo una faticosa giornata come legale della Banca Commerciale di Mattioli, dopo cena si stendeva sul divano e leggeva quel che aveva da leggere dalla prima all’ultima riga; come diavolo abbia fatto non so, anche perché lui ha veramente letto tutti i libri.

Da bambino e adolescente credo di aver fatto le letture rituali, da Salgari (mi colpì soprattutto I misteri della Jungla nera, che ovviamente pronunciavo “iungla”) al “Corriere dei piccoli” a Dumas di cui altrettanto ovviamente non sospettavo la grandezza: il Conte di Montecristo l’ho addirittura letto, allora, in edizione ridotta, e quando l’ho ripreso integralmente e in francese da adulto ho ben visto che è uno dei romanzi di prim’ordine dell’Ottocento. Ricordo un po’ vagamente che il “Corriere dei piccoli” ci offriva all’infinito una storia di cui era protagonista un tale Gordon con la sua donna (Dale?), fragile epigona della fanciulla perseguitata sette-ottocentesca, il quale si trovava a lottare negli spazi interminati con un bieco popolo astrale di gialli (n.b.) guidati da un diabolico re e dalla di lui figlia, tipica femme fatale malvagia e crudele. Va quasi da sé che era costei che mi affascinava e sognavo di notte, non la povera perseguitata – e ho conservato un debole estetico per le donne di tipo orientale, tant’è che l’attrice che sempre mi è sembrata più bella è (la ricordi?) Gene Tierney, quella di Laura di Preminger, mezza orientale infatti oltre che di eleganza e comunque bellezza straordinaria.

Ho cominciato le letture ‘serie’ più o meno all’età normale, ma senza per questo sentirmi ‘diverso’, perché per il resto facevo esattamente le stesse cose degli altri (calcio da campo e da tavolo, cinema, ronzamenti sfortunati intorno alle ragazzine…). E ho avuto la stessa fortuna di tutti i giovani lettori di allora, la benedetta BUR – formato tascabile, copertina grigia, prezzo iniziale 50 lire – senza la quale avrei potuto leggere e acquistare molto molto di meno. Fra i libri della BUR ricordo bene di aver divorato soprattutto Shakespeare e Čechov (ricorderai che quella collana ne pubblicò in 12 volumetti tutti i racconti). E sono rimasti due fra i miei riferimenti assoluti. Il secondo in particolare continua a ispirarmi sentimenti di autentica fraternità, uniti a un’ammirazione mai venuta meno per il valore morale della sua sobrietà e mancanza di ideologismi; è sempre lo scrittore a cui ricorro di più. Saprai che Billy Wilder teneva appeso nel suo studio un cartello con su scritto: “Come l’avrebbe girata Lubitsch?”. Io l’ho bassamente plagiato scrivendo in un biglietto alle spalle della mia scrivania: “Come l’avrebbe scritto Čechov?”: e constato che a questo crivello ben pochi si salvano.

Ho sempre pensato come sarebbe interessante per i sociologi della letteratura (se non si occupassero generalmente di quisquilie) indagare le differenze nelle letture fra le generazioni. Io per esempio posso dire – e rendo omaggio anche alla “Biblioteca moderna Mondadori” e alla “Sansoniana straniera” – che ho letto da giovane e giovanissimo molto più romanticismo europeo delle generazioni dopo la mia: molto Vigny molto Musset e anche Lamartine, Shelley e Keats per tempo e così Puškin e Lermontov ecc. ecc. Non mi è stato poi inutile averli letti già allora. E c’erano naturalmente quei contemporanei che costituivano un passaggio quasi obbligatorio e oggi si leggono molto meno o per niente. Faccio un solo caso, l’inevitabile Gide: la Sinfonia pastorale mi colpì molto da ragazzo, a una rilettura successiva senz’altro meno: “Avrei voluto piangere, ma il mio cuore era più arido di un deserto”; insomma…

Ho anche una grande riconoscenza per le riviste teatrali di allora “Sipario” e “Dramma”: durante un paio di vacanze estive presso un amico di famiglia, un medico coltissimo che ne possedeva l’intera collezione o quasi, alla sera le leggevo sistematicamente, e con tanto più profitto per questo: non ricordo se solo la prima o entrambe non contenevano solo scritti critici sul teatro, recensioni ecc., ma, numero per numero, intere pièces, soprattutto dell’Otto-Novecento. È stato un bello e intenso allenamento al teatro.

 

Veniamo agli anni del liceo che mi pare trascorresti a Treviso. Anche per quegli anni ti chiedo se hai incontrato dei ‘maestri’: il professor Luccini mi pare… Ce ne parli un poco? Ti chiedo inoltre cosa voleva dire passare degli anni così fondamentali nella formazione di una persona in una piccola città di provincia come appunto era Treviso. Si respirava un clima chiuso? ne hai sofferto? Noi di Treviso abbiamo soprattutto in mente le immagini del film Signore e signori. Era qualcosa del genere?

Mi collego alla domanda precedente: vorrei sapere se in quegli anni e soprattutto in provincia si respirava l’aria della guerra fredda, e cioè in particolare se tirava forte l’aria dell’anticomunismo. Naturalmente te lo chiedo anche per sapere come ti collocavi tu, se hai mai avuto ‘paura’ dei comunisti. Che per esempio Luccini fosse comunista ti impressionò mai? Fu lui a ‘tirarti’ a sinistra? Data da quegli anni l’inizio della tua educazione politica o era cominciata già prima?

Risponderei insieme a questa domanda e alla precedente.

L’unico vero maestro degli anni di Treviso, cioè del Liceo, è stato appunto Luccini. Che poi ho continuato a vedere e del quale sono stato collega per un anno al Classico di Padova: ma a quel punto non era più lo stesso, sfinito, più ancora che dalla protratta ostilità dell’ambiente ‘bene’ e cattolico di Treviso, dalle gravi difficoltà incontrate dentro il suo partito, il comunista, di cui era officiante per nulla ortodosso almeno dal punto di vista culturale ma for ever: “semel abbas, semper abbas”. Tutto questo a Padova si sa ancora bene, e gli amici, io compreso, ne hanno testimoniato. Il professore era niente meno che perfetto, teneva alto il livello delle lezioni ma non puniva col voto nessuno, e aveva un fascino intellettuale accresciuto dalla dolcezza del carattere, dalla capacità di ascoltare e da un uso mai impositivo ma morbido dell’argomentazione razionale.

Non mi si parli di Treviso: era una città gretta, cattolica alla veneta, chiusa e persecutoria, il tutto appena reso più sopportabile dagli aspetti migliori della veneticità. Se è diventata quella di ora ci sarà pure qualche ragione. Io ne ho un ricordo assolutamente pessimo, e ne ho sofferto anche prima di diventare ‘comunista’, anzi quando ancora, ovviamente, temevo come tutti il comunismo. Altro che anticomunismo, altro che guerra fredda! Ti facevano sentire una specie di appestato o minorato, e se a te la passavano perché eri giovane e stavi facendo la tua scarlattina (del resto Croce la metteva esattamente così), a un uomo dell’età e del ruolo di Luccini non la perdonavano. Visto che lo nomino, lo stesso Croce, che morì allora – donde mattina di festa a scuola con grande nostra gioia –, era considerato un grande ma pericoloso eversore, in quanto non-cattolico. Nel mio ricordo la Treviso anni cinquanta non assomiglia a quella del film di Germi (che dapprima, se non sbaglio, voleva ambientarlo a Vicenza), assomiglia a quel che ho detto. In positivo: Treviso ti squadernava un’offerta di musica e teatro oggi inconcepibili per una città così piccola e senza paragone anche con città odierne più grandi (a cominciare da Padova).

Chi mi abbia tirato verso il comunismo, e dunque verso gli interessi politici, non lo rammento: saranno stati come succede spifferi di altri giovani, ma escludo assolutamente che si sia trattato, in forma intenzionale, di Luccini. Si guardava bene dal fare propaganda politica anche fuori della scuola, figuriamoci in aula. Ci faceva invece leggere classici come le Provinciali di Pascal o l’Aesthetica in nuce di Croce, guarda un po’. Sarà forse da allora che ho preso in simpatia le religioni che non cercano di convertire il prossimo, come l’ebraismo, e in antipatia quelle che lo vogliono sempre convertire, magari a forza, come il cattolicesimo di sempre e oggi l’islamismo radicale. Se non ricordo bene il perché del mio salto (prima ero un cattolico, anche con tratti fervidi), ricordo qualcosa di più del quando e del come: all’inizio della seconda liceo – per me, sedici anni e forse neppure – e di colpo, come si dice avvengano le conversioni; guardati se hai voglia la bellissima poesia che chiude Myricae di Pascoli, Ultimo sogno: “Ero guarito ecc.”.

Poi viene Venezia, se non sbaglio, dove abitavi al tempo dell’Università, che però frequentavi a Padova. Venezia già allora era diversa dal resto del Veneto, no? Era più aperta e laica, suppongo. Mi pare che con un gruppo di amici avevate fondato un cineforum o qualcosa del genere. Puoi parlarcene un poco? E visto che ci siamo, puoi dirci quanto ha contato per te nel tempo l’amicizia, intesa proprio come scambio di idee, conoscenze, esperienze? L’hai coltivata da giovane più che da adulto? È stata una dimensione importante della tua vita?

Venezia era ben altra cosa rispetto a Treviso. Se mi credi (ma devi fare uno sforzo potente), allora era una vera città, con la sua bellezza e unicità per soprammercato. Ed era a maggioranza laica di sinistra. Ci si stava benissimo.

Il “Circolo del cinema (o Cineclub) Pasinetti” (perché “Cineforum” si chiamavano quelli cattolici, “Cineclub” i laici) non l’ha fondato il mio gruppo di amici, esisteva già ed era uno dei più importanti d’Italia. Noi l’abbiamo preso in mano, ma io facevo ben poco a dir la verità. Una sola cosa ho fatto. A un certo punto, per ragioni che disapprovo ancora, la mia famiglia si trasferì nell’orrida Mestre, e siccome il Pasinetti ogni domenica mattina ‘trasferiva’ lì uno dei suoi film per un pubblico prevalentemente di operai e tecnici di Marghera (politica culturale di sinistra!), io venni incaricato dagli amici di presentare ogni volta quei film. È stato senza dubbio il mio inizio come ‘critico’, e non era sempre facile: voglio dire che non era facile spiegare come e perché, faccio un esempio, Femmine folli di Stroheim era utile alla classe operaia. Ma soprattutto ne è nato un bel rapporto con alcuni di quei tecnici e operai, dei quali sono diventato anche molto amico: nella casa di uno di loro, uomo delizioso con una moglie intelligente e due adorabili bambini piccoli, posteggiavo una sera sì e una no. È stato un periodo bello e importante per me, e proprio perché quelle amicizie potevano essere colorite politicamente ma non passavano attraverso la politica. Purtroppo breve, perché presto mi sono laureato e trasferito a Padova.

Il “Pasinetti” è stato un’autentica manna. Non hai idea di quanti e quali film vi si potevano vedere, e non una volta soltanto perché li proiettavamo per varie sere di seguito. Dunque non solo Ejzenštejn, ma l’intera o quasi produzione di Pudovkin (che quasi gli preferivo) e vari altri russi, non solo i soliti francesi e neorealisti, ma molto espressionismo e realismo tedesco e per esempio ottime opere polacche o ceche, poi non più riviste o riviste per un colpo di fortuna: tra i polacchi, film di Munk (l’autore della grande Passeggera), o di Kawalerowicz, entrambi probabilmente superiori a Wajda. Non pochi film conosciuti lì allora non li ho più ritrovati, e mi piacerebbe, per fare un caso, rimettere le mani sull’Ammiraglio Nakimov di Pudovkin per riprovare la stessa emozione alla scena in cui il protagonista guarda dalla finestra la sua flotta che si autoaffonda nel porto nebbioso. Semmai si può dire che le scelte dei film erano un po’ ideologiche (tra l’altro molto ci rifornivamo dall’associazione Italia-URSS), per cui registi ‘borghesi’ che adoro, come Lubitsch e Ophüls, li ho scoperti più tardi.

È stato a Venezia, piuttosto che a Treviso (o a Padova) che ho contratto le prime amicizie fondamentali, quelle per cui tutta la vita ci si intende a cenni, si ride immediatamente delle stesse cose, si elabora un lessico familiare ricco di significati e sfumature: una soprattutto, che mi resta. Ma fortunatamente ne ho continuato a contrarre anche in età più matura, e fino alla tarda: fortunatamente, ma forse dovrei dire, adesso, purtroppo, perché quei miei cari sono quasi tutti scomparsi, e alcuni presto, prestissimo: Sergio Romagnoli, Giancarlo Mazzacurati, Sereni, Fortini, Baldacci, da ultimo Giuliano Baioni. Siccome, come avrai capito, l’amicizia ha avuto un posto grandissimo nella mia vita, altrettanto grande è ora la mia solitudine, lenita ma non guarita da affetti familiari e relazioni affettuose con gli allievi, altre cose tutt’e due. Penso di poter dire che sono un uomo dell’amicizia, e credo anche socievole; però non sociale: in fin dei conti mi si attaglia il detto spiritosissimo di Lichtenberg: “Le è piaciuto stare con noi? Risposta: moltissimo, quasi quanto se fossi rimasto in camera mia”.

Paul Nizan ha scritto quella famosa frase che certo ricorderai: “Avevo vent’anni. Non permetterò più a nessuno di dire che è l’età più bella della vita”. Sottoscriveresti questa frase? E, in generale, come è stata la tua gioventù?

Da parte sua Montale ha definito la gioventù “l’età più stupida della vita”. Non so se e quanto potrei sottoscrivere né questa definizione (che mi puzza troppo di falsa saggezza per non dire cinismo senili) né quella di Nizan. Ci sono troppe variabili  individuali. Io stesso a quell’epoca ho avuto un motivo molto potente (di cuore, ovvio) per essere, e a lungo, turbato e infelice: ma posso dire che ero sempre e comunque infelice? La dichiarazione di Nizan mi sembra giusta almeno nel senso che a quell’età si è molto, molto esposti, e si può essere così facilmente feriti, addirittura umiliati che è ancora peggio. Non abbiamo ancora indossato, nel male e nel bene, la corazza, non abbiamo ancora assunto la capacità che distingue l’adulto (e che lo rende così spesso, agli occhi del giovane, detestabile) di non mettersi mai interamente in questione. Forse si può dire che il giovane è colui che tende a far tutto come quando si è innamorati. Ma questi e altri che si potrebbero intavolare sono discorsi che al massimo valgono statisticamente, o sono appena variazioni personali sulla questione. Parecchi miei coetanei avevano già la corazza, in genere perché la vita gli aveva rifilato più botte in testa che a me.

Senti, prima di passare agli anni universitari, una domanda un po’ stramba: cosa pensi dei veneti? Tu non sei veneto, eppure hai passato molto tempo in questa regione, tra questa gente. Ecco, dicci qualcosa sul carattere dei veneti…

Non voglio essere razzista, e quindi dirò che non ho nulla contro i veneti (mio padre era veneto), molto contro la venetudine come la chiamava plasticamente Luccini, e che non sto a definire (lui la riteneva compendiata dall’intercalare combater). Due circostanze credo che contino oggettivamente. Che la suddetta venetudine dapprima si è vittoriosamente coniugata al blando ma non per questo meno opprimente regime democristiano: oggi è di moda rivalutare i democristiani, ma io non posso proprio, e ricorderai bene anche tu che a Padova la DC poteva avere la maggioranza assoluta. E poi, cioè ora, che si è coniugata alla Lega e a FI, che sono più o meno la stessa cosa (non della DC, fra loro, tieni conto della rettifica). Dal punto di vista soggettivo è stato sicuramente determinante il fatto che io ho avuto sì un padre e molti parenti veneti, ma ho vissuto i primi e decisivi anni della mia vita in Emilia, dalla quale probabilmente mi è venuto un ethos – nel senso diminutivo e scherzoso di Meneghello nei Piccoli maestri, naturalmente: “Che ethos g’avì vialtri?” – non molto compatibile con quello dei veneti tipici. Lascia che non mi avventuri in analisi generalizzanti, che mal tradurrebbero un sentimento e sconfinerebbero, lo ripeto, nel razzismo. Se dovessi dire una sola cosa, è che nei veneti tipici mi ha sempre colpito che se gli dài (metafora) un pugno nello stomaco ti rimbalza indietro; sono qualcosa di meno, o di più?, che grandi incassatori (mollezza? piccola astuzia? scetticismo cattolico? una forma di ipocrisia? Che altro? Combater?).

Dunque l’università. Com’era l’università prima del ’68? Dobbiamo rimpiangerla un poco? E i cosiddetti baroni erano solo dei prepotenti o potevano anche essere dei maestri veri? Raccontaci di alcuni di loro…

Rimpiangere non si dovrebbe. Ci sono all’Università, oggi, problemi completamente nuovi che andrebbero affrontati per quel che sono, senza tanti rimpianti. Per conto mio tra l’altro la Facoltà di massa non è un regresso rispetto a quella d’élite, anzi, solo che a questo incremento e in parte mutamento di carattere non sappiamo far fronte che con la demagogia, la svendita del sapere e la soggezione al mercato. Più ragionevolmente si può semmai rimpiangere il tempo in cui i Consigli di Facoltà, numericamente limitati, potevano perfino decidere qualcosa; oggi ci si limita a prendere atto di quel che è stato deciso in altra sede e si alza la mano per approvare, però francamente non si vede come si possa, coi numeri attuali, non delegare non solo l’esplorazione ma anche la decisione ad organismi snelli.

Ma davvero: chi può sostenere che i ‘baroni’ di un tempo erano tutti e solo baroni (come se la maggior parte di quelli di oggi non lo fosse!), e sospettare che latitassero i maestri veri? Folena a parte, nella mia Facoltà padovana insegnavano degli autentici pezzi da novanta: il grecista e filosofo Diano, lo storico dell’arte Bettini, a modo suo Diego Valeri, che faceva lezione improvvisando e conversando fascinosamente, ci sono passati un po’ più tardi Cases, Lamma e Berengo, assistenti di letteratura latina erano nientemeno che Alfonso Traina e Marino Barchiesi, cioè già allora due dei massimi latinisti d’Italia (e Traina oggi è il principe della disciplina), c’era ancora lo storico Sambin che era certo un ottimo studioso, ma era per prima cosa un didatta e un esaminatore straordinario (è con lui che ho fatto l’esame più bello e umano della mia università); e così via. Prendo un istituto, quello di Storia dell’arte. Dunque, Bettini, che all’esame su un corso intorno al romanico italiano mi chiese S. Miniato al Monte, e alla fine delle mie chiacchiere da ragazzotto mi domandò se non mi pareva che l’esterno fosse in fondo come… Mondrian, lasciandomi a bocca aperta. Ma ci sono stati altri due storici dell’arte di primissima fila, Fiocco, di cui sentii da matricola qualche lezione con enorme spasso (era un’eruditissima macchietta, che diceva “musaici” e “Squarzone” e trovava ogni pretesto per polemizzare con Longhi), e Pallucchini, di cui studiai per l’esame delle eccellenti dispense sulla pittura veneta del ’400; anche Don Zovatto, incaricato di Archeologia cristiana, era a postissimo, a prescindere dal soprannome che gli aveva affibbiato il suo maestro Fiocco per la tonaca sempre piuttosto maculata (“l’onto del Signore”).

Diciamo che il confronto è sconfortante per l’oggi, e che perciò bisognerebbe, invece che ripetere la solita lagna sulla decadenza degli studenti, incominciare dalla verità su quella dei professori, proliferati tramite insensate forme di concorso che hanno messo al quadrato le magagne baronali di una volta, altro che. Ma non voglio neppure far credere che fosse tutto oro. Il mio incontro con la Storia della musica, nella persona di due diversi professori, è stato disastroso, e devo dire che anche molto più di recente si è visto che sono pochi i colleghi che capiscono l’importanza della disciplina. E quello che assolutamente non andava ai miei tempi era la filosofia, in mano ai cattolici se non catto-fascisti, con una bella eccezione però, il cattolico “personalista” (Mounier ecc.) Luigi Stefanini, aperto verso tutto e in particolare verso l’esistenzialismo, e che era l’unico con Valeri a farci tenere seminari, ad esempio su Hegel (però curiosamente pretendeva che riferissimo sulla Fenomenologia da una settimana all’altra; si vede che per lui era facile): bravissimo professore sia di Storia della filosofia che di Estetica. Allora come oggi poi c’erano i maestri vicini (agli studenti) e quelli distanti, che a lezione parlavano come dall’Empireo e seguivano poco o nulla le tesi. Ma questo penso sia piuttosto fisiologico.

E tu come te la cavavi? Qual era il tuo sistema di studio? Frequentavi assiduamente le lezioni o preferivi studiare per conto tuo? Complessivamente, consideri che la tua formazione sia quella di un autodidatta o che essa rientri in uno schema, in una ratio tipica dell’epoca, e cioè nello schema della formazione umanistica…?

Io ho frequentato diligentemente da matricola, guardandomi anche in giro e cioè appurando cosa non valeva la pena di frequentare. Non che fossi particolarmente esigente, non mi pare.

Il fatto è comunque che dopo il primo anno ho deciso di starmene a Venezia, a casa, a studiare e a leggere per conto mio, facendo solo qualche capatina all’Università ogni tanto e sostenendo gli esami da non frequentante. Così ho potuto leggere di più che se mi fossi impelagato nel meccanismo universitario. Quanto alla Bildung mia nel suo complesso, direi fifty-fifty: un po’ schema universitario-umanistico un po’ altro. Non so in cosa rientri, per fare un esempio, la lettura della Montagna incantata in non più di una settimana, a dieci ore al giorno, sprofondato nella poltrona del salotto, neanche fosse un giallo: è per questo che, contro l’opinione dei più che la trovano difficile, pesante ecc., io penso tuttora che si possa e si debba leggere d’un fiato. Probabilmente ero innamorato di Clavdia Chauchat. Andavo anche molto al cinema, voglio dire nei cinema ‘normali’, Pasinetti a parte. Era anche per colpa di due simpatici amici che mi ricattavano, è la parola, in quel senso: arrivavano sotto casa mia all’ora canonica, e spesso io, che avrei preferito in prima istanza far altro, gli tiravo anche addosso una secchiata d’acqua – ma poi regolarmente cedevo (la mia volontà non è mai stata ferrea); uno dei due, che era un raffinato umanista, giustificava sé e noi sostenendo che si doveva vedere il visibile per ragioni… sociologiche (veramente lui diceva più elegantemente che bisognava andare al cinema senza porsi tanti problemi di qualità per istruirsi nella “storia del  costume”). E tieni conto che a Venezia allora c’era moltissima musica, e spesso di qualità somma. Ti basti solo sapere che il direttore stabile dell’Orchestra della Fenice era Sergiu Celibidache, purtroppo sempre criticato a sproposito dal critico musicale del “Gazzettino” (allora unico quotidiano della regione) che era un mezzo bischero.

E adesso veniamo a Folena. Com’era Folena? Io l’ho conosciuto dopo, e naturalmente mi ha fatto una grande impressione. Tuttavia, devo dirti che mi sconcertava la libertà con cui parlava in pubblico. Qualche volta perdevo un poco il filo… Insomma raccontaci com’era Folena in quegli anni e che cosa fondamentalmente hai imparato nei tuoi anni di apprendistato con lui?

Forse solo i suoi allievi, e specialmente i primi come me, sanno quanto Folena fosse un grande maestro, anche se, come è stato detto giustamente di lui, al pari di Wieland secondo Goethe spargeva intorno a sé filologia, e dunque tanti potevano goderne. Era unico nei seminari e nella direzione delle tesi (quel poco che so fare in questo campo l’ho imparato in toto da lui); un po’ meno a lezione o in interventi pubblici non stesi per iscritto, per difficoltà psicologiche e di parola. Il fatto è anche – non me ne sono accorto subito – che era un uomo abitato da profonde insicurezze. Dico sempre che da lui si poteva imparare assolutamente tutto quello che serviva per il ‘mestiere’, e naturalmente molto di più. Era una persona originalissima, affascinante, imponente non solo nella stazza (se vuoi, con qualche aspetto ‘invasivo’, ma compensato da grandi finezze d’animo). Io fin da subito l’ho semplicemente adorato e gli devo moltissimo: prima di tutto, non so quanti sapessero come lui insegnare a insegnare. Credo che nei miei primi lavori si veda bene la discendenza, o anzi dipendenza, da lui, poi meno come è normale e giusto che sia, però, come dire, abbiamo sempre conservato la stessa sfera di interessi e di passioni. E poi, come sai bene, Folena ha creato una sua ‘scuola’ di ammirevole ampiezza e qualità, nella quale ci si ritrovava e lo si ritrovava sempre.

Francesco Orlando ha potuto parlare diffusamente delle incomprensioni tra lui e il suo maestro Lampedusa solo a molta distanza dalla sua morte, tentando di spiegarsi perché s’erano allontanati l’uno dall’altro. Forse per te non è passato abbastanza tempo, ma insomma credi di capire meglio ora perché anche tra te e Folena verso la fine vi furono incomprensioni?

Per molti anni il mio rapporto umano con Folena è stato magnifico, anche perché quasi sempre arricchito da una terza, deliziosa presenza, quella dell’altro suo assistente Alberto Limentani (scomparso poi a soli cinquantun’anni). In seguito il rapporto si è complicato, e purtroppo molto prima che “verso la fine”, col rischio addirittura di andare a male, pur senza mai compromettersi del tutto, per fortuna. È stato un tracciato ondulatorio, con brutti avvallamenti di distanze, incomprensioni e anche scontri. Credo che entrambi ne abbiamo sofferto quanto basta, perché lui per me rimaneva nel profondo quello che sempre era stato, e io, lo so bene e posso dirlo senza alcuna iattanza, ero rimasto l’allievo che lui prediligeva. Entro e al di là del solito schema maestro-allievo, credo di intravvedere alcune ragioni di queste difficoltà, ma credo pure che non sia per nulla giusto versarle all’esterno, se non altro perché lui non ha più la possibilità di dir la sua e controdedurre, beccandomi in colpa. O forse, fra tanti anni…

Negli anni universitari spesso facciamo letture che ci ‘cambiano la vita’ e cioè che cambiano il nostro modo di vedere e pensare il mondo? Puoi citarmene qualcuna…

Curiosamente per la filosofia non ricordo con esattezza, se non che dobbiamo andare a prima degli anni universitari. Si sarà trattato comunque di classici del marxismo (Manifesto? Manoscritti del ’48?). Ricordo invece bene come un’opera di narrativa mi ha cambiato la vita, o meglio il modo di guardare la vita, sui diciotto-diciannove anni, con una forza rinnovata ad ogni rilettura: Guerra e pace. Non vorrei mancare di rispetto a quel romanzo gigantesco, ma ho l’impressione che una (non la sola!) ragione dell’effetto che può fare sta in questo, che ti rappresenta gli esseri umani precisamente come sono e, nello stesso tempo, come dovrebbero essere (il grandissimo Dostoevskij, per intenderci, usa invece spesso la lente d’ingrandimento, e ti crea personaggi un po’ troppo ‘come dovrebbero essere’, nel bene e nel male). Una delle maggiori soddisfazioni intellettuali della mia vita l’ho avuta quando un mio caro allievo, che stava leggendo quel romanzo a più di trent’anni, mi disse che gli stava “cambiando la vita”, esattamente queste parole.

Sempre in quegli anni tra l’altro c’è stata la rivolta a Budapest, che tu dici che fu per te decisiva. Puoi dirci intanto come procedeva la tua educazione politica e come reagisti tu a quei fatti? Puoi dirci anche come sono stati in quegli anni e dopo i tuoi rapporti con quella strana e notevole razza che furono i comunisti italiani…

Fu decisiva anche in sé, perché se quei ‘controrivoluzionari’ fossero stati lasciati in pace mi avrebbero forse mostrato, come Praga 1968, ancora delle possibilità del comunismo reale, non solo la sua sepoltura; ma lo fu soprattutto, come ovvio, per l’atteggiamento dell’URSS e per quello, cieco, delle dirigenze comuniste italiane (e mondiali). Così risultò chiaro a molti di noi che la strada giusta era probabilmente quella di chi, allora o subito dopo, uscì dal Partito. Perché io e altri amici, che a Venezia venivamo chiamati “i battitori liberi” del PCI – e questo dice tutto –, a quell’epoca eravamo proprio sul punto di iscriverci…

I comunisti di allora erano veramente una razza notevole, ancora degni eredi dei grandi comunisti ‘storici’. Gli operai anzitutto, che come spiegavo prima ho anche un po’ frequentato, mentre negli intellettuali ‘borghesi’ poteva esserci un che di volontaristico se non proprio di stonato (uno come Luigi Nono poteva perfino muovermi al riso quando andava in testa ai cortei con aria compresa e magistrale). E io per primo, il fiancheggiatore, dovevo essere stonato. Non per nulla, ma sbaglierò, chi ho continuato a trovare più ‘autentici’ sono stati sempre i sindacalisti, anche se certo non ci sono stati più giganti come Di Vittorio. Sì, ero un po’ ‘operaista’. Almeno per i fiancheggiatori era comunque molto difficile accettare la morale insita nel detto attribuito a Lukács: “Right or wrong, my Party”, versione di un altrettanto spiacevole detto inglese (ma se non ricordo male Gramsci diceva che la verità è sempre rivoluzionaria). Sicché quando più tardi c’è stata la crisi e poi l’espulsione di quelli del “Manifesto” molti di noi hanno avuto la conferma definitiva che non si poteva operare dentro il Partito, ma insieme hanno tirato un respiro di sollievo: allora è possibile riferirsi a un gruppo compatto e non più a transfughi individuali (uno dei riferimenti diretti del sottoscritto era Cases); preciserò solo che per me più del “Manifesto” hanno contato i “Quaderni piacentini”, anche se proprio sul piano dei giudizi culturali era frequente per mio conto essere in totale disaccordo, ad esempio con le stroncature di Bergman perpetrate da Fofi (e condivise ciecamente da molta sinistra ‘estrema’). Mi viene in mente una magnifica battuta di Folena: a un amico comune che criticava il regista svedese perché a suo dire quei problemi appartenevano a un mondo che veniva tutto prima dell’oggi urgente e dell’auspicabile fine del mondo borghese, Folena replicò che quei problemi venivano anche dopo. Eh già.

Subito dopo la laurea insegnasti al Liceo Tito Livio di Padova. Come fu quell’esperienza? In generale vorrei che tu ci dicessi qualcosa sul lavoro dei professori di materie umanistiche nelle scuole superiori; pensi che possano esercitare un ruolo importante nella formazione dei giovani? Non mi sto riferendo solo a quegli studenti che poi si specializzeranno in quelle materie, ma anche a coloro che prenderanno altre strade.
Insomma, pensi che la filosofia, la letteratura, l’arte possano e debbano svolgere un ruolo nella formazione… di un ingegnere, di medico, di un avvocato? Se penso a certi medici e avvocati colti d’un tempo mi dico che questo è stato vero ma che forse non è più vero oggi…

Almeno dal punto di vista professionale gli anni di insegnamento alle Medie superiori sono stati i migliori della mia vita. Ancor più forse nella prima esperienza, italiano e storia in un Tecnico parificato, che nei tre successivi, italiano e latino al Classico e poi allo Scientifico di Padova: perché c’era la storia! E anche perché quel preside mi lasciava fare, a differenza di presidi e colleghi filistei degli anni successivi. È stato importante, credo, essere poco più anziano dei miei scolari, sia pure col rischio di avere un po’ meno di ‘autorità’ (che ci vuole). Tu capisci bene che il tipo di rapporto che si può istituire coi ragazzi delle Medie superiori è di natura diversa da quello con i giovani universitari. E non tanto perché di alcuni di quei ragazzi sono diventato, dopo, amico o fratello maggiore – questo spero sia avvenuto anche in seguito. Quanto perché nel momento che ci arrivano i giovani all’Università i giochi in un certo senso sono fatti, e non si può agire su di loro, in sostanza, se non culturalmente, anche per il fatto che qui ormai il tuo insegnamento è parcellare, specialistico.

Quando invece hai davanti diciassettenni, diciottenni, diciannovenni con cui sei a tu per tu per un anno intero e per molte ore la settimana, insegnando in pratica a tutto campo, allora hai veramente la sensazione di poter incidere piuttosto a fondo su di loro, addirittura di poter cambiargli un poco la testa se non la vita. Può darsi che qualche mio allievo universitario non condivida questa diagnosi; non posso negare che ne sarei contento. Ed è pacifico che se si riesce a incidere, non lo si fa per nulla solo su quelli che poi faranno “Lettere” o comunque Facoltà umanistiche, direi quasi il contrario. Se oggi avviene di meno immagino che sarà colpa dei professori più che delle astratte condizioni della scuola oggi. E nota che io non sono stato affatto un professore ‘rivoluzionario’. Non nascondevo i miei punti di vista ideologici, ma ero un professore piuttosto tradizionale, che svolgeva diligentemente i programmi senza concedersi troppi voli. Forse avrei dovuto concedermene di più – come quando mi venne in mente di spiegare una delle differenze fondamentali tra protestantesimo e cattolicesimo (libero esame ecc.) raccontando e commentando Casa di bambola di Ibsen.

