Archivio mensile: giugno 2018

GIULIA BIASCI – “LA RELIGIEUSE” DI DENIS DIDEROT, TRA DENUNCIA DEL CONVENTO E APOLOGIA DEL CORPO

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[Pubblichiamo una comunicazione tenuta per la giornata Francesco Orlando che si è svolta a Pisa il 29 maggio di quest’anno. Giulia Biasci si è laureata in Letterature e Filologie Europee presso l’Università di Pisa, sotto la direzione del Professor Gianni Iotti e della Professoressa Hélène de Jacquelot, con una tesi sulla rappresentazione del corpo nell’opera di Diderot dal titolo Diderot, la scrittura del corpo. Erotismo, malattia ed estasi. È attualmente iscritta al terzo anno di dottorato di ricerca in Letteratura francese presso l’Université Sorbonne Nouvelle – Paris 3, in co-tutela con l’Università di Pisa, nel quadro del progetto Idex – Université Sorbonne Paris Cité. Le sue ricerche vertono sulla rappresentazione della malattia nelle opere di Diderot e nei trattati medici in lingua francese del XVIII secolo. Conduce le sue ricerche sotto la direzione del Professor Jean-Paul Sermain e del Professor Gianni Iotti.]

religieuse

Nella lettera del 27 settembre 1780 indirizzata a Meister, redattore insieme a Grimm della Correspondance littéraire, Diderot descrive in poche frasi programmatiche il romanzo La Religieuse redatto attorno al 1760, ma pubblicato postumo:

Il [le roman La Religieuse] est rempli de tableaux pathétiques. Il est très intéressant, et tout l’intérêt est rassemblé sur le personnage qui parle. Je suis sûr qu’il affligera plus vos lecteurs que Jacques ne les ait fait rire […]. Il est intitulé La Religieuse et je crois qu’on n’ait jamais écrit une plus effrayante satyre [sic] des couvents. C’est un ouvrage à feuilleter sans cesse par les peintres; et si la vanité ne s’y opposoit, sa véritable épigraphe seroit: Son pittore anch’io.[1]

Introdurrò la mia analisi scomponendo questa descrizione programmatica nei suoi tre argomenti principali che menzionano sinteticamente i caratteri salienti del romanzo di Diderot.

Il est rempli de tableaux pathétiques […]. C’est un ouvrage à feuilleter sans cesse par les peintres; et si la vanité ne s’y opposoit, sa véritable épigraphe seroit: Son pittore anch’io

Diderot esplicita fin da subito il carattere pittorico, prolifico in immagini vere perché tangibili ed esperibili per la loro esattezza, che caratterizza tutta la sua produzione scrittoria. Questa tendenza a rappresentare realisticamente il mondo attraverso il linguaggio[2], risponde all’ut pictura poesis oraziano e mira a implicare il lettore nell’atto ricettivo così che possa esperire gli eventi narrati in tutta la loro contingenza e concretezza. Veniamo così al secondo punto della descrizione programmatica che Diderot fa del suo romanzo.

Il est très intéressant, et tout l’intérêt est rassemblé sur le personnage qui parle. Je suis sûr qu’il affligera plus vos lecteurs que Jacques ne les ait fait rire

L’interesse che il romanzo di Diderot produce nel lettore grazie al suo bagaglio immaginifico e realistico, è di carattere principalmente emotivo, empatico[3]. La contingenza dei fatti narrati e la loro veridicità atti a coinvolgere il lettore nella narrazione, sono garantite da un narratore omodiegetico, Suzanne Simonin, segregata suo malgrado in convento. Come Francesco Orlando osserva in Illuminismo, barocco e retorica freudiana (1982), filtrare gli eventi attraverso lo sguardo limitato del protagonista, è un’innovazione di tutto un filone narrativo inglese e francese fra tardo Seicento e Settecento, ed è ciò che permette al lettore di lasciarsi catturare dalla narrazione soggettiva degli eventi e di farsi sorprendere nell’atto della lettura da una prolificazione di contenuti impliciti e sempre variabili che emergono dalla trama del testo[4].