Però quante vite di ragazzi ai quali ho insegnato si sono, dopo, perse. Tra suicidi, affogamenti nell’alcol e nelle derive politiche, o viceversa in un’attività professionale lucrativa ben inserita nella società ‘che conta’. Dove ho sbagliato?

Sempre sulla scuola ma facendo un balzo in avanti. Cosa pensi delle antologie scolastiche così come si sono venute configurando negli ultimi trent’anni, e cioè da quando sono divenuti ‘oggetti pesanti’, pieni di note e apparati. Quanto pesante o leggera dovrebbe essere per te un’antologia scolastica? Secondo quali criteri dovrebbe essere concepita? E ancora: quanto un professore di italiano in classe dovrebbe parlare intorno al testo e quanto dovrebbe lasciar parlare il testo? Lo dico anche tenendo conto che la lingua letteraria italiana fino a buona parte dell’Ottocento appariva e appare ostica allo studente e perciò bisognosa di chiose e commenti che spesso però rendono la lettura una gara ad ostacoli…

Senza entrare troppo nei dettagli, direi che dovrebbero avere – e in genere non hanno – almeno queste tre caratteristiche. A) Essere appunto leggere e non pesanti, non “piene di note e di apparati”: anche per rispetto, prima che degli studenti, dei professori che hanno il diritto, e il dovere, di lavorare di loro senza avere tutta la pappa scodellata. B) Accogliere solo grandi autori, non si deve perdere e far perdere tempo con i medi e piccoli. Se poi mi si chiede chi stabilisce quali sono i grandi, non posso che rispondere press’a poco come disse una volta Cases: lo stabilisco io, e non facciamola lunga. C) Privilegiare assolutamente i classici a spese dei contemporanei, per le ragioni che mi verranno da dire più avanti. Insomma, niente Tabucchi o Magris. È anche bello che i propri contemporanei uno se li scopra fuori della scuola. Devo lasciare in sospeso la questione, impellente quanto in pratica difficoltosa, della rappresentanza delle letterature straniere. Ma non posso che ripetere quanto ho scritto e detto tante volte: che uno esca dalle Superiori avendo letto “Bella Italia, amate sponde” e non Uno scherzetto di Čechov (scelgo apposta un racconto brevissimo), è un piccolo atto di barbarie culturale. Quanto all’uso del testo, entrambe le operazioni che tu indichi sono legittime, anzi necessarie: io continuo a giudicare decisive le formule di Szondi: “i testi non si presentano come degli esemplari, ma come degli individui”, e “il solo modo equo di considerare l’opera d’arte è quello che vede in essa la storia, non già l’opera d’arte nella storia”, però con l’aggiunta: “innegabilmente, anche questo secondo punto di vista ha una sua giustificazione…”. E però ritengo che si debba privilegiare la prima operazione (“lasciar parlare il testo”); anche perché tutti gli interessantissimi discorsi che si possono fare intorno al testo sono in fin dei conti discorsi storici, ed esiste l’insegnamento della storia, che secondo me andrebbe molto potenziato. Ci sono anche, e non sono poco importanti, le reazioni esistenziali al testo, e qui chiaramente ognun per sé (per quanto…: v. più avanti).

La tremenda questione dell’italiano ‘difficile’ (ancora nel Nove!). Come sai bene, c’è chi propone di sostituire/affiancare alle note, così alleggerendole, una parafrasi integrale in italiano odierno non solo di Dante ma anche, ad esempio, di Leopardi (e perché no di Montale?) – mentre nel Dante di Contini/Segre-Sermonti le chiose indispensabili sono assorbite nel ‘racconto’ che precede ogni canto, e mi pare un procedimento suggestivo. Io mi sono trovato a criticare pubblicamente quella proposta, ma ero e oggi sono ancor di più convinto che non è affatto assurda (me l’hanno confermato i ribaldi attacchi che l’autore principale, Marco Santagata, ha subito sul “Sole ventiquattr’ore su ventiquattro”): bisogna continuare a pensarci su. Il pericolo maggiore resta che lo studente, e magari anche il professore, legga solo la parafrasi. E un altro è che si parafrasino con sinonimie d’uso anche parole perfettamente comprensibili del testo ‘antico’: “Nel mezzo del cammin di nostra vita” va benissimo, “A metà del percorso della nostra esistenza” sarebbe persino fuorviante. Ma a guardar bene il guaio della proposta sta proprio là dove sembra più terapeutica. Le due cose che fanno più grande quanto della cultura italiana è stato espresso in parole sono certamente la sua letteratura ‘antica’ (e anche l’opera irrinunciabile di un moderno linguisticamente anticheggiante come Leopardi), e la foresta dell’opera in musica coi relativi testi, che come sai sono, specialmente nell’ ’800, quanto di più antiquato e già allora ‘inattuale’ si possa pensare. Per assaggiare un po’ di queste grandi linfe occorre che la nostra competenza linguistica sia anche ‘antica’ – il che del resto sembra pure una condizione indispensabile per il buon uso dell’italiano tout court; se non veniamo allenati a conservarla o conquistarla (conquistarla ogni giorno) quei magnifici patrimoni, e tanto altro, per noi saranno muti. La meta non vale lo sforzo?

Strettamente collegata alla precedente domanda è la seguente che mi viene dall’amico Carlo Paganotto, il quale te la rivolge anche come docente di materie letterarie ai licei. Vorresti provare a indicare quale spazio possa o debba avere l’esperienza estetica nella vita di qualsiasi persona (un medico, un cameriere, ecc.)? È qualcosa che può essere insegnato, comunicato, imparato…?

Penso proprio che si debba rispondere fermamente di sì a entrambe le questioni. Sarebbe da intellettuali o esteti marci e del tutto ‘separati’ pensare che l’esperienza estetica non possa, e quindi non debba, aver parte o peso in chiunque: se può in qualcuno, allora dovrebbe in tutti. E certo che può essere insegnata-imparata: se non lo credessi avrei cambiato mestiere da un pezzo. Notate poi che per quanto riguarda la mia ‘professione’ io generalmente comunico l’esperienza estetica attraverso quella linguistica, e questo pure si insegna e si impara (s’impara mentre s’insegna…), come no.

La domanda è difficile ma te la faccio lo stesso. Cosa dovrebbe imparare essenzialmente all’università un bravo insegnante di italiano? Mi riferisco a un ipotetico curriculum di base disegnato qui a grandissime linee…

Io direi, rapidamente, che dovrebbe essere soprattutto una persona colta e curiosa, capace di comunicare curiosità e interessi. È quello che ambiva a creare, e in realtà spesso ci riusciva, la ‘vecchia’ Facoltà di Lettere italiana, una delle migliori al mondo, senza dubbio: aperta e poco specializzante (c’è sempre tempo per specializzarsi!), circolare, varia ma anche compatta; la attuale non è più in grado di farlo, troppo spezzettata, per nulla ariosa e troppo succube, vanamente, del mercato. Se mi chiedi quale dovrebbe essere secondo me la dominante di questa cultura e curiosità, rispondo senza esitare: la storia (più la geografia, ovviamente), perché senza di quella poco si capisce del resto e perché credo che occorra remare vigorosamente contro la disappetenza per la storia dei giovani e dell’attuale ‘civiltà’; una disappetenza che in tanti paesi stranieri che noi pigliamo incautamente a modello è tragicomica: lo dico per esperienza diretta e inconfutabile di esaminatore di studenti Erasmus. Ma evidentemente per insegnare passabilmente italiano occorre sapere qualcosa di concreto: e questo, lo dico con voluta drasticità, non sono altro che i ‘fondamentali’, cioè la lingua e la sua storia, la retorica e la stilistica e la metrica… (cose che, almeno qui a Padova, oggi si insegnano molto di più di un tempo).

P.S. Oggi se uno vuol diventare un buon professore deve dormire o leggere romanzi durante le lezioni della SSIS.

Torniamo agli anni padovani. Al cinema ci andavi? E a proposito: nella tua educazione intellettuale ha contato molto il cinema? Puoi dirci di alcuni film che ti hanno impressionato allora e dopo? Ma ne approfitto anche per farti un’altra domanda: a volte mi pare che il cinema con il passare del tempo sia diventato la forma d’arte più capace di raccontarci la realtà. Anche più capace del romanzo che da realista è diventato sempre di più psicologico. In altre parole non ti pare che se vogliamo sapere come va il mondo il cinema ci dice oggi qualcosa in più del romanzo? Tu non vai al cinema anche con questo intento: per farti un’idea di cosa bolle nel grande pentolone del mondo?

Sì e sì alle tue domande finali, che contengono già la risposta. Si può appena insistere che se il cinema (ma anche il romanzo, tuttora) non rappresenta non ha ragion d’essere. E forse non separerei troppo la rappresentazione della cosiddetta realtà da quella della psicologia. In fin dei conti non mi pare eccessivo pensare che gli archetipi del romanzo moderno sono due: il Don Chisciotte, evidentemente, e La Princesse de Clèves, cioè due opere rispettivamente spalancate su uno dei due versanti (senza affatto ignorare l’altro). Non c’è dubbio che il cinema, oggi, ‘rappresenta’ più del romanzo, ma non direi in assoluto: è abbastanza significativo osservare che in genere dove c’è narrativa importante c’è anche cinema importante, con qualche eccezione come la Francia, dove, a quel che vedo, conta assai più il secondo della prima (non sarà mica importante Houellebecq…).

Sulle basi che ho detto prima, era quasi inevitabile che continuassi fino ad ora a vedere cinema a grandi dosi. Piuttosto che elencare film che mi piacciono particolarmente, posso magari indicarti nomi di registi cui devo emozioni particolari: Chaplin più di tutti, Dreyer, Murnau, Renoir, Ozu, Hitchcock, Rossellini, il De Sica neorealista, Lean per Breve incontro, Bergman, Truffaut e altri francesi più i nominati prima… Ora che è appena scomparso mi viene in mente La battaglia di Algeri di Pontecorvo, film politico potente. E già che ci siamo confesso che ammiro ma senza consanguineità sia Welles che Fellini (a parte Amarcord), e non ho ancora capito se Rohmer mi piace o mi irrita col suo moralismo.

Ma ho limiti grandissimi quanto ai generi. Detesto l’horror e la fantascienza (con l‟unica eccezione di Odissea nello spazio) e tutti i film basati sugli effetti speciali nonché sull’eccessiva esposizione di sangue-pomodoro; non avevo e non ho un debole – ma qui con molte eccezioni – per il Western-genere, che ho sempre sentito come troppo ripetitivo e insopportabilmente ideologico, nel senso proprio di cattiva coscienza (mi pare insomma che esprima piuttosto il peggio che il meglio degli Stati Uniti: penso che ci capiamo). Non ho neppure un’ammirazione pari a quella di altri per la Commedia all’italiana, soprattutto nella versione, per intendersi, Alberto Sordi: mi pare che si oscilli pericolosamente fra lo svelare acutamente alcuni vizi storici degli italiani e l’accarezzarli e assolverli con altrettanto scetticismo. Invece ho conservato dall’adolescenza – allora erano soprattutto i film con Errol Flynn – un’attrazione invincibile per i classici film d’avventura: I tre moschettieri (la versione con Gene Kelly come d’Artagnan) e soprattutto l’intelligente Scaramouche con un perfetto Stewart Granger me li vedrei un giorno sì e uno no. Ed ecco un altro grave mio limite: quando vedo un film (un poco anche quando leggo narrativa, confesso) io mi immedesimo e parteggio, che per un ‘critico’ forse non è un buon punto di partenza.

Poi hai cominciato la tua vera e propria carriera di docente e ricercatore universitario. La mia domanda è questa: sentivi di fare parte di un gruppo, di un movimento, di un programma di ricerca? Mi spiego meglio: tu sei cresciuto in quella grande scuola che è stata la filologia romanza italiana (che per George Steiner rappresentava il meglio della cultura italiana del secondo Novecento). Ecco, cosa voleva dire per te ‘far parte’ di questo filone di studi? Cosa voleva dire crescere filologi romanzi in Italia in quegli anni? Te lo chiedo sia rispetto all’approccio crociano, che in quegli anni ancora perdurava, sia rispetto all’approccio marxista. Insomma, essere filologi significava essere dei tecnici neutrali che non si lasciavano sviare dalle chiacchiere, o significava avere una idea ‘forte’ rispetto allo studio dei testi letterari?

Steiner ha solo mezza ragione, nel senso intanto che, da letterato, dimentica almeno un altro grande punto di forza della cultura umanistica italiana del Novecento, la storiografia: Croce, Arnaldo Momigliano, Chabod, Dionisotti ecc. ecc. e gli eccellenti storici della seconda metà del secolo (e la storiografia artistica: Venturi, Toesca, Longhi…). E un’altra cosa va precisata. Io sono nato storico della lingua e filologo italiano, che sarebbe riduttivo considerare semplici branche o ruote di scorta della filologia romanza. Anche perché i migliori storici della lingua lo sono stati e lo sono a tutto campo, mentre la filologia romanza in Italia si è specializzata (con eccezioni, si capisce) come medievistica; anzi oggi come oggi, per ragioni che sarebbe lungo spiegare – compreso il fatto che spesso i filologi romanzi italiani sono più che altro dei cultori di italiano antico, abbandonato nel frattempo dagli italianisti –, ha perduto la sua centralità e il suo ruolo-guida (non è che altrove, per ragioni differenti, stia meglio), e può apparire perfino una disciplina ‘di nicchia’. Naturalmente questo non vale per studiosi come Segre o Varvaro.

Altro che se sentivo di “far parte ecc.”: non per nulla amici e critici ci chiamavano ironicamente i “folenotteri”; e forse l’unità consisteva piuttosto nella ‘scuola’ comune e nel riferimento al comune maestro che in comuni programmi di ricerca, anche se Folena ne ha avviato e compiuto di importanti: in questo era molto più bravo di me, che non so lavorare in équipe e fatico a coordinarle.

L’eredità crociana alla mia altezza era smaltita, magari anche attraverso il crocio-marxismo di Gramsci e in genere delle dirigenze comuniste. Ma nella mia filologia c’era certamente, per motivi più o meno giusti, tensione col marxismo: che per me raggiunse il culmine quando in un brillantissimo articolo Cases ‘stroncò’ Spitzer e la stilistica – il che significava mettere l’alt anche alla mia ambizione di passare direttamente dalla filologia alla critica. Confesso che entrai malamente in crisi. Come mi difendevo dentro di me? Non certo concependo il mio lavoro come marginale e umbratile, non sono mai stato così umile, ma sostanzialmente in due modi. Il primo era che pensavo che filologia e suoi annessi fossero una buona e salutare reazione ai caratteri speculativi e ideologici (entrambi gli aggettivi nel senso negativo) delle ideologie appunto, in testa quella forte del marxismo ufficiale. E poi mi pareva che quando ci si occupa in modo pertinente di materia linguistica si è materialisti, in un senso diverso ma forse non meno giustificato del materialismo storico e dialettico dell’ideologia. Di fatto, ho sempre tenuto i piedi sulle due staffe – non dico affatto fuso le due prospettive, che sarebbe davvero dir troppo. E ho continuato a ritenere, illudendomi chissà, che una buona stilistica sia non solo il metodo critico che può recare meno offese ai testi, ma anche quello particolarmente adatto a sfondare verso il significato, individuale e storico di un’opera senza fargli troppo dire quello che non dice. Se poi posso aggiungere una postilla, questa è che da molto non faccio più il filologo testuale a tempo pieno ma solo di sbieco (recensioni, lavoro coi miei allievi…), eppure quel mestiere continua a piacermi, o divertirmi, moltissimo (congetture, interpretazioni del significato, lettura di manoscritti difficili, anche riflessione sullo statuto della disciplina…). Ricorderai cosa scrive nientemeno che Auerbach all’inizio della sua Introduzione alla filologia romanza, che la testuale è la parte più “nobile” della filologia. Se lo dice lui…

Ritorno sulla questione precedente, da un altro punto di vista: gli anni sessanta e settanta sono stati caratterizzati dallo strutturalismo, era quello il main stream. Adopero il termine “strutturalismo” intendendolo nel senso più lato possibile. Vale a dire come sinonimo di un approccio altamente razionale e perfino geometrico al testo letterario, di cui venivano ricercate le costanti, le varianti e insomma la coerenza interna. Prima di tutto ti chiedo se e quanto sei stato influenzato da quell’approccio. Poi però vorrei che allargassi il tiro: oggi, in nome di un approccio più appassionato, più empatico al testo, è diventato quasi inevitabile sparare contro lo strutturalismo, proprio perché lo si accusa di essere stato troppo asettico, senza anima. Voglio sapere cosa ne pensi. E in generale se e quanto ti senti di difendere un approccio razionalista o so che la parola è grossa scientifico agli studi letterari?

Impossibile, per me, non essere stato toccato, e anche provocato a fondo, dallo “strutturalismo”, in senso lato ma anche stretto. In quello stretto, cui preferirei attenermi per non essere generico, oserei dire che mi è sempre parso più importante lo strutturalismo linguistico di quello critico. Che cosa non andava secondo me nello strutturalismo critico? Nell’analisi di singoli testi la vistosa tendenza a studiarli in sé, fuori contesto (sia questo l’opera complessiva dell’autore o la situazione storico-culturale). Fra parentesi, è ciò a cui, partendo da un terreno culturale affine, la semiologia ha tentato di porre rimedio; direi pure che senza semiologia non ci sarebbe l’attuale sviluppo, magari anche eccessivo, degli studi tematici. Aggiungi, per divagarci un po’, che non sempre c’era in questi esercizi la conoscenza perfetta della lingua in questione che occorrerebbe, come si vede bene nel capostipite loro, la celebre ‘lettura’ dei Chats di Baudelaire di Jakobson e Lévi-Strauss. Cosa curiosa non tanto da parte del primo che come si diceva parlava russo in dieci lingue, quanto del secondo. Morale, tutto qui si passa senza tener conto delle liaisons, che cambiano totalmente l’assetto fonologico da loro supposto del testo.

E quanto all’analisi di organismi letterari, in particolare ‘canzonieri’, non va la tendenza a concepirli, anzitutto dal punto di vista linguistico, staticamente: sistema linguistico chiuso di un canzoniere ecc. Qui ha già qualche colpa Contini, ma ancora oggi troppi ci marciano. Addio dinamismo, sviluppo interno, provvisorietà nel senso migliore dell’opera, frizione fra l’extralinguistico e il linguistico, fra contenuto e forma. Sarà un sistema quello del Della Casa, o addirittura quello di Petrarca (mah), non lo è certo quello del Furioso e meno ancora dei Canti di Leopardi (proprio recentemente il maggior leopardista italiano, Blasucci, ha puntato il dito su questo). Anche qui è opportuno, adornianamente, mettere un po’ di caos nell’ordine. E infine per me nello strutturalismo critico, come d’altronde in certe forme di critica psicanalitica, è troppo alto il tasso di dimostratività (di un metodo, di una teoria). A me sembra che, almeno in genere, il percorso del ‘vero’ critico sia inverso, induttivo, tale da far scaturire dall’analisi il più possibile impregiudicata del testo suggestioni metodiche, teoriche, ‘filosofiche’. Il che non è meno ‘scientifico’ (ma sulla faccenda della scientificità credo che dovremo ritornare).

Per quanto riguarda la scarsa empatia, l’asetticità ecc. può darsi che in certi prodotti dello ‘strutturalismo’ critico siano esasperate, quasi esponenziali, ma tutto sommato io credo che le critiche che si possono rivolgere in questo senso allo strutturalismo siano, né più né meno, quelle che valgono o varrebbero per ogni tipo di critica formale non troppo frettolosa. Ma, prima cosa: le alternative che si propongono (oggi sempre più) in nome della lettura empatica o ‘esistenziale’ o non-professorale sono concettualmente miserrime, una pura resa all’immediatezza (e peggio ancora, a un astratto ‘godimento’ a scapito del senso). E, seconda cosa: a mio parere un’analisi formale ben fatta e non asfittica non diminuisce ma aumenta il piacere del testo, quello di chi la fa ma anche quello di chi la riceve: chi ha tenuto lezioni di questo tipo agli studenti universitari lo sa bene.

Ritorno sulla filologia. A me pare che ci siano filologi e linguisti che hanno perseguito un’idea più tecnica e neutrale dello studio dei testi, mentre altri come te, ma anche come Contini, sono sempre stati anche interpretativi, ‘filosofici’. Penso per esempio a come Contini usa Proust per capire Dante… Non si può dire che si tratti di pura ortodossia filologica. Nel caso tuo poi questo è se vogliamo, ancora più evidente. Voglio dire che anche nei tuoi studi più rigorosi e tecnici tu affronti sempre questioni che attengono al senso e al valore del testo. Certo, ti preoccupi prima di tutto di dare conto di una serie di fenomeni linguistici, metrici, stilistici, retorici, e lo fai nel modo più oggettivo possibile, ma ho l’impressione che ti lo faccia con l’intento di capire meglio perché quel dato testo funziona così bene, e cioè perché è tanto bello. È così? Si può distinguere tra un approccio filologico-linguistico ai testi più descrittivo e uno più interpretativo? E se è così, quanto quest’ultimo approccio è diffuso negli studi filologici e storicolinguistici italiani? E ancora: ci sono dei maestri presso cui hai imparato o perfezionato questo approccio? A me vengono in mente Auerbach e Spitzer…

La dicotomia esiste certamente, anche se per la natura delle cose sfuma continuamente. Si potrebbe addirittura sostenere che il vero salto dall’uso puramente storico-linguistico, descrittivo, del testo all’interpretazione si abbia non tanto quando tu cerchi di spremere, partendo da quelle analisi, un senso del testo in quanto tale, ma piuttosto quando cerchi di spremerlo confrontandolo col suo contesto, storico anzitutto: è evidentemente la via soprattutto di Auerbach. E almeno in linea di massima le analisi linguisticoformali ti dicono piuttosto come funziona il testo, la sua unità e coerenza, perfezione ecc., che non qualcosa sulla sua ‘importanza’, o addirittura sulla sua ‘bellezza’. Io ho sempre trovato splendida la sentenza di Diderot, secondo cui l’unità è piuttosto una prerogativa della perfezione che della bellezza.

Spitzer mi ha influenzato sì, ma piuttosto attraverso la stilistica più ‘stretta’, diciamo così di Contini, che per ovvie ragioni ammirava ma non poteva più sentire in proprio l’ ‘umanesimo’ spitzeriano. È più che un aneddoto significativo la scoperta continiana dell’etimo ‘bestiale’ (haras, allevamento equino) della parola razza, di contro a quello nobile di Spitzer (ratio).

Senti, eleggiamo a spartiacque ideale il ’68. Tu hai vissuto il ’68, anche se durante la prima fase di esso eri ancora ‘fuori ruolo’ e nella seconda eri diventato un cattedratico. Raccontaci come fu per te il ’68? Come reagisti? Cosa ti piacque e cosa non ti piacque? Com’erano quei ragazzi? In una brutta poesia Pasolini disse che valeva la pena stare dalla parte dei poliziotti perché tanto i contestatori erano borghesi e sarebbero ritornati a esserlo. Con il senno di poi non si può dire che avesse tutti i torti… Infine vorrei che ne approfittassi anche per dire la tua su una vecchia questione: è davvero tutta colpa del ’68? Voglio dire che per molti il ’68 ha inaugurato un certo lassismo e una certa demagogia che ha danneggiato la scuola e l’università e infine la società tutta. Si potrebbe addirittura arrivare a dire che l’idea di rendere socialmente utile la cultura ci ha portato alla recente Riforma universitaria che per molti è stata catastrofica

Confesso senz’altro che reagii in modo diverso quando ero assistente-incaricato a Padova, dove del resto il vero e proprio sessantotto è stato piuttosto blando, ed ero tutto dalla parte degli studenti (dev’essere stato anche l’unico momento della mia vita in cui ho dovuto fingere doti di oratore), rispetto a quando, subito dopo, ero professore ordinario a Genova, dove quella ‘rivolta’ era molto più risentita, e con un forte riscontro negli ambienti operai e portuali: qui mi vennero più dubbi, forse puramente difensivi. Qualche anno dopo cercai di spiegare, invano, a una sprovveduta quanto fanatica studentessa di CL, qui a Padova, che il ‘ruolo’ sociale e professionale condiziona fortemente le persone, o addirittura le cambia e riplasma. E questa è per me la critica principale che si deve muovere alla celebre poesia di Pasolini, che giudico non solo brutta ma sbagliata in essenza, come spesso le sue opinioni sociologiche (questione della lingua, idealizzazione del mondo contadino…). Perché lui ha capito (e non ci voleva molto) che un borghese figlio di papà facilmente rientra nell’accogliente grembo della sua classe, ma non ha capito affatto che un simpatico e umiliato proletario o sottoproletario che fa il poliziotto da poliziotto poi si comporta, e cioè – per ordine e per convinzione – dà addosso a qualsiasi ‘insorto’, tanto più se ci mescola come è normale un odio apolitico di classe e in particolare per gli intellettuali. Mi sia permesso di dire che ancora una volta qui Pasolini ha denunciato la sua imperfetta preparazione marxista, non meditando quanto scritto dai classici sul Lumpenproletariat, e in genere di storico: basta sempre pensare alle vicende della Repubblica Partenopea e a tanti altri episodi simili dell’età moderna.

Sulla posterità negativa (ma c’è stata anche quella positiva!) del sessantotto non saprei davvero come rispondere, così in breve. Si potrebbe ad esempio dire che quei fatti non hanno solo promosso lassismo, ma anche auspicato un modo diverso di insegnare e imparare che poi non si è verificato. E sarebbe sempre da vedere quanto demagogia e lassismo siano discesi direttamente dall’ideologia del sessantotto e quanto da come le istituzioni (e non l’universitaria soltanto) ne hanno accolto il peggio per ingabbiarne il meglio: dal loro opportunismo, dalla loro fiacchezza, dalla loro volontà di perdizione.

Guarda, io non voglio che tu ritorni sulla questione della riforma su cui ti sei ampiamente già espresso. No, io vorrei che tu ci dicessi cosa dovrebbe essere per te essenzialmente l’esperienza o la dimensione universitaria idealtipicamente intesa. Al di là dunque dell’ovvia considerazione che l’università corrisponde a un curriculum di studi con obiettivi di formazione della gioventù. Non so se riesco a spiegarmi, ma ho come l’impressione che sia esistita, sia pure modificandosi nel tempo, questa dimensione peculiare che ho chiamato la dimensione universitaria. Qualcosa che veniva dal Medioevo e che forse è durato fino a oggi o fino a ieri…

Io qui mi limiterei a rispondere non in generale ma per quella fetta di realtà che sta da decenni sotto i miei occhi. A me sembra che l’esperienza universitaria è davvero qualcosa culturalmente (altra cosa da: scientificamente) se incide, ed è incisa da, la città che la ospita. È desolante vedere quanto poco avviene a Padova questo interscambio. Non credo di sbagliare molto se affermo che la buona borghesia padovana è fondamentalmente sorda in fatto di cultura, e da sempre tende a delegare tutto o quasi all’Università: la quale non può e non deve far tutto, pena l’asfissia. Pur essendo la città più importante del Veneto e ospitando una grande Università, Padova – questo è sotto gli occhi di tutti – è una città dalla vita culturale molto povera fuori dei recinti universitari. Elencando rapidamente solo per la haute culture: non c’è una stagione operistica minimamente degna, quella di prosa è tagliata fuori da alcuni dei circuiti più interessanti, le mostre d’arte non superano mai il livello medio-basso, e puoi tu stesso proseguire.

Basta un rapido confronto con la vicina e più ‘piccola’ Ferrara, che non ha una grande Università, per farsi un’idea (com’è noto, Ferrara ad esempio mette su almeno due mostre d’arte di notevole importanza ogni anno). Io penso che la stessa vita culturale dell’Università patavina risenta pesantemente di questa situazione.

Torniamo al ’68. Tu in quegli anni e poi in quelli successivi ti sei misurato con un fenomeno che pur non essendo solo italiano ha una sua tradizione nel nostro paese, e che spesso si è manifestato tra gli studenti ma anche tra i professori universitari, voglio dire l’estremismo. Credo che anche alcuni tuoi amici ne siano stati coinvolti, anche drammaticamente.
Pensi che abbia comunque avuto un ruolo stimolante rispetto all’immobilismo dei partiti politici, anche di sinistra?

L’estremismo di quegli anni: anch’io crederei che sia stato in primo luogo reazione all’immobilismo (e altro) della sinistra ufficiale; e ha toccato anche me personalmente, oltre a coinvolgere molti che conoscevo, a cominciare da un ex allievo di liceo ‘corrotto’ da un subcomandante o ‘cattivo maestro’ locale. E forse io una qualche componente ‘estremistica’ la porto in me.

L’azione di stimolo di cui parli c’è stata certamente, ma a doppio taglio, ed è sulla seconda lama che vorrei posare l’attenzione. Sessantotto ed estremismo di sinistra hanno indubbiamente fatto riflettere un po’ i meri riformisti di sinistra, ma hanno anche aggravato l’autoritarismo repressivo poststaliniano che sonnecchiava in molti di loro, e forse nell’organismo come tale. Mi ricordo che si diceva che se andava al potere il ‘ministro degli interni’ del Governo-ombra del PCI, l’on. Pecchioli, erano guai, altro che coi ministri degli interni democristiani. Tutto questo si è visto bene nella mia Università e Facoltà. Ad alcuni miei colleghi e amici, e a me, pareva ovvio che uno dei problemi fosse non di reprimere indiscriminatamente ma di lasciare spazio e voce a quegli studenti di sinistra, non pochi, che pur essendo fortemente critici verso l’establishment della sinistra stessa e lo stato borghese in generale, tuttavia non erano affatto complici, neppure “oggettivi” (spregevole categoria staliniana), delle Brigate rosse e di altri estremismi. Questa possibilità è stata decapitata vigorosamente in loco e altrove, e credo anche per il motivo più o meno conscio che quelle posizioni erano le vere avversarie dello stato di cose, non le Brigate rosse che in fondo facevano (“obiettivamente”) il suo gioco. Un paio di ricordi. Una volta che provai personalmente a dire quanto sopra, e cioè un’evidenza elementare, in Facoltà due miei colleghi cattolici si sogguardarono e a gesti e sorrisetti significarono: c.v.d., ecco l’alleato degli estremisti. Un’altra volta l’allora preside della Facoltà tolse violentemente e senza ragione la parola, cioè non lasciò proprio parlare una ragazza (di prim’ordine) che apparteneva a quello schieramento, sottintendendo come sopra.

Oggi, coi fatti gravissimi che sono accaduti, si tende a dimenticare che la ferita degli anni settanta è stata anche questa.

Più in generale, Enzo, qual è il tuo rapporto con la politica? Non sto dicendo solo con le idee politiche, ma con la prassi politica, con la militanza. Tu non ti sei mai iscritto né al partito comunista, né a nessun altro. C’è in questo solo la ritrosia dell’uomo speculativo di fronte a forme d’impegno troppo assorbenti e in fondo ‘alienanti’, o c’è qualche altra ragione, per esempio una ragionevole diffidenza per quanto la politica, anche quella ispirata a ideali di giustizia, presenta di cinico?
Ti dico quello che penso io: che un intellettuale come te ha svolto e ancora svolge un compito politico essenziale ricercando, scrivendo e insegnando, contribuendo così alla conoscenza. Non vorrei apparire retorico, penso però che uno studioso laico e conseguente, perseguendo i suoi studi e insegnando ai giovani, contribuisce nel suo piccolo a quella grande operazione che chiamiamo illuminismo. Credo che soprattutto questo debba fare, e che invece perde tempo, e magari lo fa perdere agli altri, se si mette a militare. D’altra parte, non mi pare che i cosiddetti intellettuali organici possano costituire un modello a cui rifarsi.
Allora, perché qualche volta ho percepito in te disappunto e malinconia per non aver fatto di più nell’arena politica?

Rispondo alle due domande assieme. La mia, relativa, apoliticità spero non contenga nessuno sprezzo intellettualoide nei confronti del mestiere di politico e del suo necessario realismo (che, lo so, può sconfinare nel cinismo). Credo che sia dipesa, molto semplicemente, dal carattere esclusivo e maniacale del mio essere studioso, dall’idea – e sarà anche un alibi – che ho di me stesso come uno che, alla lettera, sa fare una sola cosa, quella (studiare, scrivere, insegnare).

Però cosa vuol dire militare? Se militare dentro un partito, allora certo non sono stato iscritto al PCI né alle sue discendenze: dapprima per le ragioni cui ho già accennato, poi per ragioni in qualche modo opposte (forte perplessità di fronte al compromesso storico, ecc., più di recente rigetto, è la parola, in cospetto degli errori catastrofici, e che continuano a ripetersi, nei confronti della spaventosa novità-Berlusconi e in genere della nuova destra italiana). Ma c’è sempre da chiedersi perché io non militi in qualche schieramento della sinistra cosiddetta radicale… Convengo anche assolutamente che l’unico modo buono di essere intellettuali-politici è quello di essere disorganici: basta vedere cos’hanno combinato gli organici. Ma militare anche fortemente fuori dei partiti si può benissimo, e questo io l’ho fatto troppo poco, fuorché forse negli anni in cui ho avuto accesso ai giornali, il che ora non è più e non per colpa mia. Vedo bene che è molto molto difficile (ma proprio impossibile?) militare fortemente e insieme dare quello che si può dare come studiosi. Però io ho vissuto in un secolo, in uno scorcio/inizio di secoli, in una ‘civiltà’, in un paese i cui aspetti più vistosi non potrei definire altrimenti che terribili. Come si fa a non provare “disappunto e malinconia”, anzi a non processarsi, per non aver fatto qualcosa di più? Non si poteva scrivere un paio di libri di meno e militare di più? (Col che intendo anche forme di impegno solidaristico). E l’illuminismo da solo non basta a cambiare neppure un palmo di realtà, mi parrebbe illusorio pensarlo, anche se è una premessa indispensabile a questo. Se devo essere sincero penso che gli argomenti con cui, per così dire, mi giustifichi, rischiano di essere un alibi abbastanza comodo non solo per me, ma per tutta una categoria. Fortini, che mi era affezionato e dunque era generoso con me, mi ha definito una volta “un contemplativo che non ignora la mano che compie l‟azione”. Rispondo a lui e a te con una metafora tratta da uno “xenion” di Montale dove un prete, sentite le dichiarazioni di scarsa ortodossia religiosa della Mosca, le concede senz’altro: “È sufficiente”. No, non è sufficiente.

Una domanda aneddotica. Ci dici il nome di un uomo politico del Novecento che hai ammirato, che cioè costituisce per te un buon esempio di coniugazione di potere e valori? Non mi sto riferendo solo e tanto a testimoni o a profeti disarmati, ma proprio a politici, e cioè a uomini d’azione e comando…

Sarò anche un estremista, ma quell’uno è Enrico Berlinguer, che per cominciare mi piaceva moltissimo come uomo.

Chiamo in causa Adorno. Come sai, praticamente a ucciderlo fu il ’68. Si sentì male in classe a causa di una provocazione studentesca e non si rimise più. Ma non è l’aneddoto che interessa. Adorno trattò gli studenti del  ’68 come fascisti rossi e in generale condivideva con Tocqueville, Nietzsche (ma anche con Baudelaire, Flaubert, eccetera) la critica alla civiltà di massa. Anche tu penso qualche volta sei stato infastidito da alcune forme di protesta assunte dal movimento studentesco a Padova… D’altra parte la sinistra storicamente si è caratterizzata proprio come uno dei fenomeni più evidenti della società di massa, e perciò ha necessariamente puntato su forme organizzative di massa (propaganda, comizi, assemblee), che per forza di cose non valorizzano la libertà individuale di pensiero e ricerca. In altre parole, qualsiasi movimento di massa, anche il più progressivo, presenta tratti tendenzialmente conformistici, ‘ortodossi’. Insomma, tu non pensi che ci sia un nucleo di verità nelle critiche da destra alla democrazia di massa? Non credi che molti di noi, che pure continuano a riferirsi a irrinunciabili principi di giustizia, poi sono nei fatti diffidenti verso le tradizionali forme organizzative della sinistra, e non solo per imponderabili ragioni personali? Insomma sei anche tu almeno in parte un conservatore? Non credi che ci siano aspetti ‘di destra’ in te?

Non so se sono d’accordo con l’assunto principale. Certamente nel ’68 tedesco (e anche italiano) c’erano tratti ‘fascisti’, primo fra tutti il togliere la parola con la violenza verbale, gli sberleffi e ueggiamenti ecc.; cosa però che si può anche considerare uno stigma fascista ideale-eterno, proprio da noi anche di qualche ‘democratico’ che non manovra masse (un esempio: Pannella). E altrettanto certamente il pur sacrosanto “noi è più dell’io” di ogni comunismo sta, come si è ben visto, sull’orlo di un brutto scivolo. Ciò che tuttavia contesterei è proprio il fatto che la critica di Adorno e dei francofortesi alla civiltà di massa (principalmente nella fattispecie americana? Ma oggi è dappertutto quella…) si possa omologare alla critica conservatrice-reazionaria, anche se intelligentemente la usa (col che riconosco automaticamente che il disdegno di quella parte contiene del vero). Non nego di essere stato anche infastidito ecc. ecc., e non necessariamente per motivi nobili, ma mi lascia perplesso l’idea che le forme organizzative di massa, negatrici della libertà dell’individuo, siano appannaggio della sinistra: lo sono, e quanto pericolosamente, anche della destra reazionaria quando si mobilita, cioè quando passa dai ‘programmi’ ai fatti: fascismi vari, nazismo… berlusconismo (è ancora storia dell’oggi); va precisato anzi che sono proprie, indirettamente ma non meno scelleratamente, anche della destra conservatrice più presentabile, tutte le volte – e avviene così spesso! – che delega a quella reazionaria la difesa dei propri interessi. E c’è sempre una differenza di base: che la ‘buona’ sinistra ci crede, nelle virtù della massa, la destra in genere sfrutta e basta il “popppolo” (con le tre pi di Gadda, Eros e Priapo). Al dunque sembrerebbe quindi che l’individuo debba sacrificare una parte di sé schierandosi con l’una o con l’altra ‘massa’. Non so poi se faccia esattamente al caso qui, ma mi viene in mente l’eloquente risposta che diede un grande cabarettista della DDR fuggito in Germania Ovest circa la diversità fra i due sistemi, e società: “All’Est il cabaret servirebbe ma non si può farlo, all’Ovest lo si può fare ma non serve a niente”.

Come tutti o quasi gli intellettuali, non c’è dubbio che albergo anch’io aspetti conservatori e di ‘destra’, tanto più marcati data l’odierna onnipotenza della civiltà di massa. Mi sforzo di tenerli a freno col cervello e con la convinzione che mai e poi mai la strada può esser quella; e se posso dirlo, anche col vivace sospetto che certi che a prima vista appaiono tratti ‘conservatori di destra’ in realtà sono ‘critici di sinistra’. La linea che divide il rifiuto conservatore del nuovo e la critica di sinistra anche la più aspra al presente così-com’è, e che non va proprio bene, è molto molto sottile.

Ma questo mi fa porre una domanda più generale circa i tuoi rapporti con gli scrittori o pensatori conservatori o anche reazionari che hai letto, amato e studiato. Penso appunto a Hegel, Tocqueville, Nietzsche, Baudelaire, Flaubert, ma anche a Balzac, Wagner, Faulkner, Céline, Dostoevskij, Benn, Montale, e penso anche a certi giapponesi, per non dire di Eliot, Yeats, Stevens e tanti, tanti altri. So benissimo che hai amato anche pensatori e scrittori ‘di sinistra’, e che più in generale dividere in destra e sinistra gli scrittori e i pensatori è riduttivo. Tuttavia io credo che esista una grande tradizione moderna conservatrice, che non penso si possa liquidare dicendo che in realtà erano tutti progressisti e democratici ‘al di là delle loro intenzioni’.
Ecco, come ti sei rapportato con questa linea di pensiero, e come credi dovrebbe rapportarsi con essa la cultura democratica?

 Diciamo che mi attribuisci anche degli ‘amori’ che in verità non ho: caso tipico Céline. E Hegel si può considerare senz’altro un filosofo “conservatore”? Marx non la pensava così. E certo mi rendo ben conto di quanto queste classificazioni siano precarie. Per dire solo qualcosa. La distinzione fra conservatore e reazionario è in linea di principio chiara, ma quanti scivolano facilmente (anche in politica!) dalla prima posizione alla seconda. E si può ben ritenere che ci sia maggior distanza fra uno scrittore ‘rivoluzionario’ e un progressista moderato che fra questi e un conservatore illuminato. O ancora: come ci insegna l’espressionismo tedesco l’anarchismo antiborghese di ‘sinistra’ può assomigliare come una goccia d’acqua a quello di ‘destra’, e l’uno e l’altro si distinguono radicalmente, e per motivi analoghi, dagli scrittori borghesi umanisti e ‘progressisti’ (non per niente, sempre in Germania, espressionisti ed ex espressionisti sia di destra che di sinistra hanno sempre avuto come bersaglio Thomas Mann). O ancora, nel recinto politico ma non solo in quello: mi sembrerebbe una vera leggerezza catalogare fascismo e nazismo senz’altro come reazionari. Per quanti elementi reazionari contenessero, per quanto a conservatori si alleassero, sono state proprio due rivoluzioni: mica esistono solo le rivoluzioni di sinistra. E con quanta cautela dovremmo sempre maneggiare la nozione di democrazia: che sarà certo quella cosa tanto imperfetta ma che non c’è nulla di meglio, però guai a stare contenti a questo quia e a non continuare a svelarne gli aspetti e le quote puramente ‘formali’ (quanto agli Stati Uniti, anzitutto). Per lo stesso aggettivo “borghese” che si applica a tanti scrittori moderni, c’è forse da fare qualche riflessione. Una almeno, all’ingrosso. Finché la borghesia ha creduto bene di rappresentare l’umanità intera – a eccezione degli inguaribili, s’intende – ha fatto grandi e decisive rivoluzioni; da quando ha cominciato a credere di essere l’ umanità intera, la sola, alleandosi non più col quarto stato ma eventualmente col secondo, beh, vediamo ancora oggi i risultati. Non posso credere che non ci sia qualche ripercussione di questo scivolo anche in grandi narratori borghesi dell’Ottocento. Tanti anni fa Calvino scrisse un brillante articolo in cui distingueva nettamente fra decadenti “secchi” e “umidi” o viscerali, schierandosi coi primi. Mi trovo anch’io, da sempre, più o meno su questa lunghezza d’onda. Voglio dire in fondo che in queste come in tante altre cose occorrerebbe essere un po’ più illuministi. Tanto per cominciare, non si può pregiare e praticare il razionalismo più rigoroso come studiosi e poi lasciar passare l’irragionevolezza assoluta di Pound o di Céline. Ciò significherebbe fra l’altro scavare un fossato molto più largo e profondo del lecito fra gli statuti dell’arte e quelli della critica. Insomma, certi scrittori di ‘destra’ non li ho mai amati, adesso ancor meno di prima, e anzi guardo con un certo sospetto chi li ama. Più in genere: la sinistra ha fatto benissimo a liberarsi dei suoi settarismi, ma farebbe anche bene a mettere il morso alle sue devozioni per gli scrittori di destra in quanto tali, cioè proprio perché sono di destra e dunque sono tanto più bravi di noi a capire le cose (è proprio così vero?)… La strategia non può essere altra che quella di uno dei Minima moralia: “Uno dei compiti principali di fronte a cui si trova oggi il pensiero, è quello di impiegare tutti gli argomenti reazionari contro la cultura occidentale, al servizio dell’illuminismo progressivo”.

Aggiungo che oggi come oggi io ho qualche maggiore perplessità di fronte al frequente procedimento critico che consiste più o meno nel sostenere: lo scrittore x dal punto di vista etico e ideologico è certo la tal cosa, però a un altro livello non vuol dire

quel che pare ma qualcos’altro, e magari il contrario. Io personalmente mi sono trovato di recente a contestare il vangelo marxista secondo cui Balzac il conservatore sarebbe stato lo spietato pittore della borghesia rampante, e della declinante eppure ancor solida aristocrazia, à son insu, per via del “trionfo del realismo”: io credo invece che sia stato ciò precisamente in quanto era un conservatore – e naturalmente un grandissimo creatore.

Non resisto, perdonami, all’allungare ulteriormente questa risposta accennando a una questione che al presente mi sta molto a cuore. Bisognerebbe credo ricordarsi che la separazione radicale fra arte e morale è un’idea solo moderna, e neppure di tutta la modernità che conta (non lo è ad esempio, salvo errore, del classicismo tedesco). Ne consegue, fra altre cose, una dicotomia fra giudizio estetico e giudizio etico-ideologico che, quanto meno, non può essere spinta troppo oltre. Sempre personalmente, e molto di corsa, ho buttato là l’idea, qualche anno fa, che l’autonomia della sfera estetica sia effettiva e necessaria nel momento della produzione artistica, ma che il lettore e il critico debbano nuovamente far dialogare, se non fondere, i due giudizi. Come tutti sappiamo, questo è stato un punto di teoria e di prassi fondamentale nel marxismo del secolo scorso, con tanti eccessi però anche con una base di verità che mi sembra irrinunciabile. Spingendomi ancora oltre, direi che quella radicale separazione è in fondo della stessa natura di un’altra radicale separazione, cancro della modernità, quella fra politica e morale, o machiavellismo (io sono un appassionato guicciardiniano…). Qui pure si può forse ritenere che il politico, nel suo agire, abbia anche le sue ragioni per agire iuxta sua principia, ma che il critico della politica e il semplice cittadino abbiano il diritto e il dovere di reintrodurre l’altra dimensione. Uno dei detti più memorizzati di Machiavelli, come sai, è quello secondo cui sempre si è visto che “e’ profeti armati vinsono, e e’ disarmati ruinorno”: ma da Cristo e San Francesco a Gandhi e Mandela, quanti profeti disarmati hanno vinto. Prova del resto a rileggere l‟appunto di un comunista ‘morbido’ come Gramsci (subito nel primo dei Quaderni) sull’assoluta divaricazione di politica e morale, e dimmi se oggi si può condividere.

Guarda, non resisto alla tentazione di chiederti qualcosa circa il pensatore che costituisce una sorta di pietra di paragone per questo tipo di discorso: Nietzsche. Maltrattato per tanto tempo come un ‘distruttore della ragione’ e un antesignano del nazismo, è poi diventato un idolo di un certo tipo di pensiero postsessantottesco. Chiunque mettesse l’accento su aspetti detestabilmente classisti e razzisti di Nietzsche veniva bollato come miope e intellettualmente meschino. Cosa è stato per te Nietzsche? Come l’hai ‘attraversato’?

Nietzsche ha contato poco o niente per me un tempo: evidentemente subivo gli stereotipi di sinistra su di lui. Oggi conta molto di più. Certo che ha aspetti ‘detestabili’ (ma mica tanto nelle prime opere), però come critico della società borghese è potente, e per fare un esempio più specifico il suo attacco al cristianesimo è tanto estremo quanto interessante (sto usando un eufemismo); insomma non vedo come si possa eleggere a propri ‘fari’ Marx e Freud e rifiutare indiscriminatamente Nietzsche. Il quale poi è un prosatore formidabile, vetta del grande pensiero saggisticoaforistico, e mi par difficile che quella magnifica prosa non abbia da comunicare delle forti verità. Quasi non occorre precisare che prendo invece ogni distanza dagli storici e attuali “nietzscheani da strapazzo” (come qualcuno li ha chiamati), tipo Jünger. Se vuoi divertirti, vatti a leggere la stroncatura di costui, una delle più belle stroncature che io abbia mai letto, del marito di Hannah Arendt, Heinrich Blücher (sta in una lunga nota dell’Epistolario Broch-Arendt).

Torniamo adesso al tuo lavoro di docente che dopo alcuni anni a Genova si è svolto tutto a Padova. Com‟è cambiata la Facoltà di Lettere di Padova? Non te lo chiedo tanto, e comunque non soltanto, dal punto di vista dei valori intellettuali e professionali in campo, e nemmeno dal punto di vista organizzativo, ma in quanto ambiente di lavoro, di incontro, scambio con altri professori e studiosi, e con gli studenti… Era ed è un ambiente stimolante, vivace, dove si dibatte e ci si confronta? E più in generale l’università può essere ancora un luogo stimolante e vivace per chi lo frequenta? Un luogo di elaborazione di idee? O è stata sostituita da altri ‘luoghi’? O da nessun luogo preciso…?

Tieni conto che oggi come oggi ti parlo da una posizione o sentimento di grande distacco dalla mia Facoltà, il tutto e le sue parti, dunque fai la tara alle mie risposte, che per quel che conta sono in tutto e per tutto negative. Perché questa Facoltà fosse un luogo di elaborazione ecc., bisognerebbe che fosse ancora un luogo, un ambiente, e così non è più, per molte intuibili ragioni oggettive ma anche per colpe di ognuno di noi. Morale, se uno le idee non cerca di elaborarsele da sé, sta fresco. Per conto mio sono contento di frequentare un po’ di più colleghi scienziati che ‘letterati’, sicché se Dio vuole posso imparare qualcosa. Se volessi risolvere tutto con una battuta dovrei rovesciare quella che apre la domanda successiva: “l’università è bella, peccato che ci siano i professori”. Come esempio di decadenza della cultura universitaria attiva e condivisa, te ne posso indicare uno interno al mio Istituto, che pure è intellettualmente e culturalmente di ottimo livello: la bellissima istituzione creata da Folena, il “Circolo filologico linguistico padovano”, con la sua appendice nei Convegni di Bressanone. Per qualche anno dopo la sua scomparsa entrambi si sono mantenuti all’altezza, oggi sono diventati poco più che pura routine, e credo sia molto difficile rianimarli.

Proprio come hai appena ricordato, circola una battuta cinica e inaccettabile, ma a suo modo brillante, di un professore che una volta avrebbe detto: “l’università è bella, peccato che ci siano gli studenti”. Altri professori, meno cinicamente, si lamentano che è impossibile ormai lavorare con gli studenti, perché i livelli medi si sono troppo abbassati. Io prima di tutto ti chiedo: ti è piaciuto e ti piace insegnare e in genere lavorare con gli studenti? E poi: quanto sono cambiati nel corso del tempo, e come è cambiato il rapporto docente/allievo? Infine: vorrei che dicessi la tua sulla questione dell’abbassamento qualitativo: le cose stanno andando davvero così male?

Chi ha detto che non si può più lavorare bene con gli studenti (o meglio: gli studenti con noi)? Chi lo dice non ama insegnare e non amava farlo neppure ‘prima’. Di abbassamento qualitativo assoluto non è proprio il caso di parlare, alla Citati. A me pare piuttosto che di bravi studenti ce ne siano quanti una volta, per lo meno, e che questi possano anche esserlo più dei migliori di un tempo (il numero totale ben maggiore oggi di una volta conterà anche in senso positivo, o no?): solo che si è notevolmente allargato il gap tra i bravi e bravissimi e gli ‘altri’; ma questo non significa che anche con gli ‘altri’, a un diverso livello, non sia  possibile lavorare. Però le difficoltà ci sono, è inutile negarlo. Trovo poi, anche solo giudicando dagli esami, che in quella zona (ma talora anche nella più alta) il deficit, piuttosto o prima che culturale, sia linguistico, espressivo. È sintomatico, direi. E comunque quel gap si capisce bene: dilatazione numerica degli iscritti, loro provenienza da famiglie e ambienti molto più differenziati di una volta (molto spesso assai poco acculturati), ecc. Tutte cose a cui non può più porre rimedio l’Università, se non demagogicamente, ma sì lo potrebbero la scuola elementare e media, se funzionassero.

Questa è una prosecuzione della domanda precedente ma vorrei che tu adesso ti soffermassi soprattutto sugli studenti ‘bravi’ e che ce li descrivessi a grandi linee. Lo so che ogni individuo è diverso dagli altri, e tuttavia ci sono poi alcune tipologie forti, che naturalmente mutano nel corso del tempo. A me pare, per esempio, che negli anni intorno al ’68 questi ‘bravi’, anche quando erano disposti a specializzarsi, avevano un forte senso della ‘totalità’, del mondo, che spesso era loro mediato dalla politica. Per dirla con parole tue, anche il più bravo degli specialisti non poteva non essere un poco ‘filosofo’.
Forse oggi è venuto meno questo pathos della totalità, e prevale una tendenza alla specializzazione anche tra i giovani…
Insomma, com’è un ragazzo bravo e appassionato nel 2000, almeno per l’idea che tu te ne sei fatta?

Convengo che oggi i bravi e bravissimi tecnicamente e culturalmente hanno in media meno pathos della totalità di un tempo – il che però non vuol dire che siano politicamente inerti. E si capisce: perché ci fosse pathos della totalità bisognerebbe che una totalità esistesse, almeno all’orizzonte, il che manifestamente non si dà: la mondializzazione non è una nuova forma di totalità, ma esattamente la sua dispersione e negazione. Mi sembra però che questa ‘perdita’ sia almeno in parte compensata da forme, per esprimermi così, di curiosità diffusa, meno comuni un tempo. Tuttavia, se io fossi riuscito e riuscissi ancora a versare nei miei allievi quel senso o pathos della totalità che paradossalmente continua ad abitarmi, ne sarei molto più contento che dell’insegnar loro un po’ di filologia. Qui devo però fare una critica di fondo a me come studioso (anche come insegnante?): in me il pathos della totalità scade facilmente ad ansia della completezza, che sarebbe bene non avere e non comunicare. Mi hanno riferito che Contini dicesse di me: “… ma vuol dir tutto!”: aveva mille ragioni.

Ancora una coda delle due domande precedenti. Esiste di fatto una scuola-Mengaldo, che tra l’altro, sia pure con i limiti del reclutamento universitario, è ancora feconda, in quanto continuano a uscire da lì nuovi studiosi intelligenti e appassionati. Al di là delle differenze individuali cosa pensi che caratterizzi, o cosa vorresti che caratterizzasse tutti questi allievi usciti dal tuo magistero? O, detto in altre parole, cosa vorresti che fosse continuato di te?

È una domanda un po’ imbarazzante, perciò mi limito a dire che quel che desidero è che i miei allievi siano/diventino il più possibile diversi da me (magari pathos della totalità a parte…) – e anche diversi fra loro. In questo senso il modello dei folenotteri, per merito anzitutto di Folena stesso, è stato straordinario. Il desiderio opposto e abbastanza diffuso, che gli allievi ti ‘continuino’ non nelle grandi linee ma quasi alla lettera, lo considero preoccupantemente anti-pedagogico. Anni fa un’allieva di un mio prestigioso collega mi disse che costui non si decideva a licenziare un suo libro con l’argomento che riteneva pubblicabile, dei suoi allievi, solo quanto avrebbe potuto interamente scrivere lui stesso. Ahi ahi.

Vorrei adesso che tu mi dicessi qualcosa di più sul tuo marxismo di studioso. A me pare che c’è in te poco Gramsci, abbastanza Lukács e molto Adorno, e cioè il più sottile e ‘aristocratico’ tra i marxisti possibili. Da qualche parte tu dici che non ci vedi poi grande differenza tra questi due, il che suona sorprendente. Vuoi spiegarci come li metti insieme? E vuoi fare una specie di bilancio su quanto ha contato l’approccio marxista nei tuoi studi…?

Ma tu credi che io sia veramente uno studioso marxista? Sono sicuro che i marxisti autorizzati, se ne esistono ancora, su questo pensano “no” o al massimo “ni”, e io sono d’accordo con loro. In fondo mi sono sempre limitato a qualche parziale manovra di sfondamento in quella direzione; non ho mai scritto nulla di organicamente ispirato a quella dottrina. Sono stato e sono marxista, e più precisamente comunista, come uomo e come intellettuale, questo sì. Per cui oggi mi sento appartenente a una specie protetta. Ma vorrei fare un passo indietro. Dagli anni cinquanta in poi essere marxista/comunista ha sempre significato vivere in una situazione letteralmente schizofrenica, e se posso dirlo fonte di grande instabilità personale. Perché se t’è arrivato qualche soffio di quel pensiero (e di ciò che l’ha preceduto) non puoi non tenere per fermo che l’unica condizione degna di uomini è la società (cioè il mondo intero) senza classi, senza ricchi e poveri, senza dittature di classe (anche morbide), senza i guasti della divisione del lavoro ecc. ecc.

Ma d’altra parte non hai fatto altro che assistere al fallimento, e non di poco, dei socialismi reali. Non credo neppure che si possa salvare capra e cavoli, e la propria anima, lanciando come uno sputnik quelle proposte, che erano concrete, nel cielo dell’utopia, come ho sentito dire e pensare da molti, anche miei amici (e questa sia anche un’obiezione alla Scuola di Francoforte). Il comunismo-utopia serve sicuramente a tenere svegli sulle magagne del presente, ma a poco altro, e non è molto più fondato della pretesa conservatrice di eternizzare questo presente capitalistico e democratico col contagocce come unica condizione umana possibile.

Tornando ai miei studi. Se c’è poco Gramsci in me, nonostante quella che continuo a considerare la grande fecondità delle sue idee, dev’essere per la buona ragione che non ho mai praticato la storia letteraria e linguistica come mera storia degli intellettuali, dove lui era un genio, mentre lo era meno in fatto di estetica e di critica (troppo Croce, troppa separazione fra giudizio estetico e ideologico e così via). Quando ho scritto il mio libriccino sui maggiori critici letterari del Novecento mi sono trovato, con dispiacere, a doverlo escludere: non è veramente un grande critico. Anche sull’uomo Gramsci mi sento diviso: le Lettere sono tante ammirevolissime cose, ma sono anche di un pedagogismo furioso e insopportabile verso le povere Tatiana e Julia, e temo che quest’eccesso di pedagogismo sia legato a ciò che in politica si chiama eccesso di dirigismo. Ciò confessato, auspico un ritorno di Gramsci alla popolarità presso la sinistra intellettuale, le cui vene ne verrebbero rinsanguate.

Su Lukács mi trovo a pensare tuttora che il ‘secondo’ come critico e storico era almeno altrettanto importante del primo, troppo privilegiato dal sessantotto, dai tedeschi e dai francesi, genialissimo e molto suggestivo senza dubbio, ma anche soggettivistico e non privo di arbitrarietà. Il secondo Lukács al pathos della totalità ha aggiunto quello dell’oggettività, che è l’essenza stessa del vero critico e del vero storico (naturalmente metto fra parentesi le – necessarie? – concessioni allo stalinismo). L’ultimo Lukács generalmente non mi convince, nobiltà politica a parte, ma per questo mi basta rimandare alle critiche del già lukacsiano Cases (l’ ‘uomo’ di Lukács è in fondo un uomointellettuale, il pensatore ammette solo “negazioni determinate” e non quella negazione assoluta che è l’atomica, e oggi potremmo aggiungere il suicidio ecologico, ecc.). Probabilmente l’eccessivo accostamento da parte mia del Lukács  ‘ortodosso’ ad Adorno non è stata molto più che una boutade, per smuovere le acque. So bene quanto sono diversi. Basta ricordare che Adorno pone una poesia (molto bella!) di Mörike al centro del suo grande discorso sulla lirica moderna, mentre per Lukács Mörike era uno dei “nani” che i filistei tedeschi contrapponevano al grande Heine. Vero è magari che entrambi si oppongono, sia pure da sponde diverse, a forme di intelligenza marxista come quelle di Brecht o di Bloch e anche, sì, di Benjamin, in cui la nettezza del pensiero marxista è forse arricchita o forse inquinata da componenti allotrie, anarchismo e cineseria da un parte, ebraismo dall’altra. Io, che sono affascinato dall’ethos e dal modo di pensare ebraici, non posso però non notare, con stupefazione ma anche ammirazione, che sia in Lukács che in Adorno, ebrei, il pensiero ebraico è totalmente ‘superato’ (nel senso hegeliano del termine).

Riprendo la domanda di prima: certo, tu sei uno che ha letto tous les livres, eppure ti chiedo: si può dire che in assoluto il pensatore che ti ha più profondamente influenzato è stato proprio Adorno? È vero? E nel tempo com’è cambiato il tuo rapporto con lui? Puoi dire anche di lui, come qualcuno dice del canto della Callas, che “più passa il tempo e meglio pensa”, oppure a distanza di tempo hai maturato anche significative prese di distanze da lui?

Veramente non sono molto soddisfatto che tu mi recluti senz’altro fra gli adorniti. Mi pare intanto che come ‘filosofante’ mi sopravvaluti. Io non sono niente di più che un dilettante di filosofia. Il che significa almeno due cose: che non ho mai approfondito nulla e che le “influenze” sono state molte e svariate quanto superficiali. Ma non voglio sottrarmi, su Adorno. Io ho letto i Minima moralia, che resta mi pare il suo capolavoro, da ragazzo o poco più, quindi puoi immaginare l’urto, per chi poi desiderava restare all’interno del marxismo ma aveva sazietà delle sue forme scotte (perché io pensavo e penso come lo splendido prefatore dell’edizione italiana, Renato Solmi, che quel pensatore si muove interamente nell’ambito del marxismo). Ed è vero che più passa il tempo più Adorno continua a pensar bene, nonostante tutte le riserve che si possono e che sto per fare – e che mi è capitato di fare anche per iscritto (in particolare al suo saggio sui titoli). Le ultime cose sue che ho letto, il libro su Beethoven e l’epistolario con Mann, sono straordinarie, e il secondo riscaldato (a differenza che nell’interlocutore!) da una carica affettiva che magari non si sospettava. Nota poi che quella formula epigrammatica che un mio amico applicava alla Callas, io l’ho applicata a Contini, cioè uno studioso che ammiro quanto si può e che mi ha toccato molto in profondo, ma di cui credo che occorra riconsiderare alcune delle tesi storico-critiche portanti.

Ma veniamo pure ad Adorno, sul quale ho non poche riserve, non so quanto originarie o quanto maturate nel tempo. Una la puoi collocare a lato di quanto ho suggerito più sopra a proposito dell’utopia. Un’altra è, mi pare ovvio, il fatto che la tesi centrale della Dialettica dell’illuminismo (a naso più sua che di Horkheimer) non è ricevibile se non altro perché salta troppe mediazioni, ed è anche piuttosto pericolosa: il che non toglie che resti un magnifico libro, perché Adorno è di quei pensatori che hanno sempre un po’ ragione anche quando hanno torto; come voleva Lutero, pecca fortiter. Così è difficile entusiasmarsi per la Teoria estetica, pesante e senza quella brillantezza che sembra inseparabile dal modo di pensare e scrivere di Adorno. Fatto sta, se posso portare una testimonianza personale, che quando voglio fondarmi su un’estetica attraente e solida, mi rifaccio quasi sempre alle lezioni del vecchio Hegel o addirittura a quanto la precede in Germania, non all’Estetica di Adorno, e nemmeno a quella, ancor più pesante, di Lukács. Tra l’altro mi sembra che tutti e due abbiano fatto un passo indietro rispetto a Hegel, non riuscendo a conservare veramente quella che è forse la maggior grandezza delle sue lezioni, l’implicazione costante fra teoria e storia delle forme artistiche. Un altro punto: io trovo che l’Adorno critico letterario è divino, grande il ‘sociologo’, ma ho dubbi sostanziosi sul critico musicale, manicheo (Mahler contro Wagner, Schönberg contro Stravinskij ecc.): sarò un riformista borghese ma continuo a pensare che il procedere per bianchi-e-neri sia un difetto abbastanza grave per un critico, che denuncia l’ideologismo. Altre riserve si possono forse riassumere nella splendida definizione che di lui ha dato proprio Lukács, che dunque sapeva anche confezionare epigrammi fulminei: “Grand Hotel Abisso”. Tutto ciò detto, non bisogna dimenticare quanto e come la “teoria critica” ha portato avanti l’orizzonte di riferimento rispetto ai classici del marxismo: a quella società di massa e cultura mediatica, nella fattispecie soprattutto statunitense, che è ancora il luogo in cui viviamo, sempre più anzi. E i Minima moralia rimangono per me il più bel libro di filosofia del Novecento che ho letto: non sarebbe male accentare bello, ma subito precisando, per quanto mi riguarda, che la mia ammirazione non è solo per il superbo stile e per l’uso virtuosistico della dialettica, ma, fra tante altre cose, proprio per il metodo, per quella capacità quasi unica di illuminare questioni generali partendo da un punto apparentemente decentrato, ma che subito si rivela esemplare (pensa per esempio alle pagine sull’estetismo moderno che fanno centro su un luogo per nulla centrale in apparenza di Ibsen).

C’è qualcun altro che ha contato non dico altrettanto ma quasi come Adorno per te? Mi riferisco qui ai pensatori in senso stretto. C’è insomma qualche ‘filosofo’ che ti ha aiutato a vedere il mondo in maniera diversa? Nella tua Antologia personale per esempio c’è anche Freud. Io so quanto lo ammiri e tuttavia apparentemente io non direi che il pensiero freudiano ti ha segnato in profondità, o comunque direi che non ti ha segnato come quello marxista, ma forse sì, nel qual caso preferirei sentirlo dire da te…

Lasciando stare il “quasi”. Ma Hegel, certamente. Io non conosco libro che la dica così lunga su quello che si potrebbe chiamare l’uomo occidentale (moderno) come la Fenomenologia dello spirito – per quello che ne ho capito, s’intende. E Marx, soprattutto nei Manoscritti. Oggi mi entusiasmo per ogni riga che abbia scritto Diderot, già nelle voci sempre magnifiche dell’Enciclopedia (da giovane ho letto di più Voltaire) – e in generale sospetto che quel che resta di marxismo debba ‘retrocedere’ di più verso l’illuminismo; sempre ho trovato a dir poco stimolanti i grandi moralisti francesi. Se posso andare più indietro, e ancora da dilettante, ti dirò che adoro Epicuro (su cui Marx ha fatto la tesi…) e la morale epicurea in tutte le sue versioni moderne da Montaigne a Brecht, quanto detesto la morale stoica, specie senecana, che è una morale dei padroni, antimaterialistica e troppo dimentica della fragilità umana. È vero in un certo senso anche per me ciò che uno studioso francese ha detto acutamente della Francia tutta, che si dibatte sempre fra Montaigne e Pascal. Anche Freud è, senza sistematicità, uno dei miei autori. Ma diciamo, e vorrei che togliessi a questa battuta ogni sospetto di altezzosità, che mi sono servito (qualche volta) di lui, piuttosto che averlo servito. Lo ammiro enormemente, anzi qualcosa di più, nella stessa misura in cui disammiro tanti freudiani, soprattutto francesi. E ho sempre fatta mia la battuta di un mio intelligente collega: “Sono talmente freudiano che non leggo Jung”. Quanto però a essere freudiano a tempo pieno come studioso, non avrei potuto e non credo fosse augurabile: spero non sia un alibi o resistenza, ma io ritengo che sia vietato fare i critici psicanalitici se non si è fatta analisi – ciò che a me per varie ragioni è mancato. Sarebbe un po’ come pretendere di fare i critici ‘sociologici’ avendo sempre vissuto nella classica torre d’avorio, o i critici stilistici senza avere un’approfondita competenza linguistica…

Ne approfitto per porti una domanda sulla psicoanalisi, una domanda deviante ma che mi incuriosisce: cosa pensi della cura sul lettino? E più in generale: pensi che le persone possano modificarsi o che invece i demoni personali e cioè le nevrosi non siano addomesticabili? È una domanda che riguarda in generale la speranza che tutti in fondo coltiviamo di cambiare noi stessi nell’arco della nostra vita, di morire ‘avendoci capito qualcosa’.
Te la faccio anche pensando a una delle obiezioni marxiste alla psicoanalisi: che è illusorio e perfino colpevole voler cambiare l’individuo se prima non si cambia il mondo. Tu cosa ne pensi?

Vedi sopra, ed è una cosa che credo abbia avuto conseguenze molto negative sulla mia vita, perché temo di essere un tipico soggetto da analisi. Mi dibatto ancora in lotte, in niente-di-fatto psicologici e in uno stato generalizzato d’ansia che probabilmente un’analisi avrebbe un po’ addomesticato. In generale anch’io vedo ciò che tutti vedono: neurobiologia e neurofisiologia stanno togliendo e toglieranno sempre più alla terapia analitica il terreno sotto i piedi (Freud d’altronde lo sapeva benissimo), ma ho l’impressione che tutto questo non cambierà un’ette al freudismo come concezione potente dell’uomo e della vita. L’obiezione marxista è un’obiezione seria, niente affatto schematica, anche perché tocca, mi pare, la concezione troppo astratta di “natura umana” generale, non storicamente e ‘geograficamente’ determinata, che un malinteso freudismo può coltivare. Però oggi è reversibile: visto che il cosiddetto mondo non (si) cambia, non è male cominciare da qualche parte, cioè dagli individui.

Una domanda a bruciapelo: la grande scuola storicista non solo marxista ci ha insegnato a leggere i testi situandoli nel loro contesto, storicizzandoli, appunto. Penso per esempio a come Lukács ha acutamente letto il romanzo storico situandolo sullo sfondo della Rivoluzione francese dell’ascesa borghese… C’è però un problema, ingenuo quanto vuoi, ma reale: quei testi nati allora, e cioè reagendo a stimoli e a problemi specifici di quell’epoca, continuano a emozionarci. Perché? Perché i grandi testi letterari non si usurano, o comunque si usurano molto meno degli altri? Perché un testo come l’Iliade, espressione di una cultura arcaica, gerarchica, maschilista, violenta, superstiziosa, ci parla, ci coinvolge, ci affascina? Perché ci immedesimiamo in Achille e in Ettore che per certi aspetti sono come dei marziani per noi? Per spiegarcelo dobbiamo finalmente uscire dalla dimensione storica e ricorrere alla natura umana, e cioè ad alcuni valori ‘eterni’, che trascendono il tempo, le culture, le società? Oppure a che cosa…?

Lasciami dire che l’esigenza di storicizzare non è, per usare uno stereotipo linguistico, negoziabile: tanto più oggi che occorre reagire alla moda rampante delle letture immediate, esistenziali, astoriche. I grandi testi letterari non si usurano: neppure quelli filosofici. Da qualche parte Nietzsche ha detto, magnificamente, che magari si può “superare” la filosofia di Platone, ma mai e poi mai la persona di Platone. In realtà il tuo problema è giustissimo, altro che ingenuo. Alla buona si potrebbe rispondere che l’attualizzazione è tanto inevitabile quanto proficua, perché se un testo non significa qualcosa per me, non significa niente e si scade nel puro godimento dell’erudito, che è un’altra cosa dal piacere dell’esperienza estetico-concettuale. Si potrebbe anche aggiungere, sempre alla buona, che una lettura consapevole di un testo ‘antico’ si equilibra sempre fra attualizzazione e storicizzazione. Ma si può cercare di scavare un po’ di più.

La prima cosa da dire è probabilmente che non è questione di eterna natura umana, ma di lunghe o lunghissime campate storiche e antropologiche. Immagino che una lirica ditirambica sulle gioie del cannibalismo ci lasci freddi, se non terrorizzati, in ogni caso non empatici. Ma soprattutto: la nostra, personale ‘attualizzazione’

non è mai, assolutamente, vergine e nuova, ma che ne siamo coscienti o meno poggia sul millefoglie di attualizzazioni via via costruito dalla nostra cultura, o civiltà. Ora vorrei sostare, con un’incoscienza che mi perdonerai, proprio su Omero. Nel quale, come in ogni opera del passato, ci sono aspetti più e aspetti meno attualizzabili senza troppa fatica. Ettore che torna a Troia e a casa o l’incontro di Achille e Priamo sono del primo tipo, ci interessano e ci parlano immediatamente, voglio dire senza troppe mediazioni culturali (benché queste, come detto, si siano già depositate in noi e comunque aggiungano e precisino sempre).

Ettore e Achille massacratori forse meno (mah, mah). Il continuo intervento degli Dèi infantili e bisbetici meno ancora, e allora credo che noi facciamo un’operazione di secondo grado – che non è ancora però propriamente culturale –, cioè li leggiamo come si legge una favola, o meglio li traduciamo spontaneamente in qualcosa d’altro, che so, psicologizzando quel che psicologico non è ecc. Poi interviene, se interviene, la lettura storico-culturale, che però non credo riuscirà mai a distruggere il fatto che l’incontro di Ettore e Andromaca ci riguarda subito, direttamente e molto da vicino. Non so. So però che quest’ottica si può rovesciare, o correggere: con la risposta alla domanda successiva.

Ancora una domanda su questo tema. Jan Assmann parla di dimensioni “contrappresentistiche” riferendosi ad esperienze come la visione o l’ascolto di opere d’arte appartenenti a un passato anche molto lontano. Si tratta di esperienze che ci sottraggono alla presa totalitaria dell’attualità, che ci emancipano dalla tirannia del presente. Vorrei che tu mi dicessi qualcosa su questo: sui piaceri connessi al riportarsi a esperienze e a modi di vedere il mondo che non sono i nostri; sui piaceri connessi alla sensibilità storica; su quei piaceri che per esempio scattano quando ascoltiamo un canto gregoriano, o quando ci soffermiamo davanti a certi ritratti di uomini e donne che ci guardano da un passato lontano con grande intensità. A volte pare che il solo merito riconosciuto a certi artisti morti da secoli sia quello di essere attuali, e cioè di averci anticipato. Ti chiedo: l’unico modo per entrare in contatto con quei mondi contrappresentistici è forse quello di attualizzarli? E ancora: non ti pare che il gusto o la sensibilità storica (storicistica) siano oggi in crisi? Che sia sempre più difficile per un giovane immaginarsi il passato? Ci si può fare qualcosa?

In parte ho già cercato di rispondere, ma vorrei premere il pedale delle considerazioni affascinanti e più che giuste di Assmann: si potrebbe sostenere che il piacere estetico, come altri piaceri e come il gusto del conoscere, scocca appunto dal contatto col diverso e il lontano da noi – purché non troppo diverso. Poi scatta la messa in relazione con noi, e cioè anche l’attualizzazione ecc. Il diverso e il lontano sono anche sempre una possibilità di noi stessi. Ma bisogna togliersi dalla testa che un autore o un testo del passato siano validi solo se sono ‘attuali’ (così come bisogna avere ogni considerazione per gli epigoni e in genere per coloro che, con grandi qualità, si sono tuttavia trovati al margine dei percorsi vincenti della storia). Io non ho dubbi che il gusto per il diverso e il lontano vada coltivato il più possibile, in noi e nei giovani: che cosa ci porta conoscere solo il simile? Uno dei modi è ridare, lo ripeto, alle discipline storiche la centralità che avevano nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Purtroppo non è l’aria che tira. Ma se non si riesce a strappare i giovani all’idea o meglio sentimento oggi dominanti che solo il contemporaneo è interessante e comprensibile, si perde una battaglia culturale e umana di importanza incalcolabile. La stiamo già perdendo?

Questa domanda è il rovescio della precedente. Qualche volta si ha come l’impressione che tu sia fin troppo “contrappresentistico”, e cioè che trascuri quasi del tutto la cultura cosiddetta popolare che è tipica del nostro tempo. Mi sto riferendo a generi paraletterari tipo il giallo, alla musica leggera, alle canzoni, ai cantanti e cantautori, ai comici, agli imitatori, ai fumetti, ma anche a certa moda, alla radio, a certa televisione, a certo cinema (e cioè non solo ai capolavori conclamati, ma a fenomeni come Totò, Don Camillo e Peppone, a altro ancora…). A volte si ha l’impressione che tutta questa fenomenologia non ti abbia quasi toccato, o ti abbia solo sfiorato. Puoi dirci qualcosa a questo proposito? Puoi farci qualche esempio?

Io ho l’impressione che tu stia esagerando, e che sottovaluti simpaticamente la mia quota-parte di frivolezza, che invece è notevole. Cosa posso dire per convincerti o difendermi? Al cinema frequento volentierissimo gialli, polizieschi e giudiziari (meno nella lettura, perché lì sono troppo spesso macchinosi); rivedo sempre con gusto – come emiliano poi! – Don Camillo e Peppone (Cervi del resto è anche per me il Maigret per eccellenza), e non si dice Totò, specialmente nei suoi film meno ‘stracciati’; adoro grandi ballerini come Fred Astaire e Gene Kelly, per non parlare della stupenda Cyd Charisse; amo e ascolto moltissime canzoni, e non solo le ‘vecchie’ (non però quelle di tanti stolti cantautori italiani); i bravi comici e imitatori fanno ridere a piena gola me come tanti; mi interessano molto i meccanismi dei messaggi pubblicitari, e me ne sono anche occupato da studioso; quasi colpevolmente mi attraggono pure le sfilate di moda. Eccetera, e vedi risposta alla successiva. Che altro? Se vuoi, dichiaro francamente la mia resistenza ai fumetti come genere.

Però… Ci sono dei però. Uno è che fra i fenomeni culturali in senso lato ce ne sono pure di più e di meno, non dico affatto importanti o interessanti, ma divertenti, e che alcuni magari non divertono affatto (me come, rispettivamente, altri). Faccio un esempio evidentemente paradossale ma spero chiaro. Per uno come me che si nutre con quotidiana abbondanza di musica classica, ma anche di jazz e di belle canzoni, è un po’ difficile divertirsi e non annoiarsi/irritarsi con le sciocche parole e l’inconsistente musica di tanti cantautori nostrani: che poi, quando li senti alla radio o in disco, non puoi fare a meno di essere assalito dal pensiero dello spettacolo barbarico e piuttosto spaventevole di masse di urlanti/piangenti che li festeggiano nelle arene. E qui vengo al secondo però. Ho la sensazione che dietro alla tua domanda occhieggi un ragionamento che potrebbe anche essere giudicato un paralogismo, e che mi pare sia press’a poco questo (eccedo, naturalmente): 1. per capire l’attualità è necessario frequentarne le manifestazioni ‘culturali’ medio-basse e ‘popolari’; 2. tu non hai curiosità per queste cose; 3. dunque oltre a essere ‘attardato’ non puoi comprendere l’attualità. Io allora obietterei intanto che oltre alla curiosità estensiva ne esiste una intensiva, che ti spinge ad approfondire ciò che già frequenti anziché frequentare un po’ tutto e che può dare molta soddisfazione, cioè divertimento (più largamente, secondo Schopenhauer, “l’intelletto non è una grandezza estensiva bensì intensiva”). Ma soprattutto obietterei che, per capire o intuire cosa certi fenomeni significano circa ‟attualità‟ o contemporaneità, non occorre davvero frequentarli assiduamente, basta fiutarli o adocchiarli, tanto sono elementari e ripetitivi. Per esempio: io non ho il minimo dubbio che i ‘reality’ siano indizi estremamente, e biecamente, significativi del mondo attuale – posso pensare addirittura che senza quelli non capisco bene neppure la fortuna del berlusconismo. Ma è necessario farsi del male e seguirli diligentemente per farsi un’idea orientativa del che e del come?

Adesso mi viene in mente almeno un caso di tua passione per un ‘genere’ popolare, certo non artistico… Mi sto riferendo al calcio. Ecco, che cosa è stato per te il calcio? Come è cambiato il tuo rapporto con questo sport? In che cosa consiste per te il segreto di un fascino tanto duraturo e planetario?

Confesso il mio grave peccato! Sono ancora tifoso, anche se non sfegatato, del Milan, cioè della squadra di Berlusconi. Ma come si fa? Ho cominciato a ‘tenere’ per quella squadra quando da bambino andavo dai nonni materni a Milano, e vi giocava il mitico trio degli svedesi GRE-NO-LI (al secolo: Gunnar Gren detto “il professore” per la sua eccellenza tecnica; Gunnar Nordhal detto “il pompiere” dal mestiere che faceva in patria, straordinario centravanti; Nils Liedholm detto “il barone” per il suo portamento aristocratico). Più tardi è venuto Rivera, più tardi ancora il terzetto formidabile degli olandesi… Ho pure giocato io stesso a calcio, male, da bambino e ragazzo, poi ancora sui trentacinque anni coi miei ex allievi di Liceo e amici loro. Seguo ancora abbastanza questo sport per televisione, compresi incontri internazionali, ma in genere non faccio il tifo per la nazionale o per squadre italiane (Milan escluso!), al contrario, a meno che non giochino con squadre proprio ostiche. Non mi è mai piaciuto né l’ambiente, né il modo di giocare troppo poco edonistico, meno ancora lo sgradevole nazionalismo che vi si accende intorno, tanto più che è l’unica sfera in cui emerga quel sentimento, qui risibile, di identità nazionale di cui i nostri concittadini sono del tutto privi per il resto. Certo ormai mi manca l’esperienza dello stadio, della condivisione con una folla di un’esperienza ludico-mitica, componente fondamentale del culto “planetario” di questo sport. Da parecchi anni comunque preferisco come sport il tennis, gioco di eleganza, di tecnica raffinata e di grande prontezza di riflessi, splendidamente geometrico; e anche qui, confesso ancora, ho tifato e tifo per alcuni semidèi (prima Pietrangeli, poi Borg, Edberg, oggi Federer), il che purtroppo mi inibisce un godimento sereno. È anche uno sport che ha in comune con altri (pallacanestro, pallavolo…) la rapidità media con cui si arriva al dunque, mentre nel calcio prevale la preparazione, per non parlare dei ‘ritardandi’, e quindi una dose notevole di noia per lo spettatore.

Parliamo adesso di musica. Cos’è per te la musica? Come l’ascolti? Quanto e come è entrata nella tua vita, nel tuo pensiero? Magari, perché no?, anche nel tuo modo di studiare e scrivere…? E poi ne approfitto anche in questo caso per farti un impossibile domandone filosofico. So che per te letteratura, cinema, arte sono forme di conoscenza della realtà. E la musica, l’arte asemantica per eccellenza, lo è anch’essa? Oppure è solo forma? È piacere puro, ineffabile, abbandono psicofisico gratuito? Penso soprattutto qui alla musica strumentale. Detto altrimenti: cosa capiamo meglio di noi e del mondo ascoltando un quartetto di Schubert o una sinfonia di Mahler?

Detto molto in breve, sono purtroppo consapevole che la musica è ciò di cui, a un titolo o a un altro, avrei dovuto occuparmi, a preferenza di tutto. E resta ciò che mi appassiona di più e a cui dedico molto tempo, anche mentre lavoro (per anni ho lavorato quasi sempre ascoltando musica, con effetti certamente nevrotizzanti, da sdoppiamento; oggi separo di più). Inevitabilmente ho anche con la musica un rapporto intellettuale, ma credo di poter dire che prima di tutto la sento carnalmente, è la parola. Tuttavia il mio corredo di nozioni tecniche è molto scarso. Ecco il quadro sommario, dal quale si può dedurre che sono un ricco, ma un ricco frustrato. Voglio dire anche come sia una magra consolazione la circostanza, probabile, che il mio discreto ‘orecchio’ musicale mi abbia reso un discreto percettore dei fenomeni metrici, o più in generale che il tanto ascolto di musica mi abbia fatto più accorto ai valori formali di un testo.

Quanto al “domandone filosofico”, è proprio un domandone. Restiamo appunto sulla musica strumentale, perché per la vocale (pensa, prima che a un’opera, a un Lied tedesco o a una mélodie francese, così spesso basati su poesie sublimi) bisogna pur dire che vi si intrecciano senza coincidere due significati, quello delle parole e quello della musica, quale che sia questo secondo. Ma la musica strumentale è veramente a-semantica? O piuttosto afigurativa, come mi è capitato di proporre? (Segre un po’ diversamente ma giustamente parla di carattere non-informativo della musica, a differenza delle altre arti). Non occorrerebbe ridefinire la nozione di significato o senso visto che tutti abbiamo la percezione che la musica non sia solo forma e bellezza e sensualità ma anche senso, e molto pregnante, e comunque qualcosa che va a toccare zone molto profonde del nostro essere, cui le altre arti non arrivano (penso anzi che i professionisti l’abbiano molto di più dei dilettanti)? O sarà piuttosto un ‘senso’ che un ‘significato’? Una volta che col tipico intellettualismo giovanile chiesi a Luccini, amante della musica e marito di una brava pianista, come bisognava ascoltare e cercar di capire la musica, lui mi rispose semplicemente che bisognava abbandonarsi. Dal punto di vista pedagogico, in quel momento, aveva ragione, però non credo che le cose funzionino così neppure per chi ha un corredo limitato di nozioni tecniche. Ognuno elabora ascoltando un’impressione che sta perlomeno nell’anticamera di un senso, e può anche andar oltre. Ne sono convinto.

In altre occasioni tu hai espresso la tua preferenza per musicisti di area tedesca, come Beethoven, Schubert, Mozart, ma adesso vorrei chiederti qualcosa sul melodramma e specificamente su Verdi, musicista da te amatissimo che per certi aspetti compendia in sé un certo ‘ethos melodrammatico’ molto italiano. Verdi è stato considerato per eccellenza un compositore nazional-popolare, forse l’ultimo caso di grande arte amata e assimilata dal popolo italiano. È un artista che ha aspetti schematici, ‘evidenti’, perfino manichei. Non a caso gli è stato contrapposto Wagner che appare invece come il non plus ultra della sfumatura e dell’estenuazione. Io so che ami entrambi, e che naturalmente uno non esclude l’altro, e tuttavia, chissà, a me pare che il tuo cuore batta più forte per Verdi. Ecco, cosa ci trovi in Verdi, cosa ti emoziona della sua musica, ma vorrei dire delle sue storie, delle sue arie, del suo mondo? Cosa, secondo te, potremmo o dovremmo trovarci? E ancora: è possibile un ascolto non ironico del grande melodramma ottocentesco e cioè un ascolto che empatizzi ‘ingenuamente’ con quelle passioni portate all’estremo…?

Per prima cosa credo di aver imparato da miei amici musicologi come Petrobelli e De Van, e da qualche grande direttore verdiano, che Verdi può essere un musicista altrettanto fine dei più fini, così come è ricchissimo di sfumature e complicatezze psicologiche: il Don Carlo l’ha scritto lui. E quanto a manicheismo, se li confrontiamo a musicisti sublimemente non-manichei e non schematici come Mozart e Schubert, sia Verdi che Wagner sono dei manichei, anche per il fatto che sono autori fortemente ‘ideologici’ (però quale grande narratore o drammaturgo dell’Ottocento non lo è?). Ma nonostante i suoi evidenti tratti conservativi (l’incombenza del padre…) e le conciliazioni di quei suoi magnifici finali che a me piace chiamare catartici, l’ideologia di Verdi mi pare molto più commestibile di quella di Wagner. Il primo non ha mai preteso, a differenza del secondo, di salvare l’umanità con la sua musica, e questo mi pare un gran punto di vantaggio. Non c’è in lui, se Dio vuole, nessun oltreuomo e nessun Erlöser; ci sono invece creature immensamente appassionate che proprio per questo sono sconfitte e muoiono. Diversamente da Wagner, Verdi era un uomo e un autore integralmente laico, e anche questo non è poco. Dico la verità: avendo risentito e visto di recente il Parsifal, non posso che dar pienamente ragione, almeno per quest’opera, a Nietzsche. Tutto questo significa forse che non amo la musica di Wagner? Al contrario, mi appassiona e mi droga come quella di pochissimi altri, nonostante tutte le perplessità sui suoi messaggi. Detto altrimenti, faccio mio il Witz di non ricordo più chi: “Lo detesto in ginocchio”.

Per ovvie ragioni, non posso più sentire Verdi, che invece amo in ginocchio, come musicista nazional-popolare (al modo, che so, di Saba), anche se tale è stato o diventato. E non è facile spiegare le ragioni di un grande amore. Col timore di razionalizzare troppo, provo a dirne qualcuna, in aggiunta a quelle già accennate. Prima di tutto penso che Verdi sia, con Mozart, il più grande musicista teatrale mai comparso (basta pensare, per fare un solo esempio, all’inizio del quarto atto del Trovatore), e per il teatro io ho fin da ragazzo una fortissima attrazione. È stato inoltre un grande musicista politico, cosa che i tedeschi della Verdi-Renaissance hanno capito benissimo, come è stato il vero continuatore di Shakespeare, e non solo nelle opere derivate da lui. È anche, come è ben noto, un musicista di straordinaria concisione, e questo lo considero un pregio altrettanto morale che artistico. E le passioni al calor bianco, e i grandi personaggi femminili nudamente creaturali (nessuno ne ha creati tanti così memorabili, direi necessari), e i grandi concertati, rapinosi nell’esprimere e insieme armonizzare a un livello più alto i conflitti… In aggiunta ai tre che hai nominato all’inizio della tua domanda, e poi a Bach e a Chopin, Verdi è uno dei miei musicisti, fors’anche per una consuetudine appassionata che ha le sue radici nel fervente verdismo di mio padre.

In generale del melodramma ho bisogno come del pane, e dichiaro, per stare in Italia, di essere anche un fervente pucciniano. E dunque per età e formazione sono assolutamente incapace di un ascolto ironico, anzi penso che questo tipo di ascolto decreti né più né meno che la fine del melodramma come forma artistica viva. Il che, con mio grande disappunto, sta forse per avvenire, almeno a giudicare dal fatto che non sembra avere, in genere, più presa sui giovani, a causa anche di una loro diffusa disaffezione per il teatro nel suo complesso. Peccato, non sanno quello che si perdono. Il giorno in cui saranno fuori commercio l’Incoronazione di Poppea, l’Ariodante e le Nozze di Figaro, la Norma, il Trovatore, la Carmen e il Tristano, il Boris e l’Eugenio Onegin, la Bohème e il Cavaliere della rosa (e anche le non poche notevolissime opere del Novecento inoltrato), non sarà – mi permetto di dirlo – un bel giorno.

Io non entrerò nel merito dei tuoi singoli studi e ti farò soltanto alcune domande di ordine generale. La prima: sei cambiato come studioso? Se ti volti indietro riconosci una evoluzione nelle tue ricerche, riconosci passaggi significativi, snodi, rotture? Hai cambiato idea nel corso del tempo su qualche punto essenziale, su qualche autore essenziale? Oppure no, c’è una sostanziale continuità?

Non spetterebbe a me dirlo, ma penso di essere molto cambiato, e francamente credo che una certa dose di irrequietezza almeno nel tempo sia doverosa. Negli studi specialistici forse sono diventato un po’ meno pedante che in gioventù, o è quello che spero. Certamente ho dato sempre più sfogo alla mia connaturata pulsione al dilettantismo, occupandomi con notevole incoscienza anche di cose che poco o nulla hanno a che vedere con le mie competenze specifiche, e continuo a farlo. A volte penso addirittura che sarebbe un bene se, faccio per dire, i germanisti si occupassero loro di letteratura italiana (Cases l’ha fatto da signore), gli italianisti della francese, i critici d’arte di letteratura e viceversa, ecc. ecc. Sarebbe almeno un modo per scuotere tante idee ricevute. Ma poi mi ritraggo se mi torna alla mente la disinvoltura dei tanti Citati di oggi.

Per quel che mi riguarda una svolta dev’essere stata la mia Antologia personale, che è il libro mio che mi piace di più: sono sempre grato a Giulio Bollati di aver pensato che un filologo poteva farlo (forse mi ha dato credito dopo aver letto alcune mie paginette autobiografiche uscite su “Belfagor”). Sei libero di non crederci, ma quel libro l’ho steso in una specie di raptus durato non più di un paio di mesi, toccando con mano molto più che in passato che anche per un critico-narratore esiste qualcosa che si può chiamare ispirazione. Parecchi anni prima, un’altra svolta sarà stata l’Antologia di poeti italiani del Novecento, se non altro perché mi ha costretto a passare da critico militante precario a critico militante a tempo pieno, sebbene, a guardar bene, alla fine mi sia comportato anche lì soprattutto da storico. Però di questo libro oggi sono più insoddisfatto, fosse solo per i disvalori aggiunti che ha sprigionato, primo di tutti l’autentica penitenza di ricevere in media un libro di poetastro al giorno.

Credo che anche i miei ‘gusti’ siano cambiati notevolmente, a partire dai mutamenti o rovesciamenti che condivido con tanti altri della mia generazione, causa il crollo di ‘mode’, ideologiche o altro, diffuse un tempo. Caso tipico: non penso di esser l’unico che non ha più alcun interesse per le narrazioni e i drammi di colui che Fortini ha chiamato spiritosamente l’ “omonimo del grande saggista Jean-Paul Sartre”. Né, per andare per così dire al lato opposto, posso ancora credere che il Gioco delle perle di vetro di Hesse sia veramente un’opera importante del Novecento; e non parliamo di Siddharta, libro di culto di tanti? Anche l’adesione al teatro di Brecht (il lirico resta per me grandissimo) non può più essere quella quasi obbligata di un tempo: ciò che allora ci appariva santa semplificazione marxista e didattica oggi ci appare per tanta parte schematismo (l’Arturo Ui non ci aiuta proprio per nulla a capire il nazismo, anzi ci confonde gravemente le idee); e bisogna pur dire che di questo Adorno e lo stesso Fortini se ne sono accorti presto. Sempre parlando di teatro. Da giovane ho letto e visto molto Ibsen e molto Pirandello: da entrambi, e soprattutto dal secondo, oggi mi sento molto distaccato (i suoi mi paiono quasi sempre falsi problemi avvocateschi). E se i miei americani in gioventù erano Hemingway e, ancor più, Fitzgerald (elegia della giovinezza morente!), oggi senza discussione e alto sopra tutti è Faulkner, accompagnato da Wolfe e da Henry Roth. In generale nella narrativa di lingua inglese, che un tempo amavo quasi in blocco, oggi faccio molte più distinzioni, e tendo a ritrarmi dove annuso snobismo. È anche il caso della Woolf – anzi qualche volta sospetto che le pagine di Mimesis su di lei siano più importanti di lei stessa. Ma in questa zona il caso estremo è James, lo snob degli snob, di cui ho letto molto fra i trenta e i quarant’anni superando volonterosamente gli attacchi di noia e il senso di trovarmi in una camera ad aria compressa, ma che oggi non ho più alcuna voglia di riprendere in mano: lasciamelo dire, con tutta la sua preproustiana raffinatezza, che limiti borghesi di orizzonti, che rimozione di ciò che è veramente una società moderna.

Qualcosa è cambiato anche nei confronti di classici italiani. In particolare: da giovane ho letto per conto mio con grande adesione tutto il Decameron, oggi lo rileggo solo per dovere di studio.

Penso che abbiano lavorato dentro di me da un lato la diminuzione argomentata di Auerbach nel confronto con Dante (il che irritò i boccacciologhi nostrani, ma era una ben giusta prospettiva), dall’altro il parere di Contini che la prosa boccacciana sia, anche per le sue – non preterintenzionali – conseguenze disastrose sugli sviluppi successivi, “la sifilide della prosa italiana” (comunicazione privata a un mio collega). Per prendere infine un’intera categoria stilistica, oggi tendo a ritrarmi o addirittura irritarmi di fronte quasi a ogni scrittura espressionistica, anche se capisco bene quello che diceva Klee, che il vero omaggio alla bellezza sta nel rappresentare i suoi nemici. Che le operazioni anarchico-preziose degli espressionisti siano d’en haut o d’en bas, sono respinto prima di tutto dalla loro pretesa di sottomettere brutalmente e arbitrariamente la lingua, anziché sottomettervisi con umiltà, dalla mancanza di ritegno stilistico e morale, da quelle pseudo-rivoluzioni a tavolino. Per stare a casa nostra, se dovessi rifare la mia Antologia di poesia del ’900, certamente non ci metterei più Boine, e non parliamo di Onofri. E ogni mostra d’arte espressionista tedesca mi lascia ormai, a differenza di un tempo, freddo e quasi vuoto di fronte a quell’eccesso di espressione che diventa quasi un eccesso di dimostrazione. Posso invece indicare una costante? Non sono mai riuscito a correggere nel tempo la mia avversione per ogni neoclassicismo (l’eccezione maggiore è Ingres, ma forse proprio per quanto in lui non è neoclassico). E ci sarà per caso un minimo comun denominatore fra questi due opposti? Non sarà l’eccesso di stilizzazione, rispettivamente in sovraccaricare o in levare?

E poi: come lavori? O meglio: come ti vengono le idee? O meglio ancora: le idee ti vengono prima o dopo i tuoi spogli, le tue schedature? Spitzer diceva che lui leggeva con una attention flottante i testi e poi, ecco, d’improvviso, il clic, e cioè l’illuminazione, e cioè l’individuazione di una figura di stile caratterizzante che poi costituisce una chiave d’accesso all’opera tutta. Succede anche a te, fai anche tu così? È questo in ultima analisi il tuo metodo? E non trovi che ci sia in questo metodo una componente… antimetodica, aristocratica, rabdomantica, artistica più che scientifica? Infine: qualcosa che non può essere insegnato? E mi domando e ti domando: non è possibile che la cosiddetta idea invece non sia altro che la logica e necessaria conclusione di un lavoro rigoroso di spoglio e schedatura dei fenomeni linguistici e stilistici riscontrati in quell’autore? Un punto d’arrivo e non un punto di partenza…

In generale la risposta è quella che dai tu stesso alla fine, o almeno per me quello è il percorso normale: aggiungo solo, cosa ovvia, che di solito sono decisive le idee parziali che vengono durante la schedatura e che uno si appunta, mettendole per così dire da parte, in attesa di vedere se si inseriranno o meno nel tutto.

Ma vorrei difendere anche in questo Spitzer. Il cui itinere andava da una lettura più volte ripetuta al cosiddetto clic e poi di nuovo alla lettura. È un procedimento che significa procurarsi dapprima una sorta di schedatura mentale, poi sottoporre questa e l’intuizione critica insieme a un controllo rigoroso. E dunque nulla di antimetodico né di ‘antiscientifico’. Un buon esempio di antimetodo sono semmai i decostruzionisti, o quelli che straparlano di tutto non a proposito ma alle spalle del testo, o ancora i ‘critici’ che credono di sapere cosa pensavano Goethe o Tolstoj alle ore 17.30 del tal giorno; e puoi aggiungere tu stesso altre categorie.

Però però. Ti racconterò un aneddoto. Molti anni fa mi è capitato di occuparmi su commissione di un autore che non avevo proprio letto (non dirò chi). Bene, non ricordo se in treno o guidando l’automobile mi sono venute del tutto a stato vergine delle idee non generiche ma precise su di lui che poi, al vaglio della lettura, mi si sono rivelate del tutto ragionevoli (nei limiti, s’intende). Non è un episodio così anomalo come può sembrare, ma serve a richiamare la circostanza che nel nostro lavoro l’intuizione ha un’importanza notevolissima – come nelle ‘scienze esatte’ del resto. E non ho paura di affermare che anche in questo lavoro c’è qualcosa che non può essere insegnato: vorrei dire anzi che lo si può insegnare solo se c’è qualcosa che non può essere insegnato ma semplicemente additato.

In un certo senso, correggimi se sbaglio, tutti o quasi i tuoi libri non sono… dei libri. O meglio, non sono stati concepiti come libri. Voglio dire che la tua forma prediletta è stata il saggio, e che i tuoi libri sono spesso raccolte di saggi. Vero è che poi molti tuoi saggi tendono a interpretare l’oggetto studiato non parzialmente ma nel suo totale per fornirne un giudizio storico complessivo. Insomma tendi a chiudere in un saggio tutto quel che hai da dire su un autore. Di qui forse il procedere per scorciature e forte condensazione che si avverte nella tua prosa argomentativa. Sia come sia. Perché hai sempre preferito la forma breve (e densa) a quella lunga? Inoltre, non ti pare che anche hai sempre evitato l’impianto narrativo? I tuoi saggi procedono prima di tutto e soprattutto per spogli serrati miranti a evidenziare alcune costanti e ricorrenze, che poi convergono tutte a disegnare una fisionomia altamente coerente del testo o dello scrittore esaminato. Perché hai sempre evitato la forma narrativa o discorsiva alla Debenedetti? Forse perché la ritieni poco ‘scientifica’? Se lo stile è l’uomo non ti pare che questo stile serrato dica un poco l’uomo Mengaldo?

Una piccola correzione forse utile è che libri o quasi-libri ne ho scritti, ma sempre nel settore storico-linguistico; come critico effettivamente no, con un’eccezione, l’Antologia di poeti del Novecento. Nel mio lavoro di critico la regola è stata effettivamente il saggismo medio-breve. Perché? Tento varie risposte, dato che credo che non ci sia un motivo unico. In primo luogo io penso, proprio penso, che non sia igienico dire in 200 pagine quello che si può benissimo dire in 30 o 40, e di fatto alcuni miei saggi più lunghi se pompati con una maggiore diffusione verbale sarebbero libri. Soggettivamente si tratterà della mia impazienza, o impulso a ‘chiudere’ presto: “Adesso capisco perché tante persone amano spaccare la legna. Perché si vedono subito i risultati” (Einstein). Un po’ più seriamente, credo che ci sia un’implicazione quasi fatale tra il mio modo di scrivere ‘nondiffuso’ e la forma saggistica, e dal punto di vista culturale che abbia contato la mia devozione per i grandi essaystes, per i filosofi-saggisti, frammentari, non sistematici. Conterà anche il fatto che la mia natura di lettore e di critico è fortemente poligamica ovverossia eclettica, al punto che il mio ideale e la mia pratica sono di occuparmi quasi sempre di due o tre argomenti insieme, anche lontani: è anzi una tattica che oserei raccomandare, perché l’esperienza mi suggerisce che questi parallelismi e incroci sono sotterraneamente fecondi di suggestioni, e tanto più aggiungerei quanto meno gli argomenti sono prossimi. So bene che di solito la mia scrittura non si cola in stampi narrativo-discorsivi, ma tende a stringersi e condensarsi, con effetti anche troppo perentori o intimidatori. Di fatto, ho conosciuto, subendone l’influenza, prima critici del tipo di Contini che critici del tipo di Debenedetti (peraltro da me ammirato molto). Devo dire però che il mio tipo prevalente di critica, fondato sulla raccolta, organizzazione e interpretazione di serie di dati linguistico-stilistici, sembra proprio richiedere che si lasci parlare il più possibile quei dati, limitando al minimo indispensabile i commenti: per rispetto del lettore, oltre che dell’autore: questo consiglia concisione. In altri tipi di critica, e certo anche in Debenedetti, il rischio effettivo è che il tuo discorso e il discorso dell’autore s’intreccino e sovrappongano fino al punto di non essere ben distinguibili.

La ‘scientificità’, non so se sia un problema troppo grosso o se sia un falso problema. Bisogna vedere se del sostantivo diamo un’interpretazione debole o una forte. Nel primo caso il nostro discorso critico è, o ci accontentiamo di ritenerlo, ‘scientifico’ se non concede troppo alla mera intuizione e alle associazioni libere, se è svolto con passabile razionalità, se è coerente e fa tornare passabilmente i conti fra dati e interpretazione e fra metodo e applicazione ecc. Ma la questione è diversa se assumiamo il termine nell’accezione delle scienze esatte e sperimentali, con le relative garanzie: falsificabilità, ripetibilità dell’esperimento ecc. In questo caso, si direbbe che nel mio campo la disciplina scientifica per eccellenza sia la filologia testuale: l’esperimento è sempre ripetibile e falsificabile nelle sue parti e nel tutto; e qualcosa del genere vale anche per la critica linguistica e la linguistica tutta. Anche per le conclusioni critiche? O dobbiamo accontentarci che siano passabilmente giuste? Che siano evidenti benché non falsificabili, vere senza esser certe? Quanto il nostro lavoro è fatto di “intuizioni confrontabili” e quanto di “costrutti logici verificabili”? Quanto e come vale anche per questo lavoro il detto wittgensteiniano che ogni spiegazione è un’ipotesi?

Tutto sommato io penso che a questo proposito non si debba alzare troppo la voce e farsi belli di una nozione di ‘scientificità’ che non usiamo poi con rigore. E forse è ancora valida, o indicativa, la pagina dei Quaderni di Gramsci (quad. VIII) contro l’uso ristretto del termine “scientifico” e a favore del fatto che ogni ‘scienza’, anche letteraria, si crea la sua propria scientificità. Del resto il nostro lavoro, quando è più ‘scientifico’, procede più o meno come ha indicato non un logico o un filologo o un linguista ma… Freud (Pulsioni e loro destini, 1915): “Il corretto inizio dell’attività scientifica consiste nella descrizione dei fenomeni, che poi vengono progressivamente raggruppati. Già nel corso della descrizione non si può però fare a meno di applicare, in relazione al materiale dato, determinate idee astratte: le quali provengono da qualche parte e non esclusivamente dalla nuova esperienza… Soltanto in seguito a un’esplorazione piuttosto approfondita di un determinato ambito di fenomeni, diventa effettivamente possibile coglierne con una certa esattezza i concetti critici fondamentali e modificarli progressivamente…”. Lo stesso Freud ha citato più volte una battuta del suo maestro Charcot: che al suo (di Freud) rilievo sull’impossibilità di tale risultato perché in contrasto con la teoria relativa, rispose: “La théorie, c’est bon, mais ça n’empêche pas d’exister”.

Contini, uno dei tuoi modelli, scriveva difficile. Di Fortini, si può dire lo stesso, anche se gli stili erano diversissimi. Longhi a sua volta, un altro critico da te ammiratissimo, scriveva con uno stile iperletterario. Del tuo stile non si può dire che sia difficile, ma che è denso, concentrato, icastico, e che poco concede alla discorsività. Ora, come sai, queste modalità impervie di scrittura sono state spesso rimproverate ai critici letterari italiani. Si chiede loro maggiore chiarezza e, per così dire, affabilità. Si tratta spesso di richieste demagogiche, certo, ma è vero però che mentre in altri campi (penso agli studi storici, sociologici, psicologici…) gli studiosi fanno uso di una lingua media, denotativa, poco figurale, negli studi letterari gli stili sono spesso molto più personali e idiosincratici. Vorrei che prima di tutto dicessi qualcosa sul tuo stile e su come è cambiato nel tempo, se è cambiato. Vorrei poi che ci dicessi qualcosa sugli stili saggistici difficili e in generale sulla questione della chiarezza e della capacità comunicativa della critica. In che senso vale ancora la raccomandazione cartesiana a essere chiari e distinti?
Tenendo anche presente che se esiste un Adorno o un Benjamin esistono anche un (secondo) Lukács e un Auerbach…

Mi è molto difficile rispondere, anzitutto perché sono colto in flagranza di reato e non è il caso di allestire difese d’ufficio. Se non forse che, a quanto mi pare, quando scrivevo su giornali – o ancora oggi in sedi comparabili – ero un po’ meno compresso e un po’ più discorsivo che nelle mie scritture più ‘professionali’. Lo dico anche per ricordare semplicemente che una delle prime cose che si deve considerare a proposito di stile è il tipo di interlocutore o di pubblico cui ci si rivolge: tanto per dire, ci sono perfino delle conferenze di Adorno che sono chiarissime. Ma mi rendo anche conto che l’aver saputo scrivere meno compresso in determinate sedi può comunque suonare giusta accusa verso tutte le volte che non l’ho fatto.

Per il resto non posso che buttar giù qualche appunto o divagazione, o postilla a quanto accennato nella risposta precedente. Direi in primo luogo che bisogna distinguere fra nitidezza concettuale, obbligatoria, e compressione o invece discorsività stilistica: entrambe possono darsi ugualmente in presenza o assenza della prima. E forse la ‘difficoltà’ (e non penso solo alla scrittura) può avere un aspetto democratico, in quanto obbliga di più a pensare e integrare, allo stesso modo che l’eccesso di chiarezza ed esplicazione può averne uno demagogico, in quanto richiede al lettore poco sforzo se addirittura non lo conferma in quello che sa già. Ma questa è evidentemente una provocazione… Richiamerei piuttosto l’attenzione su due circostanze. La prima riguarda direttamente il mio lavoro prevalente: se non sei un saggista generico ma un critico ‘filologico’ non puoi evitare una certa dose di specialismo nei concetti e nella terminologia; ma, aggiungo subito, questo specialismo, se da un lato è una difficoltà in sé o in più, dall’altro è un sicuro freno alle derive del saggismo sfrenato e soggettivistico, ti obbliga all’univocità (in questo: alla chiarezza), ecc. La seconda è che la difficoltà di uno stile dipende a mio avviso, molto più che dalla superbia lessicale o dalle scorciatoie sintattiche, dal numero e dalla qualità dei presupposti culturali che contiene. Si può liberarsene, alleggerirli? A me sembra in concreto che i presupposti culturali di Adorno e di Benjamin siano, non dico certo più rilevanti, ma sicuramente più complicati e intricati di quelli del Lukács medio e di Auerbach. E infine esiste una sicura interdipendenza tra il grado di implicitezza, difficoltà ecc. dello stile critico e l’adozione della forma saggistica intesa nel senso forte, cioè che guarda prima di tutto ai grandi filosofisaggisti, nessuno dei quali, da Pascal a Nietzsche, è mai veramente esplicito. Quella forma comporta, è ovvio dirlo, alcune conseguenze di mentalità e di impianto che a loro volta condizionano lo stile. Tali: una più forte presenza dell’io; una più forte tendenza a esprimersi per formule e aforismi o simili; l’uso intenso, e magari il compiacimento e l’abuso, dell’elemento della contraddizione (Nietzsche: “L’antitesi è la porta stretta per la quale l’errore si insinua più volentieri per giungere alla verità”); in genere la propensione a indicare i propri veri, o anche ad alludervi, mentre altre forme di critica tendono maggiormente all’esplicitazione e alla dimostrazione (al limite si potrebbe dire che l’essayste è tanto più suggestivo e perentorio quanto meno crede di avere il possesso prealabile di una verità assoluta e dimostrabile; ancora Nietzsche: “Spesso la filosofia non è altro che il coraggio di entrare in un labirinto. Chi poi si dimentica anche la porta d’entrata ha buona probabilità di raggiungere la fama di pensatore originale”). Un altro punto può esser questo. Il critico figurativo non solo nella fase descrittiva ma anche in quella valutativa del suo discorso fa appello alle possibilità mimetiche, di ‘traduzione’, di equivalenza diceva Longhi, della lingua nei confronti del diverso linguaggio dell’opera d’arte. Al critico letterario questa possibilità non è evidentemente concessa, o è concessa solo nella forma paradossale del celebre personaggio di Borges che riscrive identico il Don Chisciotte. Tuttavia la pulsione alla mimesi (in senso ora più lato) non è eliminabile neppure per lui, e non basta certo citare il testo come in critica d’arte non basta la riproduzione fotografica, foss’anche perfetta. Allora può avvenire che un critico, se è della mia fattispecie, “mimi” in qualche modo il testo smontandolo analiticamente e nominando accuratamente gli aspetti della sua lingua e tecnica. Ma forse questo non gli appare sufficiente, e allora può essere indotto a esercitare quella specie di mimesi che consiste non col ‘gareggiare’ stilisticamente col testo, che sarebbe grave errore, ma nel cercare di mantenersi il meno sotto possibile al suo livello stilistico. Il che è più facile che avvenga nella critica che sta sul testo che in quella che in un modo o nell’altro parla a proposito del testo, più in quella che sta contenta ad analisi specifiche e autosufficienti che in quella che investe esplicitamente il testo di un metodo o una teoria da dimostrare attraverso di esso. Ora forzo senz’altro la mano. Si può anche ritenere che lo stile critico concentrato, implicito ecc. stia a quello disteso, discorsivo ecc. un po’ come lo stile lirico sta a quello narrativo. Con questo voglio dire che un eccesso di riserve sullo stile critico concentrato non si vede perché non finisca per colpire la legittimità di quello lirico o poetico, di sempre e della modernità in particolare. Né mi si dirà, ingenuamente, che la critica deve ‘spiegare’ ed essere compresa mentre la poesia no. E la poesia, anche la più ardua, ha pur sempre un pubblico di lettori molto più ampio e più stratificato della critica. Dopo di che capisco bene che tutto questo cumulo di ‘spiegazioni’ rientra nella famosa categoria dell’abbondanza che non fa centro. Si tratterà pur sempre di idiosincrasie personali: che, per venire incontro a un tuo cenno, non erano proprio tali fin dall’inizio, ma si sono piuttosto cristallizzate col tempo, e certo col rischio di diventare una cifra.

Adesso mi faccio portavoce di una curiosità che è del nostro comune amico Pierfrancesco Fiorato. Si tratta della più generale questione dello stile. Ecco, secondo te, esiste una ‘moralità’ dello stile o degli stili. Pierfrancesco si riferisce per esempio a un dibattito che si è svolto in Svizzera incentrato proprio su “Lo stile: una questione morale?”. E riporta la battuta di uno dei partecipanti, H. Loetscher, secondo cui “lo stile è garante di responsabilità” e ad esso è affidata la moralità immanente all’opera letteraria… Cosa ne pensi tu a questo proposito?

Credo di capire che è in questione anche lo stile della critica, non solo quello ‘creativo’; in ogni caso io penso che, ancora una volta, i due non possano essere allogati in due diverse categorie. Un po’ come penso che non ci sia alcuna ragione di principio per separare nettamente la creazione letteraria ‘primaria’ da quella creazione di secondo grado che è la traduzione impegnata (e in effetti, quest’ultima non è nella sua essenza ‘critica’, e la critica non è a suo modo ‘traduzione’?). Allora si potrà dire, molto rapidamente, che la moralità dello stile critico starà, dal punto di vista della genesi e del soggetto operante, in ciò che costituisce la moralità di ogni azione non volta al male, cioè nell’esser stata compiuta col massimo di impegno, onestà e rigore di cui quel soggetto è capace. Da quello dell’oggettività del risultato nella sua trasparenza verso le ‘verità’ o ipotesi che intende esprimere e comunicare, nel grado anzi con cui riesce a far tutt’uno con queste (che anche nella creazione artistica non è mai scontato: ripeto, niente “tal contenuto tal forma”). Lo stile (critico) sarà “garante di responsabilità” tanto più quanto più sarà prodotto di una presa di responsabilità, di un lavoro serio. Altro mi sarebbe impossibile dire. Un po’ più nello specifico si può forse prendere il partito della sobrietà stilistica: che di solito comporta sobrietà morale e controllo intellettuale.

Di tutti gli autori da te studiati vorrei soffermarmi solo su uno, qui, su Montale. Per certi aspetti io mi figuro che lui sia stato almeno per un certo periodo il tuo autore. Certo, è un grandissimo, e questo basta e avanza per spiegare il tuo interesse di studioso, ma vorrei che andassimo oltre l’apprezzamento generico, per capire che cosa ha rappresentato per te. Credo che in lui tu apprezzassi la negatività, e cioè la volontà di non compromettersi, una sorta di nucleo etico inattaccabile, la capacità di resistere al ‘mondo’. Tale modo, se vogliamo, spiccava ancor più nell’Italia degli eterni conformismi e trasformismi. Direi poi che forse lui rappresentava anche qualcosa di tutto sommato raro nel contesto nazionale e cioè un approccio ‘grande borghese’, un approccio a cui mi pare tu sia stato sempre sensibile (qui penso anche a un altro autore da te molto amato, Thomas Mann). È così? Ma anche: non è forse cambiato qualcosa nel tuo modo di intendere Montale e quel che lui ha rappresentato?

Mi soffermo volentieri su Montale. Ciò che mi ha sempre affascinato e spesso travolto di lui è certo connesso anche con quella che tu chiami “negatività” e i suoi annessi (la “resistenza” ecc.), ma non è principalmente questo. È anche, si capisce, la sua ricchezza e inventività formale, la sua assoluta padronanza della lingua: lui stesso diceva di essere stato il poeta più musicale del suo tempo, e forse non solo di quello. Ma naturalmente non si tratta di compiacenze estetizzanti o di un abbandono alla musica del testo a scapito del senso come oggi è di moda predicare (vedi in particolare il diseducativo manualetto einaudiano di Enzensberger-Berardinelli). Si tratterà piuttosto di quanto la scoppiettante materia formale comunica vitalità, e questa combatte e di fatto supera il nichilismo: è ciò che sapeva già perfettamente Leopardi. Per la questione “grande borghese” non so, so però di essermi accorto abbastanza per tempo, e averlo scritto, che Montale non era un grande-borghese ‘naturale’, ma un medio borghese che ha sempre inseguito lo status superiore e magari l’ha anche raggiunto per via di potere culturale, snobismo coltivato (dell’uomo, non del poeta quando è grande), ecc.: Mann era altra cosa. E a proposito, l’uomo Montale non mi era affatto simpatico. Credo che quello che mi ha affascinato e travolto nella sua poesia maggiore è la qualità delle invenzioni, dei motivi. Tu dirai: ma se è uno che ha dichiarato di non aver mai inventato nulla – ed è vero. Ma appunto: quello che può essere folgorante in lui è il corto circuito fra un non inventato esistenziale e il potentemente inventato nella rielaborazione mentale e poetica. Prendiamo per un momento il mottetto degli sciacalli, che pure non è fra i suoi più grandi. Lui stesso ci ha fornito l’aneddoto di vita vissuta che ne sta alla base e lo spiega: ma – e per non dir altro – se tu collochi “due sciacalli al guinzaglio” in chiusa assoluta del testo e nella brevitas del settenario, quello non è più solo il fulmine in clausola dell’aneddoto, è un’epifania. E ho sempre pensato che il personaggio di Clizia è molto più importante dei begli endecasillabi e delle rime virtuosistiche del poeta: il che ovviamente non significa che endecasillabi e rime non siano una via di accesso, e non la più disprezzabile, anche a Clizia. Non sarà mica che anche in poesia la cosa più importante sia l’inventio (seguita a ruota dalla dispositio)?

Ammirazione e passione per la poesia di Montale sono rimasti in me a temperatura costante (magari posso precisare che per ragioni generazionali non ho visto subito la superiorità di Occasioni e Bufera sugli Ossi). Ma non per tutto Montale.

L’autore di Satura e delle altre raccolte di vecchiaia può essere ancora a volte un grande poeta – perché è difficile che un grande poeta cessi veramente di esserlo –, però globalmente è un poeta non solo diverso ma minore, e anche molto minore del precedente: lo sostengo in aperta polemica con tanti che pregiano eccessivamente quest’ultimo Montale, in fondo perché è à la page, mentre io non ho mai capito bene perché un uomo-poeta di quel rango, e così potentemente idiosincratico, abbia sentito il bisogno di mettersi à la page, e anche di marciarci, umiliando la sua idiosincrasia ad avversione/conciliazione di piccolo cabotaggio verso il misero presente. Devo fare profonda ammenda: io ho scritto a caldo su Satura un articolo troppo globalmente elogiativo, che è uno dei miei grossi errori critici. Anzi, devo risalire a qualche tempo prima. Nel 1969 mi arriva da Montale il dattiloscritto di Satura accompagnato da un bigliettino in cui mi si chiede di rispondergli semplicemente “sì” o “no”. Bel ricatto, e bello scherzo da prete questo del grande vecchio poeta che costringe un giovane critico suo ammiratore a simili scorciatoie. Naturalmente io ci sono cascato in pieno, e gli ho risposto un bel “sì” con punto esclamativo, solo consigliandogli di togliere tre o quattro poesie. Con meno reverenza o vassallaggio, e più indipendenza e onestà, avrei dovuto dirgli di toglierne venti o trenta, di aspettare per pubblicare una nuova raccolta di averne scritte altre di veramente buone e così via. Ma a quanto pare i miei confrères più anziani che hanno ricevuto lo stesso pacco e la stessa ingiunzione, hanno fatto come me.

Adesso vorrei che mi parlassi un poco di scrittori che hai conosciuto di persona. Rispondendo anche a una domanda naïve: che differenza c’è per te fra l’uomo e l’opera? Una volta ho letto un passaggio di Auden che suona più o meno così: “ho conosciuto i tre più grandi lirici del Novecento e posso dire che erano tre grandi figli di puttana”. In effetti credo che non sempre a una grande opera debba corrispondere un uomo ideale, bravo, buono, coerente, eccetera. Sappiamo che queste incongruenze sono comuni, ma ogni volta che le scopriamo la nostra fede ingenua nella coerenza tra l’uomo e l’opera ne viene scossa. D’altra parte quando invece scorgiamo una coerenza inevitabilmente ce ne rallegriamo. Comunque sia io vorrei solo che ci parlassi di qualche scrittore che hai conosciuto, frequentato, amato o odiato personalmente…

Temo proprio che Auden, almeno in generale e per metafora, avesse ragione (ma chi saranno stati quei tre? Se solo di lingua inglese, congetturerei: Yeats, Pound e con meno sicurezza Eliot: o Dylan Thomas?). A me personalmente il frequente aspetto “figlio di puttana” dà forse meno noia di un altro e forse ancor più frequente: il portar scritto in fronte “poeta”, con ciò che a questo si lega, infantile desio di gloria, irritabilità se non ti considerano il più bravo, invidia dei confratelli e così via. Di quelli che ho conosciuto molti erano affetti o almeno toccati da questa malattia, anche alcuni insospettabili. Diciamo magari che sono superati solo da mogli, vedove, figli di poeti, e in genere letterati, che ne amministrano l’eredità in prestigio e pecunia. Degli altri ne voglio nominare solo due che erano assolutamente privi di quella malattia, Sereni e il grande dialettale Raffaello Baldini (anche Montale, ma lui viaggiava nelle alte sfere). Lo dico con sicurezza perché di entrambi sono stato amico, e più fortemente e decisivamente del primo. Su di lui mi piace passare la parola a queste nobili dichiarazioni di Raboni, che valgono, cambiando quel che c’è da cambiare, anche per me: “Faccio fatica a distinguere quello che Sereni mi ha dato come poeta e quello che mi ha dato come persona. Non c’è stato un tempo in cui Sereni ha agito su di me influenzando quello che avrei fatto: c’è stata una sorta di simbiosi…”. Sereni, per cominciare, non aveva per nulla la faccia da poeta (nemmeno Montale del resto; Luzi sì). E la specularità fra lui uomo e – non la sua ‘figura di poeta’ ma la sua poesia era, fermo restando il mistero di questa, sorprendente e quasi commovente. Qualcosa del genere valeva anche per Bertolucci, che ho pure conosciuto ma più a distanza, uomo delizioso: ma in lui c’era un tratto ‘padrone terriero’ che mi pare stinga un po’ anche sulla sua poesia, qua e là diminuendola. Di tutti gli scrittori e in genere intellettuali miei maggiori che ho conosciuto, Sereni è stato quello di cui sono stato veramente e più profondamente amico. È stata una grande fortuna della mia vita, e ancor oggi ne è il vuoto maggiore, dopo quello di mio padre. Il rapporto con lui, nonostante i ventitré anni che ci separavano, non era affatto del tipo paterno o pater-fraterno/filiale, ma puramente fraterno, cosa quasi incredibile. Anche solo da questo capisci che uomo era. Di lui non vorrei raccontare nulla ora, un po’ perché l’ho già fatto più volte, un po’ perché temo che mi commuoverei. Anche il rapporto con Fortini è stato intenso e importante per me, ma su un piano diverso. L’uomo come si sa era molto difficile, oltre che di un’intelligenza umiliante, attaccava sempre a destra e a sinistra in fondo anche per farsi del male. A me voleva bene, molto anzi a detta di amici comuni, ma questo non gli ha impedito di snudare la lancia contro di me più volte, a voce e per iscritto, a ragione e a torto. Piano piano ho imparato a rispondergli per le rime, e questo ha fortificato il nostro rapporto. Un giorno, pensa un po’, mi ha scritto arrabbiatissimo per una mia recensione a un libro di Calvino, dandomi del calviniano e dunque del traditore, quando quell’articolo era evidentemente limitativo, e proprio della ‘filosofia’ di Calvino. Conservando le categorie di sopra, direi che l’atteggiamento di Fortini verso di me non era paterno (non era assolutamente nato per fare il padre) ma da fratello largamente maggiore che ti vuol bene però ti vuol mettere sempre sulla retta via.

Parliamo un po’ di romanzi. Prima di tutto di quelli italiani. Pongo la questione alla buona: com’è cambiato secondo te il rapporto romanzo/realtà? Per ragioni culturali e linguistiche il romanzo italiano ha avuto qualche difficoltà a rappresentare in modo convincente e, come dire, naturale, persuasivo la realtà.
Credo che si possa dire che ci sono mancati quei romanzi che mettono una comunità nazionale in contatto profondo con se stessa (penso in questo senso alla funzione esercitata da romanzieri come Balzac, Zola, Dickens; ma penso anche alla funzione esercitata in tal senso dal cinema neorealista italiano). Va da sé che non sono mancate le eccezioni, ma mi pare che qui in Italia si sia sviluppata poco la capacità ‘rappresentativa’ del genere per eccellenza realista. È così? E se sì, quali ne sono le ragioni? E più in generale, perché spesso certe nazioni in certe epoche sviluppano un‟arte romanzesca forte, mentre altre nazioni in altre epoche non lo fanno? Perché per esempio la Francia non produce più grandi romanzi mentre ne produce Israele? È solo una questione di genio o possiamo supporre che agisca qualche ‘legge’ di tipo storico-culturale?
Si è detto cento volte: il romanzo è morto. In verità a me pare che no, che continuino a manifestarsi grandi talenti romanzeschi. È così anche per te, no? Te lo chiedo perché so che leggi molti autori stranieri, spesso facendo scoperte e ricavandone intenso piacere. Comunque, ti pare o no che si possa parlare di una maggiore vitalità e ‘potenza’ rappresentativa del genere romanzo rispetto a generi più esili, quali il teatro e la poesia? Non credi insomma che alla fine il romanzo, o comunque la modalità romanzesca, abbia invaso il campo letterario, come accade a certe specie ‘infestanti’, e ridotto gli altri generi a sopravvivere in ‘nicchie’ ecologiche? Se le cose stanno così come lo spieghi?

Rispondo ancora una volta a due domande assieme, e non certo in modo esauriente. A me pare che quello che è morto e sepolto è l’antiromanzo, creatura tipicamente anche se non esclusivamente novecentesca; di sicuro non il romanzo. Mi pare un fatto significativo. Ancora una volta: se il romanzo non è rappresentativo, e diciamo pure realistico, che ci sta a fare? Ma per l’appunto continuano a spuntare ottimi o addirittura eccellenti romanzi di tipo tutto sommato ‘tradizionale’ (anche se iniettati sempre più spesso di ‘saggismo’), e dunque vuol dire che ce n’è bisogno e che si può e si deve scriverne. Certo, in una parte più e meno altrove, cosa che anni fa ho cercato di spiegare con un formuletta piuttosto incosciente e troppo semplice per essere vera: il romanzo vive piuttosto dove c’è una realtà, una società conflittuale (a vario titolo), non dove prevalgono l’omologazione e l’appiattimento. È una formuletta, ma purtroppo non ho ancora trovato di meglio. Serve, almeno in parte, per capire come mai la Francia non produce più da tempo grandi romanzi mentre Israele o il Sudafrica sì? (L’ultimo grande romanzo francese che io ho letto è Belle du Seigneur di Albert Cohen, che non è proprio recentissimo ed è inoltre un libro intensamente ebraico). Ma proprio per la Francia ci vuole subito una precisazione. Anni fa ho potuto toccare con mano che molti dei migliori poeti nuovi di questa nazione, anche quando non di origine magrebina, sono poeti intensamente ‘politici’, a differenza di tanti altri, e degli italiani anzitutto. E allora?

Per l’Italia occorre naturalmente aggiungere altre considerazioni, prima fra tutte quella che scontiamo ancora, con ogni probabilità, i difetti di origine della nostra lingua: che, per ragioni che sarebbe lungo ricapitolare, non è una lingua adatta al realismo della narrazione; ancor meno al realismo del teatro, specie comico, che è vissuto brillantemente quasi solo in grazia dei dialetti. Venendo più propriamente al Novecento, mi chiedo se vi esista un’opera narrativa di grande valore che sia scritta, semplifico, da un capo all’altro in italiano ‘comune’ (forse solo la Tregua di Levi, che però non è un romanzo ‘tipico’; e lo stesso Levi nella Chiave a stella prende significativamente tutt’altra via, mentre in Se non ora, quando? mi pare, anche linguisticamente, un po’ in difficoltà). Ed esiste da noi, come esiste tranquillamente in Francia e Inghilterra, un teatro di conversazione valido? (Si ammetterà che quella di Pirandello è in sostanza una falsa conversazione). Ma è anche vero che, per quel che vedo, il teatro è in crisi dappertutto. Anche perché, ovviamente, nei suoi confronti la concorrenza del cinema è più spietata che verso la narrativa letteraria; tra l’altro i casi di opere cinematografiche che abbiano le ‘dimensioni’ di un grande romanzo o addirittura di un ciclo, e non semplicemente di un racconto o di un romanzo breve, si contano sulle dita di una sola mano: Scene da un matrimonio di Bergman, Heimat, cos’altro? Come che sia, non si può non constatare che la crisi del teatro è cronica e drammaticamente duplice: di pubblico, perché mi par chiaro che i giovani di oggi lo amano assai meno di un tempo; e di produzione, globalmente molto meno significativa che nel Novecento storico, salvo errore (in Italia anche di qualità degli attori, a cominciare dalla dizione).

Ora io posso ben ritenere che, per il secondo punto, qualche via d’uscita esiste; che certe ottime sceneggiature (non quelle per e di Antonioni, per favore!) valgano di più di tante pièces; che il cinema da camera di Bergman sia il legittimo e fascinoso erede di tanto teatro tradizionale. Ma quella che è a grave rischio è l’esperienza dello spazio teatrale, l’interazione lì e ora fra pubblico e attori che incarnano un testo, i momenti di ansia beata nell’attesa che si alzi il sipario…, lo specifico teatrale insomma, una delle grandi invenzioni dell’uomo.

Se il teatro rischia di ridursi a nicchia, non credo sia per la tirannia del romanzo. E quanto alla poesia, non mi pare che siano diminuiti né la sua produzione né il suo consumo, anzi questo si va ‘socializzando’ anche da noi (la qualità richiederebbe, almeno per l’Italia, altro discorso). D’altronde la concorrenza invasiva del romanzo alla poesia data a mio avviso dalle origini stesse del romanzo moderno: la poesia se ne è difesa in vario modo, sia arricchendosi che ‘specializzandosi’, e comunque la sua ragion d’essere e i suoi scopi sono diversi, non meno importanti a mio avviso, di quelli della narrativa, e finché l’individuo potrà e dovrà opporsi alla società, al ‘mondo’, vivrà. Ma su questo credo che potremo tornare.

Vargas Llosa ha scritto che lui ha amato Emma Bovary quasi con la stessa intensità con cui ha amato persone vere. E che qualche volta è stato incerto circa il suo statuto di personaggio di finzione, tanto gli pareva di averla conosciuta intimamente.
Ecco, non voglio sapere quali romanzieri tu abbia amato in particolare. Ti chiedo invece: quali personaggi romanzeschi hai amato intensamente e per tutta la vita? Quali personaggi porti con te? Quali personaggi ti hanno permesso di capire meglio la tua vita, i tuoi amici, le situazioni che hai vissuto? Facci qualche esempio…

Io veramente non riesco a capire come si faccia ad amare Emma Bovary… I personaggi che più amo io, quelli che mi accompagnano per via, quelli che più mi aiutano a capire? Ma per me non c’è alcun dubbio: Tatjana, Akakij Akakjevič, la protagonista di Primo amore di Turgenev, Nataša e Pierre e i due Principi Bolkonskij, la grandissima Anna Karenina, Natàlia Ivanovna, Dmitri Karamazov e Gruščenka, la Signora col cagnolino, Sonia e lo zio Vania e le tre sorelle… Insomma i grandi, creaturali personaggi della “santa” (diceva Tonio Kröger) letteratura russa, quelli che i loro impagabili inventori hanno potentemente formato quasi vegliando sempre fraternamente su di loro.

Ancora una domanda a bruciapelo. Quali sono gli ultimi grandi romanzieri contemporanei che hai amato al pari degli antichi maestri? Se ce ne sono…

Quasi al pari, diciamo, e allora i grandi israeliani, Coetzee, La festa del caprone di Vargas Llosa e forse più di tutti Sebald, per Austerlitz.

Un piccolo break. I viaggi. Quanto mondo c’è dentro di te. Quali paesaggi, quali città hai amato e porti nel cuore?

 Il paese è la Francia, che conosco meglio dell’Italia, la città è Parigi: tipico di un retrogrado come me (mia figlia poco più che piccola mi diceva giustamente: “Papà, come sei antico!” – e anche: “Papà, basta con le tue culture”, al plurale). Parigi me la sogno di notte, come mi sogno Praga, l’altra città che più amo per altri aspetti e in altra dimensione. Veramente sono anche visitato non di rado dal sogno di Mosca, che non ho mai visto, dove mi aggiro frustrato per scrostate periferie staliniane senza riuscire mai a raggiungere il Kremlino (facile da interpretare, immagino). Ho visto certo città e luoghi più sconvolgenti di Parigi, dico New York o l’Alhambra, ma è Parigi che nel cuor mi sta, e non benché ma perché la conosco molto bene. Una frase del Presidente Mitterrand mi ha fatto capire forse perché trovo così affascinante, per nulla affatto povero e monotono, il suo (e un po’ di tutta la Francia) grigio: il grigio, ha detto quel colto politico, è il più bel colore perché contiene tutti i colori. E la Francia: vorrei dire che, ancor più delle sue deliziose cittadine e dei suoi monumenti (l’architettura per me più bella che esista, anzitutto), mi ha sempre affascinato il corpo della Francia, il suo paesaggio femminilmente ondulato ricco d’acque e di boschi, percorribile come nessun altro: la douce France, e mi appare sempre notevole che quel popolo chiami il suo paese, la sua terra, non “cara”, “bella”, “grande”, “santa”, “eterna” o che so io ma “dolce”, fin dai tempi della Chanson de Roland. In Francia, dove ho viaggiato molto più che in qualunque altro paese, mi sento sempre a casa mia, con sensazioni che oscillano fra il sempre nuovo e la riposante conferma del noto. Come è ovvio, è un amore fittamente intriso di ragioni culturali (ma non intellettualistiche!), che vanno dalla predilezione per il cinema francese e per la canzone francese, antica e recente, al senso dell’importanza di quella cultura (letteraria). Io ripeto sempre terroristicamente ai miei allievi che senza francese non si può fare, a nessun livello, gli italianisti, né gli insegnanti di italiano. Effettivamente, cosa si può capire della nostra letteratura delle Origini (ma fino ad Ariosto) e dal Settecento a metà del Nove, senza cultura francese? Del resto neppure della tedesca o di altre. Con la sua abituale nettezza il mio amico Baioni diceva un giorno in mia presenza, e perfettamente, che la francese non è la più grande letteratura, è la letteratura: naturalmente non è questione di vette, ma di densità, di solidità e tenuta del tessuto. Non farmi dire quanti miei colleghi italianisti sono davvero e attivamente consapevoli di queste evidenze. Ma lasciami lamentare il disastro che è l’avviata scomparsa di questa dimensione dal bagaglio culturale dei più.

C’è però un luogo che più di tutti mi ha impressionato: il ghetto di Varsavia, questa città che è quasi un’anticittà. Ma se del vecchio ghetto non c’è più nulla, dirai. Appunto. Tu parti dal monumento agli insorti, ti aggiri straniato fra spazi vuoti e orrende costruzioni del socialismo reale, e tuttavia per strade che conservano i nomi tragici di un tempo; ogni tanto ti imbatti quasi per caso in cippi o che, pochissimo vistosi, come quello sul luogo dove si è suicidato il comandante della rivolta, Mordechai Anielewicz, alla fine sbocchi nella stazioncina, ricostruita, da cui partivano i disgraziati per Treblinka, con un pezzo conservato della rotaia di allora – ma nessuna vera traccia della Umschlagplatz, il luogo di raccolta. La scarsità di appigli alla memoria è paradossalmente una pressione potente sulla memoria.

C’è dappertutto un vuoto, un deserto, un silenzio che rimandano in modo quasi insopportabile al totale annientamento ma anche al brulicante pieno di una volta. Hanno fatto bene i polacchi (se l’hanno fatto per questo) a non ricostruire uguale, diversamente da come hanno deciso di fare per il vecchio centro e altri luoghi di Varsavia.

E adesso la pittura, e cioè un’altra tua grande passione. Ancora una volta qui non posso che essere generico, e mi dispiace proprio. Comunque sia mi interessa capire il tuo rapporto con le opere d’arte come esperienza vissuta. Mi interessa capire il posto che ha avuto l’arte pittorica nella tua biografia. Se vogliamo, mi interessa capire il senso di un amore.
Cosa hai cercato e trovato nei quadri? Io, chissà perché, mi immagino soprattutto i piaceri della mimesi. Cerco di spiegarmi: alludo alla mimesi in senso auerbachiano in quanto credo che la grande arte pittorica occidentale sia stata potentemente informata dal pathos della realtà, o anzi della creaturalità (mi viene irresistibilmente alla mente Rembrandt…). D’altra parte, si potrebbe anche fare gli avvocati del diavolo, e supporre che ad attrarti nei dipinti fossero e siano i valori asemantici della visione pura, e cioè i piaceri del colore, del disegno, della materia pittorica… Quest’ultima possibilità spiegherebbe tra l’altro anche il tuo amore per il Monet più informale e materico (ma anche in quest’ultimo caso poi tu dici che le sue ninfee sono comunque l’esito di “una dedizione infinita alla realtà”)? Ma ti ripeto, le mie sono solo suggestioni alla buona. Facci capire un po’ il tuo rapporto con la pittura, magari soffermandoti su un autore o anche su un’opera specifica a te cara…

Mi permetterei di precisare che per me contano molto anche la scultura – sento anch’io che è difficile provare emozioni estetiche e umane più forti che davanti a Fidia o a Donatello – e l’architettura, con un debole speciale per la romanica (dopo la quale uso dire non tanto per scherzo che comincia la decadenza dell’architettura). Ma restiamo pure alla pittura.
Per la quale credo che dovrei dire lo stesso che per la musica, cioè che la mia ‘passione’ è insieme intellettuale e sensuale.
Intellettuale per esempio perché finisco sempre per interessarmi molto a questioni di attribuzione, di sviluppo interno di un artista, di rapporti fra pittori (mettiamo quelli fra Matisse e Picasso squadernati in una stupenda mostra di Parigi, qualche anno fa).
Sensuale perché… temo di dover ripetere quello che già mi è capitato di scrivere: un bel quadro mi vien voglia di mangiarlo, proprio così. Tu chiami in causa la mia predilezione per il Monet tardo, cui si aggiunge quella, certo minore, per l’informale e il materico che stanno un po’ sulla sua linea. È però difficile dire se quella matericità monettiana sia piuttosto un’introiezione, e distruzione in quanto tale, della realtà entro le libere possibilità della spatola, o invece un’estrema dedizione ancora alla realtà, non più nella sua apparenza fenomenica ma in qualche modo nella sua essenza fermentante. Per quanto mi riguarda, comunque, credo effettivamente che prevalga il gusto per la mimesi, e il mio luogo pittorico d’elezione è il grande Seicento caravaggesco e ‘realistico’, Vermeer, Rembrandt ma sopra a tutti Velázquez, che anche per me è “il pittore dei pittori” (nel duplice senso dell’espressione). E allora dovrei soffermarmi su quello che mi continua ad apparire il più gran quadro che esista, e, lo ripeto, il più ‘intelligente’: Las Meninas: ma ho già provato a dirne qualcosa anni fa, e meglio di me ne hanno detto altri, come Karl Justi o Foucault. Volendo poi retrocedere a un’epoca non meno grande, il Quattro-Cinquecento italiano ed europeo, allora citerei, d’acchito, la Pietà di Rogier van der Weiden al Prado (è in assoluto uno dei pittori che amo di più), il Battesimo di Cristo del Bellini a Vicenza, Santa Corona, il ritratto del giovane con le rose sfogliate del Lotto (Venezia, Accademia), quello di Carlo Quinto di Tiziano, sempre al Prado (che senso della solitudine del tetro potente sopra il sangue delle vite che ha distrutte!), la Scuola d’Atene di Raffaello, il dipinto più ‘umanista’ del mondo.

Se non mi fermo in particolare su nessuna opera è anche per segnalare di passata che per l’arte figurativa come per tutto il resto io sono convintamente poligamo o politeista. Questo mi vale per i secoli passati così come per il Nove. Non solo amo Matisse o Klee quanto Picasso se non più, ma per esempio mi trovo ad essere conquistato, parimenti e nello stesso tempo, da Pollock o da Burri e dal grande realista ‘fotografico’ (o cinematografico) americano Hopper. Non so cosa farci, è così.

 E veniamo ora alla poesia e cioè alla lirica, visto che la grande poesia novecentesca ha assunto soprattutto quella forma. Per te la poesia italiana del secolo appena trascorso è stata grande, degna di confrontarsi con altre grandi tradizioni nazionali, e comunque più significativa del coevo romanzo italiano. Secondo te, perché? Perché siamo stati più capaci di rappresentare ed esprimere l’interiorità, la soggettività di io solitari piuttosto che la dimensione intersoggettiva, epica che è propria del romanzo? Un’altra domanda ingenua. Mentre non è difficile dire perché vale la pena di leggere romanzi (per conoscere e ‘imparare’ altra gente, altre storie, altri mondi…), cosa diresti tu a un ragazzo per invogliarlo a leggere poesia moderna? Qual è il bello della poesia? Cosa ‘impariamo’ leggendo Montale e Zanzotto, o Yeats e Benn?

Rispondo anche ora a due domande successive. Secondo me la stretta a pugno della poesia in lirica è un fenomeno accentuato nel Novecento ma proprio della modernità in genere. E resta probabilmente vero che nel complesso la lirica italiana del Novecento è più importante della narrativa contemporanea (è anche vero che non solo noi ma noi più di altri abbiamo coltivato quell’intermedio dolciastro che è la cosiddetta “prosa poetica” o “d’arte”). Oggi però sarei portato a pensare che la narrativa italiana del secolo scorso è un po‟ più notevole di quanto si può credere sulle prime, nelle misure ampie e nelle brevi: non so quanti racconti stranieri siano superiori al Ricordo della basca di Delfini o a Casa d’altri di D’Arzo. Molti narratori italiani del Novecento hanno il solo difetto di essere… italiani, cioè mal traducibili o comunque poco noti semplicemente in quanto italiani. Nel secondo Novecento, quanti narratori stranieri sono della stessa o di maggiore stazza della Morante, di Levi, di Fenoglio? Ma negli ultimi decenni siamo, mi pare, meno presentabili…

Per la seconda questione, passami il truismo: il bello della (bella) poesia è la sua bellezza. Ma non mi voglio sottrarre a qualche azzardo d’ordine generale, peraltro fondato sui miei classici. Credo anch’io che ci siano due modalità capitali, per la letteratura moderna, di rapportarsi al mondo. Quello, magnifico, della narrativa che si fonda – nel senso migliore – su un venire a patti col mondo, la realtà, la società – e non si può rappresentare a tutto campo se non si viene a patti (forse si può aggiungere che, se è vero come è vero che il romanzo moderno è il prodotto tipico della borghesia vincente, allora su questa forma stingerà anche il gesto borghese di dominio). L’altro, opposto, della lirica che si nutre anch’essa di realtà (anzi per Benn il poeta è “un grande realista”), ma non viene a patti con questa, le si pone come antagonistica in nome della verità e irriducibilità individuale. Schiller, col genio che aveva in questo campo, ha scritto (parafraso malamente) che non è la tragedia ma la commedia che ontologicamente disegna il profilo di un mondo migliore e lì, quando sarà, starà più di casa. Andando sulla falsariga di questo giudizio, si può forse dire che la lirica ha potenzialità oppositive, o se preferisci anarchiche, che la narrativa in genere non ha, e anche per questo guarda sì di traverso, ma guarda di più, utopicamente, a un mondo migliore (so bene che in una terribile dialettica, o forse ossimoro, questa opposizione utopistica è inscindibile dal peccaminoso ritrarsi dell’individuo nella sua mera e separata singolarità, che invece il narratore trascende). Altra cosa. È evidente che l’opera di formalizzazione è più stretta e cogente nella grande lirica che nella migliore narrativa (che, diceva benissimo Gigi Baldacci, “vive di stati tiepidi”). Ora Schiller e altri classici e i loro eredi novecenteschi, anche italiani, ci hanno insegnato che la formalizzazione poetica non riguarda la pura sfera estetica, ma allude appunto, o è omologa, alla ‘forma’ che potrebbe prendere l’umanità in un mondo migliore – nel momento stesso che deve acciecarsi, anche colpevolmente, nei confronti del mondo presente.

Ma adesso vorrei farti una domanda più generale sulla lirica novecentesca. Prendiamo un poeta da te molto amato: Paul Celan. Ecco, secondo te, si può andare ‘oltre’ Paul Celan? Oppure si deve constatare che quella strada è un senso vietato, e che si deve tornare indietro? Ma allora come e verso dove? Mi spiego meglio: certi grandi lirici moderni a partire già da Mallarmé sono oscuri. La loro oscurità è potentemente evocativa ma resta oscurità. Certo, ci sono anche i poeti narrativi, che tendono quasi alla prosa, ma a me pare che la tendenza fondamentale sia l’altro, quella lirica, quella rappresentata da Wallace Stevens, Trakl, Benn, Vallejo, Pound, Montale, Zanzotto, Achmatova, Mandel’štam… Ti chiedo: esiste un futuro per la poesia, per questa poesia? Per spiegarmi faccio l’esempio della musica. Certo, dopo Schönberg Berg Webern si è continuato a fare musica, anche bellissima, ma direi che è venuta meno la capacità comunicativa della musica, in definitiva è venuto meno il pubblico. E questo non è solo un problema pratico, di successi e riscontri, di quantità di copie vendute o di repliche di concerti. Il problema è che ogni discorso ha bisogno di un interlocutore, di un feedback, di qualcuno che ascolta e reagisce. La forza del romanzo, per esempio, consiste anche e proprio nell’avere un suo pubblico che risponde, che reagisce, che si costituisce dunque come misura oggettiva della sua forza espressiva e cognitiva. E non è solo una questione di numeri.
Kafka resta un autore impervio ma si è imposto e ha imposto un certo tipo di visione perché i buoni lettori comuni ne sono stati colpiti e hanno appunto reagito. E direi che questo vale anche per certa pittura; penso qui a pittori come Bacon o Freud, che sono pittori dotati ancora di una fortissima capacità di rappresentazione e perciò di comunicazione. Si direbbe invece che i musicisti e i poeti scrivano per gli specialisti, tendenzialmente per altri musicisti e poeti. Se le cose stanno così, non ti pare che la poesia (e la musica) si siano cacciati in un cul-de-sac? Credi possibile per esse tornare a forme più comunicative (certi esempi di ritorno alla musica tonale non fanno ben sperare…). Che futuro vedi per la poesia?

Sempre più difficile. Come mi offri su un piatto d’argento, conviene partire dalla musica. Io per primo resto preoccupatissimo della frattura col pubblico consumata dalla musica colta moderna più tipica o avanzata, cioè già dalla dodecafonia. È un processo altrettanto interessante e nobile e forse necessario nella genesi e nelle motivazioni quanto, culturalmente, catastrofico nelle conseguenze. Lo registro quotidianamente su me stesso. Io ho l’abitudine di ascoltare musica (non necessariamente ‘classica’) alla sera a letto prima di dormire. È molto molto difficile che mi venga voglia di infilare nel walkman un pezzo dei dodecafonici e meno ancora dei loro successori più d’avanguardia, mentre lo faccio tranquillamente con altri musicisti del Nove meno ‘avanzati’ (in particolare Šostakovič, che ho quasi ‘scoperto’ un vent’anni fa e per il quale, almeno nella musica da camera, ho un vero debole). Non si può pretendere che il ‘pubblico’ stia sempre al gioco degli sperimentatori, i quali vorrebbero che si godessero i loro esperimenti in quanto tali e non per i loro risultati partecipabili. E d’altra parte scontiamo pure il terrorismo monocolo di Adorno, adorniani e avanguardie musicali e criticomusicali: se costoro avessero convenuto che il sunnominato o Janáček o Britten o anche il vecchio Strauss sono musicisti altrettanto importanti e ‘moderni’ dei loro pupilli, probabilmente staremmo meno in guardia verso questi.

Ma è pur vero che la musica moderna ha potuto sperimentare e rompere col passato molto più a fondo delle altre arti perché quello della musica è un linguaggio totalmente convenzionale, ‘motivato’ solo dalla consuetudine. Convenzionale è anche il linguaggio pittorico, ma la pittura ha appunto delle potenzialità e una tradizione mimetico-rappresentative da cui è impossibile che si scuota del tutto: si può dire che anche il quadro più ‘astratto’ conserva sempre, almeno come allusione, qualcosa di figurativo (a volte, come già in Klee, questo nesso è indicato dal titolo).

Tuttavia resta che, per me, un figurativo come Freud ha qualcosa non solo di epigonico (della “Nuova Oggettività”) ma vorrei dire di ‘residuale’, mentre Bacon, che è di un’altra classe, tuttavia mi conquista più a piccole dosi che a grandi: c’è un po’ una deformazione ripetitiva. E certo Kafka “si è imposto ecc.”, ma intanto non è, stilisticamente, un avanguardista o uno sperimentatore, e poi, a che prezzo è diventato ‘popolare’? Lo si intuisce già dall’uso banalizzato dell’aggettivo “kafkiano”: principalmente a prezzo di una rimozione quasi totale del suo ebraismo, che non è poco.

Comunque non mi sembra che la lirica, Celan compreso, si sia cacciata nello stesso cul-de-sac della musica più ‘moderna’, o anche di certa arte figurativa. Semplicemente perché non è possibile. A costo di cadere in una banalità, dobbiamo ricordarci che il linguaggio della poesia (della letteratura in genere) non è convenzionale, è la lingua e cioè in ultima analisi la lingua di tutti – di tutta una comunità, e si può convenzionalizzare solo fino a un certo punto. Né tutte le ‘oscurità’ liriche sono uguali. C’è quella intellettualistica o addirittura culturalistica di Mallarmé, ma anche di Rilke, di Pound o di Zanzotto, c’è quella tutta diversa di Celan o già di Trakl, ce ne sono altre. Per la linea che qui interessa, l’oscurità consiste nel non voler spiattellare la genesi esistenziale dei propri testi ma nell’offrirti il puro frutto della sua fulminea ruminazione, se posso usare l’ossimoro. Avviene allora che tutte le volte che noi possiamo essere informati di quelle circostanze o contesto esistenziali, comprendiamo meglio quel testo, che non è più così ‘oscuro’. È accaduto con Montale, accade per quel che ne so anche con Celan (io stesso ho potuto constatarlo per le liriche nate dal suo soggiorno in Israele). Non nego che gli effetti della ‘lirica moderna’ siano puramente, spesso potentemente, suggestivi, anzi programmati in questo senso (anche per una sorta di concorrenza con le altre arti moderne, musica soprattutto); ma il tasso di programmazione mi sembra molto variabile da autore ad autore, anche fra i più introversi e ‘difficili’, e per esempio a Montale è del tutto estraneo.

Alla domanda se si possa andare oltre Celan, mi viene da rispondere che oltre si è già andati, e largamente, già prima di lui, no? E ora come ora penso si debba dare licenza ai poeti sia di ‘tornare indietro’ – moltissimi e anche ottimi l’hanno fatto – sia di percorrere altre strade altrettanto rischiose ma parallele che si incontreranno con quella di Celan non sappiamo dove. Per fatto personale devo poi dichiarare che i poeti del Novecento che prediligo non stanno affatto sulla linea che porta a Celan: sono soprattutto il limpido-profondo sapienziale Machado e l’infinito affabulatore Apollinaire; anche Benn, uno dei giganti della poesia moderna, non è propriamente oscuro, o almeno non nel senso di Celan o già anche di Rilke. E non parliamo di Montale o di grandi di lingua inglese come Hardy e Auden… Storicamente poi è sempre da vedere se e quanto della cosiddetta oscurità moderna consegua allo scatenamento metaforico, figurale dei grandi poeti romantici (Hugo, Shelley…): in questo caso, abbiamo proprio noi in casa un’ottima alternativa, il non-metaforico, sobrio e illuminista Leopardi.

A mio modo di vedere uno dei tuoi saggi più belli è quello che hai dedicato a Calvino. Nemmeno io considero Calvino un romanziere grandissimo (Elsa Morante, per esempio, gli è certo superiore, come romanziere), eppure a me pare che lui sia una specie di pietra di paragone per capire il nostro secondo Novecento. Mi pare per esempio interessante il suo partito preso di razionalità e sobrietà, così poco italiano, in definitiva. Ma considerevole è stato anche il suo tentativo di trovare una lingua italiana moderna, chiara, esatta, elegante. Ora, il tuo atteggiamento rispetto a Calvino mi pare ambivalente, vi si mescola l’ammirazione ma anche la distanza. Se è così vuoi spiegarci perché? E visto che ci siamo: è esistita davvero una dicotomia tra Calvino e Pasolini su cui anche recentemente si è molto dibattuto? Ed essa è davvero fondamentale per comprendere la letteratura italiana del secondo Novecento?

Non credo che quello su Calvino sia uno dei miei saggi migliori: globalmente, l’ho un po’ sopravvalutato. Oggi la mia ammirazione per lui come scrittore ma anche come intellettuale è diminuita di tanto di quanto l’adesione al suo illuminismo e alla sua limpidezza sono controbilanciate dal sospetto verso il suo manierismo, le sue sperimentazioni molto di testa e il suo pensiero piuttosto unidimensionale e non-dialettico. Quanto alla forcella Calvino Pasolini, per me è presto detto: trattasi di una spiritosa invenzione (espressione goldoniana che significa ‘bugia’), e non perché i due non siano effettivamente ai poli opposti, solo che bisognerebbe cercar di capire le rispettive ragioni anziché ‘tenere’ come bambini per l’uno o per l’altro (quel che fa l’inventrice o propagatrice della dicotomia). E poi tu sai che io stimo Pasolini un grande saggista (anche quando sbaglia) ma un narratore e un poeta meno importante assai di ciò che ritengano i più, e fonte di non pochi equivoci stilistici. Dunque è una dicotomia che non spiega nulla. E anzitutto per il fatto che i poli non sono due ma molti, come tu stesso mi suggerisci. Stando solo alla forza narrativa, non solo la Morante, ma Levi e Fenoglio e forse altri sono, visibilmente, scrittori più importanti, trascinanti e densi, a geometria curva, rispetto ai due in questione, più limitati e a geometria piana.

Calvino e Pasolini… ma potrei aggiungere Fortini, Moravia, Cases, e altri, molti altri… Avendoli nominati non posso che tirare in ballo la questione degli intellettuali in Italia, e forse non solo in Italia. Il concetto di “intellettuale” è nato in Francia durante l’affare Dreyfus, quando scrittori come Zola hanno lasciato le “sudate carte”, e dunque i rispettivi specialismi, e si sono appassionatamente impegnati e esposti nelle grandi questioni politiche nazionali, diventando figure di riferimento dell’opinione pubblica. Nel Novecento molto ha contato questa figura, e cioè la figura di qualcuno che pensa problematicamente il mondo, che scrive sui giornali, che dice la sua sulla società, che critica i costumi, che al limite si costituisce a coscienza critica della nazione. Forse il caso più emblematico è stato quello di Sartre… Se appunto mi rifaccio alle polemiche tra Calvino e Pasolini penso a questo tipo di intellettuale militante che adesso, mi pare, non c’è più. È un bene o un male che non ci sia più? Possiamo dire che anche tu puoi essere fatto rientrare in questa tipologia di intellettuale militante novecentesco oppure credi di essertene differenziato? Hai una tua idea di cosa dovrebbe significare essere un intellettuale oggi? Cos’è rimasto di quella figura, se qualcosa è rimasto?

Per il punto iniziale, la risposta me la suggerisci tu stesso. Se l’opposizione o distanza non è solo fra due modalità artistiche ma fra due posizioni intellettuali complessive, beh allora il policentrismo è forse ancora più evidente: Fortini, per fare un caso che mi è più noto, è stato anti-calviniano quanto anti-pasoliniano, simpatie umane a parte. A me fa sempre un curioso effetto vedere l’assoluta centralità intellettuale che tanti assegnano a Pasolini, e anche vedere il posto dato a Calvino nell’ultimo volume delle Opere Einaudi di Asor Rosa, solo meno scandaloso di quello concesso nel precedente a Sibilla Aleramo.

La questione che tu poni dell’intellettuale militante è roba da sudato saggio, non da risposta rapida e alla buona. Ultimamente si è visto spesso una sorta di rovesciamento, e non solo in Italia, dell’itinerario che una volta trasformava lo scrittore in intellettuale a tutto campo, nel senso che tanti intellettuali di vario tipo si convertono, più o meno costantemente e con alterni risultati, in scrittori. Che sia anche un indizio di malessere degli intellettuali? Cosa che anch’io vedo bene, e che mi pare legata almeno alla cosiddetta, ma reale, crisi delle ideologie e forse ancor più alla frantumazione e decentramento dei luoghi di produzione della cultura propri – nel bene o nel male? – della società odierna, e certo o particolarmente anche di quella italiana. È probabile che la scomparsa o quasi del grande intellettuale, sostituito da Alberoni o da altri editorialisti del “Corriere” e di “Repubblica”, o se vuoi anche da Fo, non sia un bene, perché coloro, se pensano, pensano molto in piccolo. Tuttavia mi viene qualche dubbio sul fatto che la vecchia figura dell’intellettuale-guida, “coscienza della nazione”, sia sempre stata positiva, se non altro perché rischiava di impedire agli altri di pensare e comunque era anche il prodotto di una scarsa diffusione della cultura e dello stesso interesse politico. Sartre, visto che accenni a lui, con la sua dittatura politicamente molto discutibile e il suo codazzo di adoratori, ha soffocato molte voci diverse dalla sua ma almeno altrettanto importanti. E quanto a Croce da noi… Insomma, oggi come oggi mi pare difficile schierarsi senz’altro a favore di una militanza concentrata o invece diffusa. Il guaio è che forse non c’è neppure questa seconda, e che quello che prevale è comunque il navigare beatamente in tutte le sedi e sedine che offre la civiltà di massa e sgretolata, accettandola così com’è. Quanto al sottoscritto, sono forse uno specialista che si sforza ancora di mantenere qualche connotato dell’intellettuale militante, ma con pochissimo e sempre meno palpabile riscontro nel paese dei Baricco.

Qualche domanda sull’altra tua specialità: la storia della lingua italiana. Oggi possiamo dire che finalmente tutti parlano l’italiano, da una parte e dall’altra della penisola. L’unità linguistica è cosa fatta! Qualcuno però dice che la nostra è una lingua che ha una limitata “speranza di vita” e molti sostengono che “l’italiano si sta perdendo”, che la gente lo parla e lo scrive male, che stiamo diventando succubi dell’inglese, o di un pidgin internazionale. Non ti chiedo di darmi risposte troppo dettagliate, ma mi piacerebbe sentire che idea generale ti sei fatto a questo proposito. A costo magari di essere un po’ impressionistico. Insomma, ti pare che l’italiano sia ancora una lingua viva, ricca, capace di adattarsi al presente e di rappresentarlo, senza però perdere una sua identità e specificità? Ti pare che sia capace di accogliere e metabolizzare stimoli provenienti da varie classi e ambiti culturali e professionali?

Non potrò essere troppo breve, anche se in fondo riassumerò ciò che da anni racconto ai miei studenti. Direi intanto che in genere gli italiani non parlano la loro lingua con la stessa certezza linguistica con cui i francesi parlano il francese e i tedeschi il tedesco: che è quanto dire accordarsi su un ‘registro’ passabilmente comune. E come rivelano studi recenti, la resistenza dei dialetti, più in alcune zone e meno in altre, è però più forte di quel che si poteva pensare, il che io considero un bene, e insomma non tutti gli italiani parlano ancora italiano. Cosa mi auguro io? Io sono molto affezionato a una memorabile battuta di Salvemini (“Se ho due cose da dire e voi me ne lasciate dire solo una, quell’una diventa falsa”) e dunque mi auguro che, nello stesso tempo, davvero tutti gli italiani parlino l’italiano e però i dialetti non siano sommersi. D’altronde le tendenze all’unificazione e alla differenziazione sono altrettanto forti in ogni storia linguistica.

Alle lamentele eccessive sul modo con cui troppo spesso si parla l’italiano non si può non obiettare che l’accesso alla lingua unitaria di masse e maggioranza è cosa troppo importante perché ci si possa limitare a piangere sul prezzo che si paga. Se una lingua da lingua d’élite diventa lingua di massa, non potrà portare lo smoking. E per una delle ragioni della lamentata ‘corruzione’ dell’italiano, l’eccessiva cedevolezza alla pressione dell’angloamericano, bisogna pur dire la cosa ovvia per un linguista, e cioè che una lingua non ‘cambia’ finché non cambiano le sue strutture fono-morfologiche, il che non è e non sarà. Una versione estrema in forma profetica di queste preoccupazioni è quella fornita anni fa da Zanzotto, che è anche un grande intellettuale. Secondo lui a breve la lingua ‘superiore’ sarà l’inglese, e l’italiano ne sarà il dialetto, mentre i dialetti originari spariranno. È ragionevole ritenere che le cose non andranno così.

Ma adesso occorre dire che quelle preoccupazioni, certo non affrontabili con un’ottica purista che in Italia è squalificata, sono preoccupazioni serie e fondate. Il mio amico Sergio Bozzola ha appena pubblicato un ottimo e forte articolo sull’italiano d’oggi il cui piatto forte è il confronto sistematico fra la nostra e le altre principali lingue europee, russo compreso, per quanto concerne l’assunzione o meno di anglismi (o l’adozione o meno di calchi servili: “regole d’ingaggio”!) in tutta una serie di settori come linguaggio informatico e sportivo, lingua dei media e (l’aspetto più preoccupante) dei giovani ecc. Il quadro è univoco e sconfortante: l’italiano è sempre la lingua che si comporta, e anche più vistosamente, nel modo più passivo. Tutto ciò indica indiscutibilmente, se non proprio un servilismo di colonizzati, una mancanza di senso dell’identità, e anzi della dignità, linguistica che sgomenta e naturalmente chiama in causa noti ‘difetti’ tradizionali, oggi incrementati, degli italiani. Neppure è piacevole quella che chiamerei la burinizzazione della nostra lingua, specie in televisione, che in ultima analisi rimanda a un fatto storico non di oggi, la decisione, dovuta al colonialismo settentrionale ancor più che a ragioni ideologiche, di trasferire la capitale in quella Roma che ancora a Leopardi pareva un borgo ciociaro: cosa che io considero una delle grandi disgrazie dell’Italia moderna.

Altrettanto fuori discussione è che l’italiano è sempre una lingua viva e ricca nella sua essenza, ci mancherebbe. Va però protetta, difesa. Sarebbe bene che lo fosse, per quel che può servire, anzitutto dai suoi governi, che invece si sono distinti, con discesa a picco nell’era berlusconiana, per far ben poco. Cosa può ottenere l’azione concertata dei singoli? Bisognerebbe prima di tutto che tutti noi che scriviamo fossimo attivamente persuasi che l’italiano è una lingua da cui si può ricavare uno stile: si tende troppo spesso a non sentire questo compito, e a scrivere sciattamente credendo così di reagire agli aspetti imbalsamati del ‘vecchio’ italiano. E sarebbe opportuno raccogliere le indicazioni di Calvino, Levi e altri sull’azione benefica sopra la lingua scritta media di quella scientifica, serbatoio di precisione lessicale oltre che di chiarezza sintattica. Però qui si urta contro la secolare refrattarietà dell’italiano medio e anche colto per le scienze. Tante altre indicazioni o desiderata che si potrebbero formulare resterebbero pur sempre ai margini della questione. Perché mi sembra chiaro che in questa come in tante altre il fattore decisivo è la scuola. Che naviga, tutti lo sappiamo, in pessime acque. Qui vorrei insistere su un solo punto, che tuttavia appartiene come tutto ciò che sto accennando molto più alla sfera dell’utopia che della realtà programmabile. Questo sarebbe ridare un posto di rilievo, contro l’anatema idealistico ma anche contro le follie didattiche postsessantottesche, all’insegnamento della grammatica, non come camicia di forza ma come mezzo insostituibile di comprensione e buon uso della lingua, elastico ma pur provvisto di quella normatività che è necessaria a contrastare lo stato di cose nei periodi di grande crisi e frantumazione linguistica.

Continuo sulla falsariga della domanda precedente. Per tanto tempo quando uno scrittore italiano si metteva a scrivere doveva preliminarmente affrontare e risolvere a suo modo la questione della lingua. Ora, ti pare che siamo arrivati al punto che gli scrittori, penso soprattutto ai romanzieri, possono scrivere senza preoccuparsi di questa questione, e cioè usando la lingua come un medium naturale, confidando di usare parole che sono di tutti, confidando di poter fare parlare e pensare i personaggi in una lingua che suona giusta e non artificiale e cioè costruita in laboratorio? Siamo cioè arrivati al punto che uno si può dimenticare che sta scrivendo in italiano, e limitarsi a scrivere quel che ha in mente? E infine: è esistita secondo te una questione della lingua anche per i saggisti e per te in particolare? Insomma: ti è sempre venuto naturale parlare e soprattutto scrivere in italiano?

Non c’è dubbio: fino alla contemporaneità meno recente non c’è stato quasi scrittore italiano importante che non sia stato travagliato, posseduto, a volte fino all’angoscia, dalla “questione della lingua”. Il primo che ne appare libero è d’Annunzio, cioè – connessione interessante – il primo scrittore italiano, anche nel male, veramente ‘moderno’ e ‘europeo’ a più di un titolo. Ma ancora nel Novecento storico, come tutti sappiamo, tanti altri hanno dovuto e voluto farci i conti (anche se, novità importante, sempre in una dimensione senz’altro sociale e non più solo stilistico-individuale o al massimo stilistico-sociale). Oggi, sembra, non più. Ma è una naturalezza che troppo spesso dà il braccio all’incoscienza, vale a dire all’irresponsabilità verso la lingua, l’opposto del prius di ogni scrittore ma anche di ogni cittadino responsabile: aveva ragione Nanni Moretti quando strapazzava la piccola giornalista perché se si parla male non si può che pensar male. Se tanti scrittori più recenti e ultimi si ponessero un po’ più di domande in merito, anziché scrivere come viene viene, farebbero solo il loro dovere. Pensare che l’italiano (non solo tradizionale ma anche standard) sia solo una lingua artificiale, morta, che non esiste, o da laboratorio, significa prepararsi l’alibi per farsi i fatti propri, infischiarsene di un pubblico che non sia di semianalfabeti, e per non entrare neppure nel laboratorio stesso, cercando soluzioni interne e non solo esterne. Ci sono molti aspetti del mummificato italiano che sembrano complicazioni da ignorare o aggirare allegramente, e sono ricchezze: la sua grande articolazione lessicale (sinonimica), e anche grammaticale, la sua libertà sintattica, la riserva dialettale (che certo molti scrittori recenti usano, ma spesso abusandone per faciloneria, per sperimentalismo non necessario o per schiacciare l’occhiolino alle case editrici); ciò ancora che illustri colleghi miei hanno chiamato la persistenza o deriva dell’antico nell’italiano attuale: anche questa è una ricchezza, mica solo un frigidario da museo delle cere. E certo che l’eterna questione ha toccato pure me, e come: prima di tutto perché io non parlo affatto bene l’italiano, non lo parlo bene – non è per nulla un paradosso – anche perché non parlo nessun dialetto. E chissà che la stilizzazione un po’ chiusa che cerco nello scrivere non sia pure una reazione ai miei limiti di parlante, che mi rendono, in particolare, un pessimo raccontatore. Poi ci sono le idiosincrasie, magari irrazionali: nemmeno sotto tortura mi si convincerà ad usare parole come “territorio”, “accattivante”, “rivisitare”, “esternare” ed “esternazione” (mi si materializzerebbe davanti la faccia di Cossiga, che non è un bel vedere), non parliamo di “un attimino”, mi dà fastidio che si dica “attachment” per l’ottimo e del tutto equivalente “allegato”, auspicherei un ritorno diffuso del “lei” in luogo dell’onnipresente, cialtronesco “tu”, che finge una socialità che non c’è, ecc.… Ma su queste cose penso che abbiamo già detto qualcosa in chiave meno personalistica.

Una domanda più specifica ma che discende dalla precedente: scrivere in italiano significa senso dell’ipotassi e senso della variatio. Due modalità che per esempio ci differenziano dalle lingue anglosassoni. So che sono questi tratti a rendere la lingua scritta italiana così letteraria, ma come tu hai dimostrato essi corrispondono anche a suoi tratti originali, distintivi, profondi.
Adesso mi capita spesso di leggere autori giovani che giustamente invece mirano a semplificare. Per esempio, e lo avrai notato anche tu, si è molto diffusa la frase nominale breve, anche troppo breve, e un lessico essenziale, anche troppo essenziale. Spesso questo effetto viene ricercato per dare un maggiore senso di oralità e informalità al discorso. Ora, a me pare che in effetti i modelli qui siano soprattutto americani. Penso soprattutto all’effetto ‘infestante’ che ha avuto Il giovane Holden di Salinger, letto naturalmente in traduzione, e altri libri come quello. Ma penso anche a tanto cinema americano ‘tradotto’ in italiano. D’altra parte mi domando se per uno scrittore trentenne non sia in effetti difficile trovare uno stile diretto e informale, che pur essendo italiano scritto suoni persuasivo, naturale, o se non sia necessario invece lavare i panni in altre culture e in altri stili linguistici?

Tutto vero, a parte forse l’azione determinante del romanzo di Salinger, che bisognerebbe supporre molto a scoppio ritardato (la traduzione è del ’61). E io per primo devo confessare di avere una propensione eccessiva alla variatio, pur sapendo fra l’altro che nei classici latini era molto meno accusata che negli italiani che ne dipenderebbero (le è sensibile, mi sono accorto, perfino l’innovatore Manzoni nel passaggio, che si potrebbe pensare di ragione puramente linguistica, dalla prima alla seconda edizione dei Promessi Sposi). Qui se tutti ‘ripetiamo’ di più, lavando altrove i nostri panni, facciamo bene. L’altro punto mi pare meno pacifico. Ho dei dubbi che la paratassi spinta con frasi brevi e brevissime sia più diretta, comprensibile e piana della moderata subordinazione, qua e là se occorre con qualche piccolo inciso. Il pensiero non banale è così paratattico? Per farmi capire meglio prendo un esempio non letterario ma giornalistico, lo stile abituale – perché ogni tanto anche lui fa marcia indietro – di Ilvo Diamanti, uomo d’onore e commentatore politico molto autorevole. Sfido chiunque a sostenere che non è difficile, molto più difficile di uno stile moderatamente ipotattico e incapsulato; a negare che riveli a ogni rigo l’esperimento a tavolino; a non percepire quanto è alto il suo quoziente di manierismo (cioè anche di noia per il lettore), e a ogni passo di auto-parodia. Ma a parte valutazioni estetiche, restiamo al fatto che è incontestabilmente più difficile. La stessa riserva vale, un pochino meno lo ammetto, per tanti narratori recenti, e vale per lui e per costoro anche perché si privano di una ricchezza e non solo di un’escrescenza dell’italiano (come, in questo caso, di tante altre lingue o delle lingue in generale). Ancora una volta sono, per scelta o per impotenza, degli irresponsabili verso la loro propria lingua.

Quanto al lessico anche troppo essenziale, questo pure non solo è per lo più sinonimo di povertà anziché dell’auspicabile sobrietà, ma temo comporti, o faccia tutt’uno con, individualismo, ricaduta di ciò che si narra solo sul narratore, incapacità di nominare il reale che, nonostante la livella della globalizzazione, è pur sempre molto più articolato della testa di un individuo. La crisi della narrativa italiana degli ultimi decenni è prima di tutto una gravissima crisi linguistica, e non saprei indurmi a vederci del buono.

Siamo nell’epoca di Internet e dei nuovi media ma ancora e sempre si vedono in treno, nei metrò, nei caffè uomini e donne che leggono libri (meno in Italia a dire il vero che in Francia o in Inghilterra…). E ogni volta fa un certo effetto. Ecco, vorrei che ci soffermassimo su questa esperienza: leggere. C’è un futuro per la lettura? Cosa ci viene dall’esperienza della lettura? Soprattutto dalla lettura di romanzi e poesie? Secondo te cosa aggiunge alla vita degli individui la frequentazione prolungata di questi mondi paralleli a quello reale? Molti sostengono che la lettura e la letteratura non servono comunque mai a nulla, essendo che per definizione la letteratura non ha scopo alcuno; altri fanno notare che tra gli aguzzini nazisti c’erano anche fini intellettuali e fini esecutori musicali, e che dunque leggere o non leggere letteratura non rende certo più umani. Io continuo a pensare alla lettura come a una esperienza che serve, ma ogni volta che mi provo a spiegare a cosa serve mi pare di fare della retorica e m’inceppo…

Sì, meno in Italia… Come mi ha sempre colpito vedere nei métro di Parigi delle ragazzine che vanno presumibilmente a un lavoro qualsiasi e intanto leggono romanzi, anche classici. Il punto della questione oggi sarà sapere o immaginare che effetto possa avere la rivoluzione informatica sulla lettura di libri. Ne ha certamente, come già conosciamo benissimo, sulla scrittura, molto sollecitata dal punto di vista ‘quantitativo’ ma anche provocata qualitativamente, dato che quei mezzi inducono per loro natura allo ‘stile semplice’: coi suoi vantaggi e però coi suoi rischi non da poco, di collasso della sintassi e del suo sottile indicatore, la punteggiatura – rientriamo in quanto si è appena detto. Per la lettura (di libri, ma anche di giornali) suppongo che occorra aspettare per vedere. Quanto al resto, è difficile rispondere per chi come me ha sempre esercitato la lettura come qualcosa di tutto l’opposto che opzionale, come il centro della propria vita. Forse si può andare a rileggere una poesia molto nota e notevole di Brecht che dice: “Mio figlio mi fa: devo imparare la matematica?”, e di seguito le forti ragioni per cui né questa né la storia né il francese ‘servono’; ma poi e per finire: “Sì, impara la matematica, rispondo, / impara il francese, impara la storia!”. In sostanza questa mi pare la buona risposta, dialettica, all’interrogativo. È chiaro che leggere letteratura non rende necessariamente più  umani, specie in un’epoca, la moderna, le cui condizioni di classe hanno sprigionato le figure dello snob e dell’oltreuomo (molto simili fra loro); ma almeno tendenzialmente, forse sì. E non mi indurrà certo a far la rivoluzione, se non altro per il buon motivo che oggi non la si può fare anche se sarebbe necessaria, ma almeno psicologicamente e intellettualmente (non so se moralmente) può rendermi più avvertito.

Cosa ne pensi dei readings pubblici di testi letterari? Mi riferisco soprattutto alle letture dantesche di Sermonti e Benigni, ma più in generale alla moda degli happenings letterari? Per te la lettura deve essere soprattutto un fatto privato e silenzioso? La lettura a voce alta aggiunge o toglie qualcosa? E infine, secondo te, come dovrebbe essere eseguita la poesia?

Verso gli happenings di ogni tipo ho qualche resistenza meramente caratteriale, su cui non vale la pena di fermarsi. Invece le letture pubbliche di poesia in quanto tali le sento come interessantissime, anzi necessarie: anche per andare contromano alla tendenza, fondata dalla nostra tradizione poetica e dal suo uso, alla lettura muta personale (altri paesi, come Russia e Stati Uniti, praticano vittoriosamente la lettura ad alta voce e pubblica della poesia). In realtà io penso che anche la lirica più lirica dovrebbe, cioè è fatta per, esser letta ad alta voce, e ci guadagna molto quando lo è: un solo esempio, glorioso, l’Orlando furioso di Ronconi (e penso anche alle zone ‘liriche’ del poema). Dunque viva Sermonti e viva Benigni, oppostamente bravissimi, anche in quanto sanno andare contro le letture ora enfatiche ora prosastiche degli attori professionisti italiani, dalle quali neppure si capiva e si capisce dove finiscono e dove cominciano i versi. Mi pare evidente che la lettura della poesia debba essere – per sbrigarmela in due parole – non ‘a senso’ e come fosse prosa, ma ‘metrica’; e se possibile, eloquente senza declamazione. L’importante però sarebbe che gli attori che leggono (dunque escludo Sermonti, che anche perché supportato da Contini e da Segre ha fatto un ottimo lavoro di preparazione ai canti) non si mettessero pure a commentare. Faccio un esempio a latere. Dario Fo, grande guitto e interessante autore teatrale, quando commenta e fa divagazioni culturali finisce spesso per dire grandi e sussiegose sciocchezze. A suo tempo pretendeva che il nome vero dell’antico poeta siciliano fosse il seriore Ciullo e non l’originario Cielo d’Alcamo, e che la vittoria di quest’ultimo fosse dovuta a pruderie dei soliti studiosi benpensanti (saprai o indovini cosa vogliono dire ciula e ciulà in… lombardo!). La sua autorità di bravissimo attore ‘di sinistra’ faceva sì che venisse creduto, sembrava opporre un sapere fresco e disinibito a quello stantio e censorio dei professori; io non son riuscito in nessun modo a convincere un mio amico che Fo aveva torto, anzi s’inventava. E l’hai sentito di recente ‘presentare’ in televisione ad esempio il Duomo di Modena? Ha emesso stupidaggini culturali pari solo a quelle politiche che talora lui e sua moglie ci propinano.

Tu spesso nei tuoi giudizi, che sono comunque sempre argomentati, sei tagliente, sferzante e qualche volta sprezzante.
Vorrei che ci dicessi qualcosa su questi tuoi modi drastici, che, come sai, possono perfino mettere in difficoltà i tuoi interlocutori, soprattutto i più giovani. Mi riferisco naturalmente ai giudizi intellettuali che spesso sono senza appello, mentre per esempio ho notato che sei capace di notevole comprensione e tolleranza e affetto rispetto alle persone che ti circondano. È solo un fatto caratteriale, idiosincratico, oppure reagisci così a una generale tendenza troppo tollerante, conciliante, corriva, e dunque per marcare la necessità di una attitudine critica forte e conseguente?

È difficile giudicarsi in una cosa così intima e così poco programmabile come il proprio stile, scritto ma anche orale. Un po’ di autoesame mi avrebbe suggerito che valgono entrambe le ragioni che tu indichi. Da una parte, e quindi anche attraverso una certa coltivazione, è un modo per affermare che la critica, e non solo la militante in senso stretto, non deve essere conciliante e corriva, deve rischiare sempre il giudizio di valore, cioè insomma dire sì al sì e non al no e tutto il resto è del maligno; e che neppure dovrebbe prendere troppo le distanze dal rapporto ‘affettivo’, dall’empatia (o meno) verso il testo o l’autore: il critico non dovrebbe, io ritengo, cancellare troppo il se stesso lettore.

Aggiungi che se si cerca anche di dare giudizi ‘ideologici’, non neutri, non si può e non si deve essere concilianti… Tutto ciò mi pare anzi sempre più inevitabile di contro alla mera descrittività, alla bocca buona e all’opportunismo vigenti; se avessi ancora la possibilità di far critica militante sui giornali, credo che accentuerei, non smorzerei queste posizioni drastiche, proprio in polemica col lassismo dei più. Ma dall’altra parte è certo questione di carattere: polemico (di fatto di polemiche ne ho condotte parecchie…), e diciamo pure autoritario, anche se vedo che gentilmente non usi per ora il termine. Mi ricordo che anni fa ero a una tavolata con molti miei allievi, a Bressanone. A un certo punto Donatella, che è una provocatrice ma è sempre stata convinta dell’assunto, mi ha dato dell’autoritario, e allora io mi sono voltato verso i ragazzi per prenderli a testimoni che non era vero. È seguito un eloquentissimo silenzio; perché non saprebbero mentire per compiacermi.

Siccome uno dei miei mestieri è quello del critico stilistico, mi è capitato di esercitarlo senza mai approfondire (anche per paura delle conclusioni, suppongo) su me stesso. E credo di aver notato che due delle mie costanti sono i periodi introdotti da avversative (ma ecc.) e gli avverbi o espressioni attenuativi (forse ecc.). Cosa pensi che se ne possa dedurre?

 Ancora su questa questione. Naturalmente un modello per questo tipo di critica tagliente e senza appello è ancora una volta Adorno. Ebbene, a me piace contrapporre allo stile di Adorno quello di Auerbach. Quanto il primo è ultimativo e icastico, l’altro è partecipe, complesso, umanistico, e non per questo meno stringente! Insomma, il rimprovero che si può fare a Adorno è che il suo stile è intrinsecamente e qualche volta insopportabilmente autoritario. Non è che qualche volta lo sei stato anche tu? Ritieni che l’autoritarismo sia un prezzo da pagare se si vuole pensare ‘fino in fondo’ e ‘senza compromessi’?

Per l’essenziale ho appena risposto. È ben possibile che il mio stile assomigli (solo questo!) di più a quello di Adorno (e di Contini, Fortini ecc.; anche a Baldacci, altro mio maestro-amico, critico di grandissimo livello) che a quello di Auerbach (ecc.) per le ragioni di cui sopra e per una profonda simpatia, che ho già dichiarato, per i filosofi-saggisti stilisticamente densi. Ma proclamo davanti a notaio che una parte di me tende fortemente verso Auerbach (Lessing diceva che la verità è tendere – streben – verso la verità), anche se devo constatare che finora è stata quasi sempre una tendenza frustrata. In fondo la cosa che più mi sarebbe sempre piaciuto scrivere è un libro simile a Mimesis. Non prometto, ma auguro a me stesso almeno di provarci prossimamente, tempo permettendo (forse la stessa mia Antologia personale, per personale che fosse, tirava un po‟ da quella parte).

Detto questo mi autorizzo, tanto per non cambiar mai pelo, un paio di provocazioni pseudo-dialettiche. Anch’io penso che quello di Auerbach sia il maggior libro (organico) di critica del Novecento, ma ci si può domandare se un libro non organico di saggi come le Note per la letteratura di Adorno non lo valga. E l’ ‘umanesimo’ non è anche un po’ il limite di Auerbach, rispetto al quale si può adoperare utilmente l’antiumanesimo di Adorno? Io ho come il sospetto che culturalmente e ‘filosoficamente’ Auerbach venga in qualche modo prima di Adorno, il che naturalmente non significa che sia meno importante, ma solo che non è ancora in grado di porsi le domande che l’altro si è posto.

Batto ancora lo stesso chiodo, questa volta girandoti una domanda dell’amico Ferdinando Perissinotto. Quanto ha contato per te il dubbio nel tuo modo di pensare? Non ti pare che spesso hai mostrato più certezze che dubbi? E poi: ti è capitato di essere stimolato, incuriosito dal tuo avversario intellettuale? Lo scambio polemico per te è stata una dimensione feconda, interessante, da ricercare? Puoi farci qualche esempio di ‘nemici’ che ti hanno stimolato in tal senso?

Liberi di non crederci, ma la verità è che l’ostentazione, fuori, di certezze e l’oscuramento dei dubbi sono in me prima di tutto un moto di autoconservazione, una reazione uguale e contraria al fatto che dentro ho molti più dubbi che certezze, anzi sono completamente posseduto dal dubbio metodico su me medesimo, e dall’ansia che lo sospinge. E non mi nascondo che forse avrei fatto bene a lasciare che i dubbi insiti si manifestassero o affiorassero di più sulla pagina. È un mio limite, forse legato anche a un eccesso di pedagogismo, il quale mi porta a pensare che non si debba offrire all’allievo o al lettore un prodotto che non sia arrivato a un grado soddisfacente di cottura e, come si potrebbe definire, di sicurezza interna.

Nella mia ‘carriera’ mi sono trovato spesso a polemizzare, ma non so se ho sempre fatto bene: ho fatto sicuramente male quando ho risposto a critiche alla mia Antologia di poeti del Novecento, anche se è vero che erano insopportabilmente ideologiche – in una sua bellissima lettera Contini mi ammonì che sbagliavo, contrapponendo alla mia turbata partecipazione alla rissa il suo silenzio di fronte alle critiche non meno sbracate subite dalla Letteratura dell’Italia unita. Ma è fuori discussione che su vari punti alcuni dei recensori avessero ragione.

Ho cercato sempre stimoli negli avversari ‘latenti’, per così dire – ma con questo torniamo a discorsi già fatti in precedenza. Tuttavia qui ho dei limiti, forse poco virtuosi. Per esempio, da amante della filosofia saggistica e a-sistematica e da povero ma convinto sostenitore dell’illuminismo e della filosofia della prassi, mi metto subito in guardia di fronte a qualsiasi pensiero sistematico-metafisico; perciò anche a Heidegger, che invece riempie le gazzette, nonostante ma anche a causa della sua lussuosa bravura che tendo a sentire mistificante: qui però temo che faccia aggio l’antipatia per il nazista, e per l’uomo preso per i fondelli in pagine irresistibili degli Antichi maestri di Bernhard. E ammetterete (torno alla mia giovinezza) che non c’era molto da imparare dagli intellettuali ‘organici’ del PCI. Gli avversari in carne ed ossa, ho paura che non siano stati sempre di grande levatura – a meno che anch’io non pratichi quella tendenza a sminuire l’avversario di cui discorre Gramsci in un’ottima pagina dei Quaderni (quad. XXII). Un avversario dall’aspetto ragguardevole è stato Sanguineti, col quale ho scambiato polemiche piuttosto dure. Però in sostanza a me pare che sia un ottimo studioso, anche di grande erudizione, un buon poeta, ma che come militante sia soprattutto un provocatore, e anche incomprensibilmente testardo (continua ad affermare che Lucini è un poeta importante…): una volta durante una trasmissione radiofonica a chi, me compreso, ricordava la grandezza di Montale, obiettò che Montale non era una gloria ma la “vergogna” (sic) dell’Italia. Io poi non sono mai riuscito a capire come facesse e faccia a mettere assieme il suo avanguardismo senza se e senza ma col suo comunismo ortodosso. Ed è difficile ritenere avversari interessanti certi collaboratori della pagina culturale di “Repubblica”, o prendere sul serio i poeti che si lamentano, anche pubblicamente, perché non mi occupo di loro: si può dare il caso che abbia cose più interessanti e divertenti di cui occuparmi. E i poeti più giovani dovrebbero capire che può essere semplicemente per ragioni ‘generazionali’ che fatico a sintonizzarmi con loro; in ogni campo imporsi il giovanilismo è difficile, e anche un po’ ridicolo. Finisco con un aneddoto che concerne Roberto Calasso, il signore di un’importante casa editrice di cui qualche volta ho punzecchiato le scelte. Mi è stato riferito che, in occasione di un mio scritto contro l’opportunità di pubblicare La salvezza dagli ebrei di Bloy, e comunque di polemica frontale contro questo libro sciagurato, il grande Calasso si aggirava arrabbiatissimo per le stanze dell’ ‘Adelphi’ dicendo che non sapeva che Mengaldo fosse ebreo. Non commento. Beninteso, quando mi succedeva che Fortini o Cases avessero opinioni divergenti dalle mie, allora era un’altra cosa: ero addirittura nello stato d’animo di dargli subito ragione e chiusa lì, tanto quegli amici mi “stimolavano”.

Torniamo al lavoro del critico. Si può spiegare la bellezza? È questo lo scopo del critico letterario? Che funzione dovrebbe avere un testo di commento o interpretazione dell’opera artistica rispetto alla effettiva fruizione (ascolto, lettura, visione…)?

“Si può spiegare la bellezza?”. Ni. Ma certamente nulla come la critica stilistica s’avvicina a quella ‘spiegazione’, per monca che sia, e questo è uno dei suo blasoni. Tuttavia il critico, e anche il lettore del critico, farebbe bene a capire che in fin dei conti si confrontano e intrecciano qui due verità opposte ma entrambe certe: la critica serve a spiegare il senso e se si vuole anche la “bellezza” / la critica non serve a nulla perché l’opera è autosufficiente per quello che ha da dire e perché la critica stessa – detto più seriosamente – è un discorso che cerca di insinuarsi nel testo ma è anche, e forse soprattutto, un meta-discorso relativamente autonomo e indipendente dal testo. Di fatto credo che occorra partire dalla convinzione che esistono varie letture e fruizioni dell’opera, tutte a loro modo valide. Da giovani e da men giovani, la prima volta e le successive, di tipo esistenziale e di tipo intellettuale, ecc. ecc. Credo allora che l’importante sarebbe, e proprio qui scatta la funzione pedagogica e sociale del lettore ‘professionale’ , cercar di garantire sempre la circolazione fra i diversi tipi di lettura: può e deve farlo il critico militante, in ultima analisi può e quindi dovrebbe farlo di più lo stesso studioso ‘accademico’. Ovvio poi dire che a scuola il garante della circolazione è l’insegnante. Ma bisognerebbe che si cominciasse col non seppellire i testi (anche per la scuola media!) sotto la selva ingente del commento. E in generale che non si smettesse di cercare i punti di intersezione fra la lettura intellettuale e quella esistenziale dell’opera. Mi parrebbe proprio questo un compito primario della critica professionale. Ma devo constatare che le cose vanno esattamente in senso opposto: crescente selvosità, tecnicismo e separatezza della critica attitrée e dunque scomposte reazioni in nome della lettura minimalistica, immediata, anarchico-esistenziale: caso molto preoccupante, da ultimo, il manuale di Enzensberger-Berardinelli, con tutte le sue sciocchezze e la sua faciloneria, che ho già ricordato.

Mi riallaccio alla domanda precedente: quale dovrebbe essere la funzione della critica militante, quella che si scrive sui giornali, sulle riviste o che si fa alla radio, alla televisione? A volte mi pare che ci sia una sorta di polarizzazione tra una critica spuntata, generica, programmaticamente benevola, e una critica che punta a stroncare o a esaltare, per cui tertium non datur. Anche riferendoti alla tua esperienza di critico militante puoi delineare un tuo ideale di critica al servizio del comune buon lettore?

Brevemente, io direi che un buon critico militante rende un servizio alla società quanto meno a queste condizioni. Se informa il più esattamente possibile i suoi lettori su cosa ci sta nell’opera di cui parla. Se seleziona piuttosto severamente l’interessante nel troppo folto mercato e pronuncia giudizi di valore, nonostante che, date le sedi, non possa argomentarli fino in fondo – non si tratta di stroncare o invece esaltare, anche se confesso che le stroncature, specie se portate sugli idoli del momento, sono divertenti e fors’anche igieniche, e anch’io mi son trovato a praticarle; non bisogna parlare di ogni cosa e trovare che quasi tutto è buono, tendenza che mi pare discutibilmente tipica ad esempio dell’ ‘Indice dei libri del mese’. Infine se cerca sempre di inserire l’opera nel suo contesto storico e culturale. In tutto questo gli stranieri sono molto più bravi di noi.

Sulla questione dei rapporti tra studiosi italiani e stranieri, ma soprattutto sulla presunta sudditanza degli italiani nei confronti dei francesi prima e degli americani adesso. Cosa ne pensi?
Esistono secondo te programmi, linee di ricerca originali da noi? Non ne faccio naturalmente una questione di nazionalismo, solo mi domando se una posizione di seconda o terza fila nell’economia, nella politica e nella cultura internazionale, non ci renda in generale meno capaci di ‘pensare in proprio’ e di ‘pensare in grande’. Più in generale vorrei che ti esprimessi circa le possibilità di pensare e rappresentare originalmente il mondo che hanno gli scrittori, gli intellettuali e gli studiosi delle periferie o semiperiferie del sistema globale, o impero che dir si voglia?

Partirò da un fatto personale. Io come critico pratico soprattutto la stilistica, la quale è defunta o quasi senza l’onore delle armi in tutto il mondo, mi pare, e forse sta per defungere anche in Italia.

Siamo arretrati noi – il mio gruppo di allievi anzitutto – o sbagliano gli altri? Si può sperare per esempio che gli studiosi tedeschi la smettano di concepire solo una critica immediatamente filosofica e tornino anche a una delle loro grandissime tradizioni critiche?

Sai che esiste il detto secondo cui non si può essere grandi poeti in Bulgaria. Penso che non sia giusto. Certo che si può essere grandi poeti in Bulgaria, e anche grandi pensatori; più difficilmente forse grandi narratori – ma l’Albania ha avuto Kadaré… Il discorso del centro o dei centri e delle periferie non so fino a che punto valga per i fatti artistici e culturali (sì nel senso che cerco di spiegare alla prossima risposta). Oggi, dove sono i centri e dove le periferie, e si può parlare sempre e comunque di periferie? E per caso, non è che cose importanti possano venire dalle periferie non benché ma giusto in quanto periferie? Tu Stefano lo sai bene… E forse contro l’impero ci si esprime meglio, con più ragione e forza, dalla periferia piuttosto che dal centro del medesimo.

Collegandomi in parte a quanto detto sopra. Quanto conta oggi la dimensione nazionale nella letteratura? E quanto deve contare negli studi letterari? Qualcosa è naturalmente cambiato dai tempi di De Sanctis. Ma per intenderci: quanto ha contato l’essere italiani negli scrittori che hai studiato: Calvino, Montale, Levi, Sereni ecc.? Quanto ha contato la prospettiva italiana nel tuo modo di studiarli?

Se dico che non esiste la letteratura italiana ma solo la Weltliteratur, dico ovviamente un’ovvietà. Ma resta vero che ogni studio serio dovrebbe essere, almeno per scorci e allusioni, comparatistico, anche se è più vero, anzi imprescindibile, per la critica tematica che per quella linguistica. D’altra parte lo specifico italiano, che esiste e come, da nulla può esser posto meglio in rilievo che dalla comparazione con ciò che è extraitaliano. Mi sembra che facesse benissimo Gramsci a paragonare il senso degli umili di Manzoni con quello di Tolstoj, e lo faceva per capire e dimensionare meglio Manzoni, senza sottrarsi al giudizio sul perché quel senso era in Manzoni, da conservatore cattolico e italiano, così e non altrimenti. Perfino Montale è stato a suo dire molto “italiano”. C’è una sua celebre dichiarazione di aver lottato col “nostro pesante linguaggio polisillabico”, ma di essersi riconosciuto italiano “senza rimpianti” dopo quella lotta (dopo averla vinta, direi). Una correzione sarebbe semmai nel dire che Montale ha un immaginario poco ‘italiano’ (io ho detto e ripetuto, certo con un paradosso, che è un poeta ‘inglese’) calato in un linguaggio e in forme perfettamente anche se originalmente italiane: donde, diciamolo pure, una frizione che sprigiona straordinarie scintille.

Infine una domanda più personale. Ami l’Italia, i suoi paesaggi fisici, antropologici, mentali? Lo so, lo so che esistono mille Italie e milioni di italiani, tuttavia ecco credo che esista anche un senso complessivo di nazione che ognuno elabora nel tempo. Molti scrittori e intellettuali italiani per esempio si sono caratterizzati per la loro… antiitalianità. Fai anche tu parte di questa categoria?

Beh, dopo la Lega, Berlusconi, la persistenza di un Cattolicesimo politico di un certo tipo, i reiterati errori di una sinistra sempre più simile al centro-destra, ecc. non è facile amare i paesaggi mentali di tanta parte dei propri connazionali, incompatibili coi miei – coi nostri; e non sono “avversari rispettabili”. Io uso ripetere (perché sono molto ripetitivo, come sanno bene in famiglia) che la Lega e Berlusconi hanno un merito indiscutibile, che ci hanno spalancato davanti un tipo di italiano della cui esistenza, e consistenza numerica, veramente non sospettavamo. Dunque io penso che siamo costretti a rivedere la nostra idea, che era senz’altro troppo generosa, dell’italiano. Del resto quanti hanno indagato, da Leopardi a Bollati, il nostro ‘carattere’, lo hanno fatto con scarsa adesione.

Ma i paesaggi fisici e antropologici, ah quelli sì. Per stringere sul mio lavoro, quali straordinari paesaggi, e tutti diversi e originali, ti schiude la grande poesia dialettale del Novecento (e di prima)! Ho cercato di studiarla e valorizzarla più che ho potuto. E poi: l’Italia moderna ha pur prodotto Leopardi, che di italiano tipico ha quasi solo la lingua, e forse neppure quella a scrutarla meglio. Sì, ho avuto e ho sempre di più tratti fortemente “antiitaliani”, e non so se sia opportuno reprimerli volontaristicamente. Ma prima di tutto credo sia bene dire una cosa molto semplice: per un italiano essere italiano (tendenzialmente nel senso migliore) è molto più difficile che per un francese essere francese, per un inglese inglese, per un tedesco tedesco. Questo, che per spiegarlo occorrerebbe scrivere un trattato e non ne sarei capace, credo si possa intuire e sta alla base di tutto. E c’è un aspetto, per chi fa il mio mestiere, nel quale essere italiano non è solo difficile ma è frustrante.

Qualunque cosa noi studiosi facciamo, all’estero non ha quasi eco, e non solo quando ci occupiamo solo di cose italiane. Contini e Debenedetti in Francia e Germania sono praticamente degli sconosciuti. Fortini, pensatore molto superiore a tanti conclamati maîtres-à-penser francesi, idem. Non tragga in inganno la discreta fortuna della nostra narrativa all’estero, perché qui vale la legge ecumenica e globalistica del mercato. Lo stato di cose per noi studiosi è tale che passa la voglia di lavorare, almeno a chi creda che non lo si debba fare solo a circuito chiuso. Recentemente ho letto un bellissimo libro di Starobinski, Les enchanteresses, dove a un certo punto si parla dell’Idomeneo di Mozart: al grande critico non è neppure venuto in mente di andarsi a vedere i Programmi di sala della “Scala” su quell’opera, né su nessun’altra, eppure come collaboratore stabile del Teatro d’Opera di Ginevra vi poteva avere facile accesso. Se lo avesse fatto avrebbe trovato cose utili per il suo discorso, e avrebbe anche evitato delle inesattezze.

Per questa situazione sarà da chiamare in causa anzitutto la deplorevole incapacità italiana – delle nostre istituzioni – di diffondere la propria cultura, ma non credo basti. Quanto contano gli stereotipi stranieri per i quali l’Italia conta solo per melodramma, cinema, Pasolini, Eco e poco altro? Quanto, venendo al punto in questione, il fatto che lo stile critico italiano spesso non è affabile (però si traducono Gadda e Fenoglio…)?

Quanto quello che buona parte della nostra cultura migliore resiste, e giustamente, a mode filosofico-critiche come ad esempio il decostruzionismo? Altro si potrebbe cercare, ma insomma così stanno le cose, e tu hai la sensazione di lavorare a velocità limitata. Aggiungi una condizione negativa intrinseca, non rimovibile soggettivamente: è difficile che si crei e si sviluppi una critica letteraria militante, ma in fondo anche accademica, importante dove non c’è una letteratura contemporanea importante. Per l’appunto, Contini ha potuto comprendere originalmente certi aspetti di Dante perché c’era Proust.

Prima di chiudere con la letteratura una tua opinione sull’eterna questione del canone. Per Harold Bloom il canone esiste ed è universale e abbastanza stabile, poiché al di là di alcune leggere modificazioni e messe a punto comprende effettivamente tutti i grandi testi del mondo che vale la pena leggere. A stabilire questo canone non sarebbero stati i gruppi di potere o le case editrici ma i comuni buoni lettori sparsi per il mondo che continuano a leggere nel tempo ciò che a loro piace, e non ciò che stabilisce la critica accademica o qualsiasi altra istituzione deputata. Tale posizione è normalmente considerata conservatrice, ‘di destra’, tipica dei sostenitori di una vecchia idea di Bildung. Altri infatti dicono che esistono tanti canoni quanti sono i soggetti o le comunità di lettori. Dicono che Shakespeare sarà anche centrale nel canone bianco occidentale, ma magari conta poco o nulla dentro un canone nero africano.
Dicono insomma che non esiste il canone ma dieci, cento, mille canoni, variabili nel tempo a seconda delle modificazioni dei rapporti di potere tra ceti, classi, etnie, generi, regioni del mondo. Brutalmente: da che parte stai tu Enzo?

Evidentemente posso dire la mia solo sui canoni, o il canone, occidentale, che però dubito sia stato costituito dai comuni lettori (che ingenuità!) e che comunque, in quanto solo occidentale, non mi pare in linea di principio accettabile. Diciamo pure che il canone occidentale di Bloom, o di altri, è anzitutto la proiezione dei loro gusti e delle gerarchie che questi comportano. In quanto tale è un esercizio di autobiografismo critico come tanti, e si può anche dire che lascia il tempo che trova. Quello, o la sola cosa, che a me interessa è piuttosto la portata didattica, e dunque sociale, dei canoni: e allora portiamo il discorso sull’Italia. Secondo me il cosiddetto canone dovrebbe essere sempre fluido e non prescrittivo, cioè aperto alle rettifiche e agli sconvolgimenti non degli ‘specialisti’ soltanto, ma degli insegnanti e degli studenti stessi. Da noi inoltre un canone, più o meno implicito, esiste da tempo, ed è solo per la contemporaneità che è meno stabile, più opzionale. È il caso perciò di rovesciare la prospettiva. Uno dei maggiori addebiti che si possono fare agli storici della letteratura italiana è proprio quello di osare molto poco in materia, confermando sempre in buona sostanza un quadro che è quello di De Sanctis con moderate integrazioni successive, preferibilmente a colpi di terne. Ora io sono molto affezionato a quanto sia i formalisti russi che Eliot che Longhi hanno santamente sostenuto: che ogni emersione di un valore nuovo comporta la revisione globale del sistema di valori preesistente, o appunto canone. E qualche scoperta ogni tanto si fa. Direi di più: che altro facciamo quasi quotidianamente noi lettori se non mettere in discussione i canoni ricevuti?

Mi rendo conto che essere per un canone fluido, aperto ad diem a continue rettifiche, è quanto dire in fondo essere contro il canone. È infatti la mia posizione. Non senza un margine di dubbio però, che mi ha insinuato anni fa un collega e che riguarda appunto la didattica, qui in Italia. Se non esiste un canone condiviso e in qualche modo ufficiale, mi diceva, c’è il pericolo – niente affatto remoto data l’esistenza della Lega, delle spinte alla devoluzione scolastica e in genere dei forti regionalismi italiani – che nelle scuole lombarde si leggano solo autori lombardi e nelle siciliane solo Verga, Pirandello, Tomasi e Sciascia più qualche spruzzo dialettale. Quell’obiezione mi turba anche perché viene a toccare un nervo molto scoperto in me, il mio giacobinismo tendenzialmente intransigente (o se volete: comunismo) in fatto di scuola: il maggior numero possibile di italiani dovrebbe studiare a scuola, il più a lungo possibile, le stesse cose. Sono ammesse varianti, sennò addio fra l’altro libertà d’insegnamento, ma che non turbino le costanti. Tuttavia, come si dovrebbe fare per fondare un canone condiviso e anzi ufficiale? Riunire gli Stati generali dei critici, degli insegnanti e degli studenti? La sola idea di qualcosa del genere fa ridere. Dunque si torna al punto. Studiosi e insegnanti faranno bene a sabotare ragionevolmente i pigri canoni esistenti, e vediamo cosa succede.

Il tuo ultimo libro è sulla Shoah. Un argomento ‘eccentrico’ rispetto ai tuoi studi consueti, un argomento a cui sei arrivato tardi, ma che mi sembra ti accompagni da lungo tempo, e che in un certo senso ti ha perfino ossessionato. Ci racconti come ci sei arrivato? Come ti ha accompagnato questo ‘pensiero’ durante la tua vita, e come è cambiato? Non ti pare che sia successo a te come a tanti e cioè che il passare del tempo invece che allontanare quell’evento, invece che diluirlo, depotenziarlo lo abbia reso sempre più intenso? Non ti pare insomma che qui sia accaduto qualcosa di paradossale rispetto alle dinamiche memoriali classiche: più ci allontaniamo da quell’evento e più incombe su di noi, più ci si fa presente, e ci interroga? Perché?

Sì, è stata ed è qualcosa di simile a un’ossessione, di cui mi è molto difficile individuare i motivi. Certo, ho vissuto da bambino dentro la guerra fascista e tedesca, e subito dopo, sentendone e vedendone molto da vicino, e rimanendo segnato da tanti fatti, episodi, immagini. Certo, il mio primo amico, a nove anni, era ebreo e molti cari amici ebrei ho avuto in seguito. Ma ci dev’essere qualcosa di più profondo, che le mie reti non pescano.

È anche vero che la memoria e la voglia di capire, che per Meyrink fanno tutt’uno, col tempo mi si sono non affievolite ma rafforzate. Ebbene, questo è quanto hanno detto di sé molti testimoni e studiosi di quegli eventi, e che è intrinseco alla loro natura stessa: come tutti gli eventi di grande importanza, crescono su di sé col tempo. La memoria collettiva, chiamiamola così, si comporta qui, nel selezionare e nello sbalzare, come quella individuale.

Passando al punto che più importa, io mi sono sempre interessato a quel tema e infine gli ho dedicato, avventurosamente, un libro, anche perché lo considero un paradigma di qualcosa di più generale che concerne non la natura umana all’ingrosso ma piuttosto la storia dentro la quale mi sono trovato a vivere e ancora vivo: diciamo pure, con o senza virgolette, la modernità, e in questo sono in ottima compagnia con tanti autori che ho letto e utilizzato. Auschwitz non è solo il punto d’arrivo, con la sua scia innumerabile di vittime, di un terrorismo di stato forse mai visto così implacabile, ma ferma restando la sua tremenda specificità è anche per me, devo proprio dirlo con franchezza, il paradigma di ogni terrorismo di stato presente passato e futuro. E questa è una delle ragioni per cui bisogna continuare a studiarlo. Vale a dire che intuivo prima e sono convinto adesso che, come si è detto da tanti, può ripetersi (si è ripetuto infatti, in altre forme), essendo non un accidente ma una sostanza della modernità quale si concretizza o si profila in determinati suoi modi. Lo dico ancora: ferma restando la sua tremenda specificità, sicché è chiaro che chi mette Guantanamo sullo stesso piano di Auschwitz, come purtroppo succede, dice solo un’enormità. Qualcosa del genere, ma pur sempre continuando a distinguere fra i due fenomeni, si può dire naturalmente anche della Kolyma.

Tu non sei uno storico e però vorrei che ci dicessi che idea ti sei fatto tu, dopo aver letto tanti libri a questo proposito. In particolare vorrei che ci dicessi se per te in ballo c’è fondamentalmente la natura umana, quella natura umana che per i grandi pessimisti come Freud è pur sempre infida e capace delle peggiori nefandezze? Oppure dobbiamo riferirci a un certo tipo specifico di organizzazione sociale, di cultura, di mentalità, di carattere nazionale? Ma basta dire capitalismo, modernità… per spiegarci qualcosa di quel che è accaduto?

Ti devo dire prima di tutto che, dopo aver letto e riflettuto un po’, capisco molto più di prima il come di quei fatti, meno ancora di prima il perché, e ciò suggerisce anche qualcosa sulla potenza di quella interrogazione. Preciserei anzi che chi ha voluto argomentare con qualche sicurezza il perché, a mio avviso non ce l’ha fatta. Dunque su questa tua domanda sarò molto deludente. Voglio solo escludere qualcosa. La prima è la natura umana in generale, anche se sono sensibile ad esempio alla portata della dichiarazione di Freud, di aver incontrato nel suo lavoro soprattutto figli di buona donna: se tirassi in ballo la natura umana in generale Primo Levi si rivolterebbe nella tomba, e io in questo e in tant’altro sto con la sua infrangibile concretezza razionalistica. E niente “carattere nazionale”, che sarebbe un assunto razzista; di fatto perfino il rapporto tra l’antisemitismo dei tedeschi prima di Hitler, meno forte che in altri paesi, e la Shoah non appare per nulla stretto e consequenziale (chi ha sostenuto il contrario, soprattutto Goldhagen, ha sbagliato di grosso). Non resta, devo proprio dirlo, che la modernità, non una qualsiasi, ma quella assieme capitalista, tecnologica, totalitaria, razzista ecc. ecc. Alzi il dito chi è convinto che non stiamo ancora scontando gli attributi, che credo poco emendabili, di questa modernità. Ma torno a dirlo, del perché ne so ancor meno di prima.

Ferdinando Perissinotto che ha letto in anteprima questo tuo ultimo libro e l’ha trovato bellissimo ha notato che per certi aspetti è diverso dagli altri. Mentre negli altri miri a stringere i ragionamenti giungendo a conclusioni anche nette, qui spesso manifesti dubbi, incertezze, prudenze, e tendi ad aprire problemi piuttosto che a ‘chiuderli’. Ti pare che sia così? E se è così è solo perché non ‘giochi in casa’, essendo che l’approccio alla questione da te prescelto è quasi più storico che letterario, o c’è dell’altro?

L’ho notata anch’io la differenza, anzi mentre stendevo l’ho incrementata. E naturalmente le mille cautele sono prima di tutto un omaggio alla delicatezza dell’argomento, e alla nostra poca capacità di capire. Il mio non è propriamente un libro storico, o forse non è un libro storico ‘tradizionale’, scegliete voi; ma non credo che avrei avuto meno dubbi e cautele se fossi stato uno storico professionale. E se devo esser sincero mi pare che ci siano delle parti del libro che sono scritte, costi quel che costi, come se fossi uno storico, e alle quali magari tengo particolarmente (per esempio, per indicarne una molto circoscritta, la critica a Herf). Però, ripeto, io ho scelto la via di illuminare il ‘come’, che mi pare l’unica cosa che si riesce veramente a capire; anche in rapporto a questo ho scelto di far parlare il più possibile le ‘fonti’ stesse: testimonianze dirette, ricostruzioni storiche e riflessioni ‘filosofiche’, testimonianze su esperienze affini (specie quelle dei Gulag), e di mettere sempre a confronto, se occorreva in contraddizione, fonti sia omogenee che ‘eterogenee’. Farle parlare, cioè di fatto aprire tanti problemi senza poterli (volerli) chiudere, dunque tacendo io più che potevo. Un vero storico si sarebbe comportato diversamente?

Ti faccio una domanda più difficile da articolare. Tu hai scritto questo libro mettendoti dalla parte delle vittime, naturalmente. Tuttavia, sono esistiti anche i colpevoli, principalmente i tedeschi, e credo che valga (?) la pena di capire (non giustificare!) il loro punto di vista. Qui non mi sto riferendo tanto agli aguzzini ma anche e soprattutto a… ‘quelli come noi’, alla gente comune, alla “zona grigia” di Levi, e cioè a quelli che non videro, che non vollero vedere, che si adattarono… Insomma, quando si legge di quel periodo, non ci si può non porre una domanda ‘impossibile’: e io cosa avrei fatto, cosa avrei fatto sotto il nazismo o sotto lo stalinismo? Avrei visto? Avrei agito, sia pure nei limiti del possibile? Certo, la risposta è impossibile da dare, e possiamo solo sperare che saremmo stati dalla parte dei giusti e degli innocenti. E tuttavia credo che le cose non siano così scontate, e che in situazioni simili non bastano le buone intenzioni, come dimostrano anche i casi di intellettuali, scrittori, musicisti che ‘rimasero’ e appunto si adattarono. Non sto giustificando l’ingiustificabile, sto dicendo che quanto accadde allora non ci colpisce solo e tanto per le potenzialità di malvagità che l’essere umano può esprimere, ma anche e soprattutto per le sue capacità di adattamento e acquiescenza al male. Lo dico anche perché tra l’altro è più facile dire a se stessi “non accadrà più” se il termine di confronto sono personalità patologiche rispetto alle quali ci sentiamo capaci di prendere tutte le distanze possibili. Insomma, la mia domanda è: studiare quel che hanno fatto i nazisti ci dice qualcosa su alcune nostre possibilità attuali e future dei cosiddetti buoni cittadini? Sulle nostre possibilità di non vedere, non capire, di adattarci, di defilarci…? In altre parole i tedeschi tra il 1933 e il 1945 siamo o potremmo anche essere (almeno in parte) noi ‘uomini normali’?

Se devo dire la verità nel taglio di questa domanda c’è qualcosa che non comprendo del tutto, e perciò cercherò di aggirarla, magari con contro-domande (questo è molto ebraico!). Una: posto che non mi pare di essermi messo semplicemente dalla parte delle vittime, chiederei: da che punto di vista il punto di vista dei nazisti, e dei più diretti collaboratori, è interessante? Come tale è estremamente, disarmantemente elementare, quindi poco o per nulla interessante. Il memoriale di Höss, comandante di Auschwitz, è primario, direi insostituibile per capire come funzionava il campo, ma del suo “punto di vista” ci fa capire proprio pochino: era stato un po’ discolo da giovane, poi si era messo in riga con l’aiuto del Partito, voleva molto bene alla famiglia, eseguiva disciplinatamente gli ordini da buon soldato, era efficientissimo come un eccellente organizzatore germanico, assassinava sine ira et studio… Forse ci fa capire così poco perché poco c’è da capire. Interessanti sono ovviamente le conseguenze di quel punto di vista così poco interessante e articolato, degnissime d’analisi nel loro come e nella loro successione (questa si può razionalizzare discretamente); e interessante è la loro genesi. Io, lo sottolineo ancora, mi sono occupato soprattutto del ‘come’, allo stesso modo – non lo dico per ripararmi dietro all’autorità – dei due che più hanno illuminato l’intera questione, Levi e Raul Hilberg. Un punto generalissimo, e magari inscritto nel ‘perché’, non ho voluto evitare, la cosiddetta “banalità del male”, che mi pareva in genere non bene impostato. E ho cercato di prenderlo in contropiede, spostando il più possibile il discorso dalla “natura umana”, o nazista, a quello delle strutture repressive e assassine, dal piano etico-psicologico a quello dei fatti. Con due parole di postilla al mio libro: non saranno stati sadici, in maggioranza, i perpetratori, ma sadiche erano le strutture, il che in fondo rende accademica la prima questione. Di più: se in genere “normali”, banali, non sadici erano coloro (ma attenzione, le testimonianze di questo sono maggioritarie ma niente affatto unanimi), eppure si sono comportati da torturatori e assassini sadici, vuol dire appunto che il discorso va spostato alla sadicità normale e, attenzione, prescrittiva delle strutture. Come ha detto epigrammaticamente una delle mie migliori ‘fonti’ saggistiche, coloro si comportavano così non perché dovevano, ma perché potevano farlo. In un certo senso comportamenti e motivazioni della “zona grigia” sono più ‘interessanti’ di quelle dei nazisti all’opera. Nel libro me ne occupo quanto ho potuto. Quanto a me, sono quasi certo che non essendo almeno fisicamente coraggioso e avendo, come intellettuale, precisi privilegi da difendere, avrei appartenuto alla zona grigia se non peggio; e in Italia non si può né si deve oltre a tutto dimenticare quanto esteso è stato il consenso al fascismo (dei tedeschi al nazismo ancora di più). Dunque, una risposta tendenziale non può stare che nel meditare il concetto leviano di “zona grigia”, che tuttavia è altrettanto capitale quanto, per sua natura, aperto. Certo che l’essere umano (in assoluto? secondo le scansioni dei lunghi periodi e delle diverse civiltà? A quanto pare i pigmei sono del tutto privi di aggressività), l’essere umano ha un potenziale infinito di aggressione e delitto. Però una delle cose che più hanno colpito alcuni di coloro che hanno riflettuto sulla Shoah, e il sottoscritto, è il salto, lo iato che tuttavia si manifesta tra le sue condizioni o premesse e la sua realizzazione, in quei precisi modi. È un altro aspetto per il quale il ‘perché’, se non fa naufragio, annaspa.

Segnalo per finire che quest’anno è uscito (e Einaudi a quanto so l’ha già tradotto) un romanzo di uno scrittore americano-francese, Jonathan Littell, Les Bienviellantes, che per l’appunto parla della Shoah dal punto di vista di un criminale nazista, che ne è il protagonista-narratore: finora ho letto un centinaio delle sue novecento (!) pagine, non senza l’impressione che si tratti di un’operazione furbastra e disgustosa (nonché, a quanto si sa, molto fortunata presso i lettori), ma chissà…

Qualche altra domanda in ordine sparso: la religione. Qualche volta ti ho sentito esprimere fastidio verso certe forme di laicismo e invece grande interesse e ammirazione verso certi modi di essere cristiani. D’altra parte hai cari amici credenti e ami scrittori e pensatori cristiani, primo tra tutti Pascal. E tuttavia, se non sbaglio, ti definisci ateo. Vuoi parlarci di questo…?

Mi resta sempre immutato l’amore per Pascal, che è un mio autore da capezzale, e per altri suoi simili, e per l’Antico Testamento e i Vangeli in primo luogo; come il mio interesse per figure di credenti anche conosciute da vicino (vorrei nominare solo uno che non c’è più, il grande studioso cappuccino padre Giovanni Pozzi). Ma oggi mi trovo ad avere un laicismo e un ateismo più accusati e tendenzialmente più militanti: in una parola un atteggiamento più ‘illuministico’ verso le religioni e confessioni, cattolicesimo in primo luogo; non voglio dire che le considero superstizioni e basta, ma… Per dirla un po’ scherzosamente, non si capisce la pretesa dei credenti che siamo noi a dovergli insinuare l’infondatezza della loro fede, anziché esser loro a dimostrarcene la fondatezza. Più seriamente, penso che laicismo e incredulità debbano uscire dalle loro posizioni quasi puramente ‘difensive’ e tornare ad essere, come in altri e migliori tempi, più combattivi, se occorre aggressivi. Laicismo e ateismo non sono, mi pare, soltanto un “no” o un “non so”, sono anche un “sì”, di cui andrebbe sempre rivendicata la giustezza, la nobiltà e la convenienza per l’uomo. Senza un maggiore illuminismo il pensiero laico ed ateo continuerà ad essere intrinsecamente timido di fronte a quello fideista, o addirittura suo succube. Siamo sempre allo stesso punto, se non peggio, di quando il pur radicalissimo Bertrand Russell ha dovuto sobbarcarsi a stressanti giri di conferenze per argomentare perché non era cristiano. È chiaro che sono indotto a queste radicalizzazioni soprattutto (non solo! Ma taccio di ciò che non conosco direttamente) dal modo di operare della Chiesa cattolica in quanto tale o nei suoi vertici o nella sua ufficialità – difficile centrare la formula esatta –, modo di operare che trovo piuttosto ripugnante: nel senso ovviamente che ripugna a me. Mi provoca rigetto la pretenziosa rozzezza con cui la Chiesa continua a intromettersi nelle cose dello Stato e della società civile italiana: in rappresentanza di chi e di che cosa? Forse di Cristo e dei Vangeli?

E si direbbe che è così invadente proprio perché la sua voce è ascoltata sempre meno da fedeli e sempre più da politici, questi non necessariamente credenti o praticanti. Per non parlare appunto dei suoi pretoriani senza tonaca, i politici cattolici, che a quanto pare sono specializzati da sempre nel mettere i bastoni fra le ruote – e ci riescono! anche per la scarsa laicità della sinistra – a riforme liberali, democratiche o semplicemente umane.

Un’altra domanda sul postmoderno. Da questo punto di vista credo si possa dire che tu sei grandiosamente ‘attardato’, nel senso migliore del termine, nel senso che sei profondamente moderno (disincanto e utopia della Totalità, attitudine dialettica, alienazione, Grande Stile…). Dalla fine del secolo scorso tutto questo per la maggior parte degli intellettuali è diventato un relitto del passato. Per molti di loro i media demistificati dai francofortesi sono ormai indistinguibili dall’aria che si respira e l’immaginario ha cessato di avere una funzione oppositiva, critica, contrastiva, per divenire merce immateriale diffusa, anzi la prima delle merci (Fortini da questo punto di vista aveva una sensibilità acuta quando parlava di “surrealismo di massa”; ma un intellettuale che tu stimi come Jameson ha fatto di queste modificazioni il centro della sua riflessione). A cosa è dovuto quel tuo pathos della distanza dall’alluvione che ha sommerso il paesaggio umanistico-illuministico? Non credi che bisognerebbe fare i conti con questa modificazione del paesaggio non solo intellettuale ma anche sociale, antropologica?

Sono convinto che bisognerebbe, ma anche che io non sono attrezzato e tendo a indietreggiare davanti al nuovo che avanza, per dirla col titolo di un saggio di un mio amico. Confesso pure che sono talmente pre-postmoderno da dubitare perfino che quella categoria, con cui tanti si sollazzano acriticamente, sia davvero e in tutto convincente. Mi pareva di aver imparato che le grandi nozioni di mutamento epocale, che so, fine del mondo antico o avvio della modernità, andassero fondate su fenomeni imponenti e che un tempo si sarebbero detti strutturali, dunque economici in primo luogo – naturalmente anche culturali se potenti e pervasivi (cristianesimo, lo stesso illuminismo…). Ora il vero ‘grande’ fenomeno che caratterizzerebbe l’era postmoderna è, mi pare, la civiltà mediale con la sua punta nella rivoluzione informatica. Ma all’inverso moltissimo vi permane, e d’altra natura, che costituisce la modernità pura e semplice, diciamo in breve il capitalismo monopolistico e imperialistico (che anzi invade nazioni prima anticapitalistiche): e si potrebbero aggiungere la distribuzione smisuratamente iniqua di ricchezza e povertà, il continuo rinascere dei totalitarismi ecc. Anzi non mi pare facile respingere le recenti tesi di Eco sul fatto che l’odierna ‘civiltà’ contiene una dose piuttosto impressionante di elementi di ‘ritorno indietro’ storico.

Ma insomma bisognerebbe ragionare molto a fondo, e in un terreno in cui io sono un dilettante e basta, per verificare il sospetto che il postmoderno in ultima analisi realizzi o esasperi ciò che già nel moderno era forte tendenza (la, temibile, novità del “surrealismo di massa” è pur sempre ciò che il surrealismo storico non ha realizzato ma voleva…): se non che sia puramente e semplicemente la fase di malattia più acuta – “suprema” – della modernità. Certamente ci stanno davanti, con le nuove configurazioni che danno alla nostra vita, la civiltà mediale e la rivoluzione informatica. Io però non sarei così sicuro che la demistificazione francofortese dei media non sia ancora utilizzabile criticamente. Qual è il buon uso che si può fare dei media? Quand’ero giovane si discuteva molto se la televisione andasse in sostanza considerata, alla francofortese, un male radicale, oppure se ne era possibile un buon uso: e mi pare che siamo ancora lì. E l’informatica può davvero mutare la qualità oltre che la quantità dell’informazione? Vedi bene anche da questi dubbi quanto sono attardato, o semplicemente poco incline a prendere per buono ciò che esiste solo perché esiste. Ma un punto ho l’obbligo di precisarlo. Non sono affatto abbattuto dalla sommersione del paesaggio umanistico, perché ho sempre pensato che l’umanesimo, quando è passato come è passato dall’ardimento dei fondatori al conformismo del senso comune italiano, è stato piuttosto una iattura e una lunga pigrizia dell’Italia, che una sua gloria. Credi che di quell’umanesimo non mi importa nulla. Altro discorso per la sommersione dell’illuminismo, voglio dire di quel poco che ne è rimasto in Italia dai tempi del nostro grande illuminismo storico; sappiamo cosa ne è stato fatto: a Napoli è stato letteralmente decapitato, con effetti distruttivi di non-ritorno per quella città e tutta quell’area, altrove è stato assorbito per neutralizzarlo dal pensiero cattolico, primo fra tutti Manzoni, le cui responsabilità in questo sono grandi. Un guaio non da poco della cultura e della società italiana è proprio quello di essere state troppo umanistiche con poco illuminismo. Per conto mio la prospettiva illuministica va non solo rimpianta ma, se possibile e nei limiti di ognuno, restaurata, senza alcun compiacimento neppur minimo per la negazione cui oggi è sottoposta.

Tu sei stato un intellettuale in senso pieno e forte, uno studioso, uno specialista. Non pensi che a essere intellettuali si paghi qualche inevitabile prezzo in termini di alienazione dalla vita, di impossibilità di “immettere la propria vita dentro la calda / vita di tutti”? Non credi insomma che ci si mutili un poco? Che  di prezzi, che tipo di mutilazioni hai pagato e fatto pagare per essere lo studioso e infine l’uomo che sei stato? Era inevitabile? E uscendo dal tuo caso personale: ci sono alternative a questa condizione di (parziale) mutilazione della vita tipica del lavoro intellettuale?

Un prezzo si paga, e io l’ho pagato. Anzi il mio può esser stato ed essere particolarmente alto perché io non so quasi fare nient’altro che studiare, e lo faccio in modo maniacale, da studioso ‘malato’ (ancora Lichtenberg: “Lo studioso sano: è l’uomo per il quale il pensiero non è qualcosa di morboso”). Ma è anche vero che la “calda vita” a sua volta è un mito postromantico e thomasmanniano pericolosamente cieco di fronte al carattere intensamente conflittuale anzi lacerato della società moderna. E mi pare che la mutilazione del lavoro intellettuale rientri in quella generale della divisione del lavoro, da cui forse occorrerebbe sempre partire. Sospetto che un ‘manager’ (dopo l’avvento dei cellulari poi…) sia ancora più mutilato di me. Per quanto si riferisce a me personalmente, dopo essermi prostrato di fronte alle persone cui ho fatto pagare le conseguenze della mia malattia, dico che avrei dovuto cercare di guarirla; che avrei dovuto occuparmi più attivamente di politica; che avrei dovuto… Ma un po’ di spazi liberi, insomma, me li sono sempre lasciati.

Una domanda personale, ma in fondo non troppo: cosa ti ha recato vera felicità nella vita? Che tipo di esperienze? Quando ti sei dimenticato di te stesso?

Per essere una domanda personale, lo è, per cui cercherò un poco di slacciarmi (“Solvite me…”) stando sulle generali. A questo mondo esiste certissimamente l’infelicità; non so se esista la felicità, e quanta (il sostantivo ha valore durativo…); altrettanto sicuramente dell’infelicità c’è però la gioia, e molte cose possono fortunatamente darla, almeno a chi non sia troppo perseguitato dalla natura o dalla società, la gioia preziosa e fuggevole (mi vengono in mente versi di Solmi che mi commuovono sempre: “Eravamo alla punta della vita, / quella che più non torna, più non torna…”). E probabilmente la gioia fa tutt’uno proprio col dimenticare se stessi – ti sei dato anche questa volta la risposta. Ora, lasciando inespresse occasioni più intime, questo dimenticarsi è appunto tipico dell’esperienza intellettuale e di quella artistica, anche ‘indiretta’, nella loro “punta”. Quindi io ho avuto nella vita molte gioie. Sono stato e sono molto molto privilegiato, lo so bene.

Cosa sarà e cosa farà Mengaldo ‘da vecchio’. Io, a dire il vero, non riesco a immaginare differenze: credo che studierà, leggerà, scriverà come ha sempre fatto. Tuttavia tu magari hai altre fantasie…

Ma io sono già vecchio… Ciononostante penso che continuerò a fare quello che ho sempre fatto, magari riprendendo a leggere disinteressatamente di più (specialmente libri di storia) e alternando sempre lavori nel mio campo e lavori extra moenia: spero con ancora un po’ di lucidità, ma certo con minori energie (mi sono già scemate sensibilmente) e con un tempo a disposizione che comunque è poco, molto poco. Vediamo se mi riuscirà di non dirmi continuamente: ormai non val più la pena di far questo o quest’altro… Se cioè riuscirò a contenere la tentazione più facile ma più peccaminosa dei vecchi mortali, quella di corteggiare la morte.

E per finire. Hai dunque settant’anni, un’età importante e, vale proprio la pena di dirlo, di bilanci. Ora, vorrei che invece di fare come fanno molti ‘vecchi’ e cioè invece di indicarci le ragioni per disperare (che ci sono, eccome!) ti costringessi a dirci quali sono per te le ragioni per sperare ancora e nonostante tutto…

Le speranze, quando riescono a stare in piedi, non possono certo scaturire dalla contemplazione degli assetti economici e sociali, delle forze politiche, dei governi, delle nostre e altrui ‘civiltà’, che sono quelli che sono e con pochissime tendenze a cambiare in meglio. Si può e si deve però guardare sempre agli individui, memori di una massima di Tolstoj che ho letto di recente ma senza appuntarla e che dice press’a poco che se un individuo è convinto di poter cambiare da solo le cose, riesce anche a farlo. Spesso quando osservo certi giovani, a cominciare dai miei deliziosi allievi, mi pare di vedere in loro una autentica capacità, e volontà, di non stare al gioco sociale, di crearsi e creare forme di vita alternative a quelle orribili in cui si imprigionano i più, e questo forse senza la drammaticità nell’opposizione che ha caratterizzato me e tanti della mia generazione. È qualcosa. Mi sembra però che ci sia una precondizione, sempre soggettiva, alla speranza, una precondizione che ha un carattere non facoltativo ma imperativo; e questa è il dovere di essere informati. Il che non credo proprio che possa avvenire, almeno in Italia, attraverso i media, quelli di sinistra ampiamente compresi. Bisogna tentare di non farsi ingannare o lasciare nell’ignoranza, è bene coltivare sempre nei confronti dei media il sospetto di parzialità e falsità. Faccio un esempio. Ho letto di recente un libro che non loderò mai abbastanza, Perché ci odiano di Paolo Barnard, un eccellente giornalista italiano: impressionante quanto assolutamente attendibile, che ci informa molto bene su una serie di questioni capitali su cui i media ci disinformano regolarmente: conflitto israelo-palestinese, terrorismo di stato occidentale, e israeliano, più massiccio e precedente a quello ‘arabo’, responsabilità in questo anche dei presidenti statunitensi democratici amati acriticamente da tanta sinistra, e non solo dei Bush (è facile essere democratici a casa propria, molto più difficile fuori casa e verso popoli ‘inferiori’), uso sistematico di due pesi e due misure nel giudicare ciò che riguarda le due parti in conflitto, ecc. ecc. È un libro – non il solo di questo genere, si capisce – la cui lettura ti prostra, ma nello stesso tempo ti fornisce una vera informazione e condanna la falsa. Mi sento di consigliarlo a tutti.

Dunque buoni settant’anni di cuore e buona vita da tutti i tuoi amici.

E io vi ringrazio profondamente, e ringrazio soprattutto Stefano, di questa affettuosa e generosa iniziativa per un vecchio signore.