Il est intitulé La Religieuse et je crois qu’on n’ait jamais écrit une plus effrayante satyre des couvents

Veniamo quindi alla materia del romanzo che Diderot definisce una satira spaventosa dell’istituzione conventuale. Il romanzo raccoglie le memorie destinate al Marquis de Croisemare, redatte da Suzanne Simonin, figlia cadetta e adulterina, confinata contro la sua volontà in più conventi, dove sconterà la pena delle colpe passionali della madre. Suzanne protesta contro i suoi voti, ma è sopraffatta dalla violenza del mondo conventuale che con le sue regole di clausura e celibato contrasta la soddisfazione delle pulsioni fisiologiche più elementari, finendo per pervertire la natura umana. Presso il convento di Sainte-Marie, dove svolge il suo noviziato, Suzanne sperimenta l’ipocrisia delle monache; a Longchamp, dove prende l’abito, assiste sotto la direzione della Mère de Moni agli effetti della passione mistica e subisce sulla propria pelle il sadismo giansenista della Superiora Sainte-Christine, che prende la direzione del convento a seguito della morte della Mère de Moni; infine, presso il convento di Saint-Eutrope, a Arpajon, Suzanne diviene a sua insaputa, oggetto dell’amore saffico della Superiora, ultima incarnazione della perversione claustrale.

Sebbene il romanzo sarebbe da ascrivere al genere del roman mémoire, l’assenza di rielaborazione e comprensione degli eventi da parte della protagonista, fanno pensare piuttosto ad un diario in cui si registra una serie di sintomi la cui interpretazione è affidata all’intelletto del lettore[5]. La presentazione di Suzanne come personaggio innocente, fondamentalmente buono, estraneo alla logica conventuale – dal momento che la novizia è segregata a forza in convento –, e ingenuo nella misura in cui non comprende quanto le accade e male interpreta le reazioni altrui, risponde al meccanismo precauzionale dell’estraniamento, descritto da Francesco Orlando in Illuminismo, barocco e retorica freudiana come uno degli espedienti prediletti dalla letteratura pensante del XVIII secolo[6]. Come Asmodée, il demonio de Le diable boiteux (1707) di Lesage, scardina i tetti delle case di Madrid per istruire il giovane Alcalà sulla corruzione degli esseri umani, Suzanne, attraverso la sua narrazione, abbatte le mura del convento e permette al lettore di percorrerne i corridoi osservando con i propri occhi, senza bisogno di una denuncia diretta, l’orrore e la depravazione che la reclusione forzata e l’esclusione dal mondo sono in grado di provocare. Il rispetto dei diritti naturali dell’uomo è difeso quindi in negativo, per contrappunto.

Oltre agli espedienti già messi in luce, Diderot persegue il proprio obiettivo ideologico, dedicando uno spazio notevole nel suo romanzo alla rappresentazione del corpo dei personaggi e in particolare al corpo di Suzanne.

Sarebbe troppo lungo in questa sede esporre in maniera esaustiva implicazioni, finalità e strategie retoriche impiegate nella rappresentazione letteraria del corpo[7]. Mi limiterò quindi a fare poche considerazioni relative al rapporto mai del tutto risolto fra corpo e scrittura che si configura come una formazione di compromesso, concetto che Francesco Orlando – com’è noto – prende in prestito da Freud. Nella rappresentazione letteraria del corpo le istanze repressive, idealizzanti e sistematizzanti del linguaggio si conciliano con le istanze represse della variabilità, contingenza e concretezza del corpo che non è mai uguale a se stesso. Se il corpo dev’essere rappresentato e quindi letto, diviene in qualche misura sistema retorico e semiotico nel romanzo del XVIII secolo. Di contro, la scrittura subisce una sorta di somatizzazione per aderire tendenzialmente al movimento del corpo del quale, per esigenza di realismo, si vuole rendere ciò che è più difficile rendere, la chair:

[…] C’est la chair qu’il est difficile de rendre; c’est ce blanc onctueux, égal sans être pâle ni mat; c’est ce mélange de rouge et de bleu qui transpire imperceptiblement; c’est le sang, la vie qui font le désespoir du coloriste. Celui qui a acquis le sentiment de la chair a fait un grand pas; le reste n’en est rien en comparaison.[8]

Questa dialettica fatta di vittorie e sconfitte da entrambe le parti si risolve spesso nel XVIII secolo in un’adesione al registro del pathos; tuttavia, nel caso di Diderot, il registro del patetico, parzialmente conservato, viene soppiantato progressivamente da un registro biologico-fisiologico, capace di trasmettere, nella sua materialità, contenuti ideologici repressi.

Nei suoi Fragments d’un discours amoureux (1977), Roland Barthes, riportando la relazione corpo-linguaggio a coordinate generalmente culturali, afferma: «Ce que cache mon langage, mon corps le dit. Mon corps est un enfant entêté, mon langage est un adulte civilisé» [9]. Nel caso de La Religieuse di Diderot, l’analogia tra linguaggio e età adulta, corpo e infanzia, è ricondotta all’analogia tra linguaggio e cultura, corpo e natura, ma all’interno di un contesto discorsivo letterario: di fatto il corpo parla franco e denuncia l’istituzione conventuale, mentre il linguaggio tende a velare, a nascondere.

La parola veridica del corpo è lo strumento che Suzanne in maniera inconscia e Diderot sapientemente, utilizzano per trasmettere empaticamente al lettore la loro denuncia dell’istituzione conventuale che travia il corpo e la mente dell’individuo, negando la soddisfazione delle pulsioni elementari. Per tutti coloro che, come Suzanne, il cui corpo sta nel convento, ma il cui cuore si trova altrove[10], non riescono ad interiorizzare il conflitto tra essere e dover essere, il solo esito possibile è la scissione, il delirio, concepito dai medici dell’epoca come un disturbo a carattere psicosomatico. Una specificità comunicativa deve allora essere riconosciuta nel romanzo di Diderot al corpo malato, sofferente e battuto della protagonista.

Suzanne, lungo tutto il romanzo, è vittima di una sorta di de-possessione, di una perdita di controllo da parte dell’istanza razionale e volitiva sull’istanza istintuale somatica. Si presenta infatti fin da principio come un personaggio eterodiretto: i genitori le impongono di prendere il velo e una volta arrivata al convento di Sainte-Marie le compagne e la superiora la conducono e modellano, nel vero senso della parola, il suo corpo. L’apatia e l’impossibilità di azione che caratterizzano Suzanne in seguito alla cerimonia del cambio d’abito svoltasi a Longchamp sono tali che questa si definisce physiquement aliénée e specificando la dimensione patologica di questa condizione, ne parla come di une espèce de convalescence[11].

Veniamo adesso ad un noto passo del romanzo in cui si evidenzia un esempio della dialettica fra corpo e scrittura, finalizzata alla rappresentazione della malattia o della sofferenza del corpo di Suzanne. Ci troviamo a Longchamp, dove Suzanne è tormentata dal sadismo della superiora Sainte-Christine. Sul finire della notte, la superiora entra nella celletta di Suzanne, accompagnata da tre compagne asservite alla sua causa, per sottoporla ad una sorta di esorcismo che la faccia apparire indemoniata all’arcidiacono in visita al monastero. Alla vista della superiora, rappresentante del carattere repressivo e mortifero dell’istituzione conventuale, questa è la reazione di Suzanne:

Une sueur froide se répandit sur tout mon corps: je tremblais, je sentais mes genoux plier; je regardais avec effroi ces trois fatales compagnes. Elles étaient debout sur une même ligne, le visage sombre, les lèvres serrées et les yeux fermés. La frayeur avait séparé chaque mot de la question que j’avais faite, je crus, au silence qu’on gardait, que je n’avais pas été entendue […]. Je voulus crier, mais ma bouche était ouverte, et il n’en sortait aucun son. J’avançais vers la supérieure des bras suppliants et mon corps défaillant se renversait en arrière. Je tombai, mais ma chute ne fut pas dure; dans ces moments de transe où la force abandonne insensiblement, les membres se dérobent, s’affaissent, pour ainsi dire, les uns sur les autres, et la nature ne pouvant se soutenir, semble chercher à défaillir mollement. Je perdis la connaissance et le sentiment; j’entendais seulement bourdonner autour de moi des voix confuses et lointaines; soit qu’elles parlassent, soit que les oreilles me tintassent, je ne distinguais rien que ce tintement qui durait. Je ne sais combien je restai dans cet état, mais j’en fus tirée par une fraîcheur subite qui me causa une convulsion légère et qui m’arracha un profond soupir. J’étais traversée d’eau, elle coulait de mes vêtements à terre, c’était celle d’un grand bénitier qu’on m’avait répandu sur le corps. J’étais couchée sur le côté, étendue dans cette eau, la tête appuyée contre le mur, la bouche entrouverte et les yeux à demi morts et fermés. Je cherchai à les ouvrir et à regarder, mais il me sembla que j’étais enveloppée d’un air épais, à travers lequel je n’entrevoyais que des vêtements flottants, auxquels je cherchais à m’attacher sans le pouvoir; je faisais effort du bras sur lequel je n’étais pas soutenue, je voulais le lever, mais je le trouvais trop pesant. Mon extrême faiblesse diminua peu à peu; je me soulevai, je m’appuyai le dos contre le mur; j’avais les deux mains dans l’eau, la tête penchée sur la poitrine, et je poussais une plainte inarticulée, entrecoupée et pénible.[12]

Il sudore freddo che asperge ogni parte del corpo di Suzanne, sostituendo le lacrime, secrezione sublimata appartenente al registro del pathos[13], apre questa scena, proiettando il lettore nella dimensione fisiologica del corpo e delle sue reazioni. L’enumerazione per asindeto del tremore del corpo e delle ginocchia che cedono, effetto del terrore che suscita in Suzanne la scena che si trova di fronte, fa da preambolo fisiologico alla frantumazione del linguaggio che mima la perdita del controllo di sé. Il linguaggio verbale diventa un balbettio incomprensibile, e le parole con cui Suzanne vorrebbe formulare la domanda indirizzata alle lugubri compagne si frangono. Il silenzio regna.

A partire da questo momento, un affastellamento di azioni e posture del corpo, disgrega l’andamento della frase e riproduce in un ritmo convulsivo e spasmodico le movenze del corpo di Suzanne che si ritrae in un’alienazione perfetta. Se il suo corpo produce un’azione, questa non risponde ad una pulsione volitiva e alcun atto segue l’intenzione. Alla volontà di gridare non segue alcun suono, e quel che resta al lettore è l’immagine della bocca spalancata e muta della protagonista. Al tentativo di avanzare verso la superiora, risponde un rovesciamento del corpo all’indietro, e il climax sincopato di azioni inconseguenti si conclude con una caduta di Suzanne, sola azione positiva ed involontaria non negata da avversative né dalla realizzazione di un’azione che sorte un effetto opposto rispetto a quello pronosticato dall’intenzione.

Suzanne è a terra, il ritmo affannoso della narrazione rallenta e si sofferma a mimare formalmente la resa del controllo razionale sul corpo che si abbandona in un cumulo di membra prive di forza. La caratterizzazione della caduta di Suzanne come pas dure, cosa che fuor di negazione vorrebbe dire douce, suggerisce innanzitutto un cambio di registro. Le frasi che seguono la caduta di Suzanne perdono momentaneamente il carattere soffocante, tenebroso e sublime del patetico instillando nel lettore il dubbio su una possibile lettura anche positiva – in chiave doloristica forse? – del parossismo della malattia, della sofferenza e della contorsione del corpo. È nella caratterizzazione ossimorica della caduta e nel rallentamento del ritmo della narrazione che dobbiamo cercare e trovare un indizio che conduca al messaggio secondario che la scrittura del corpo sofferente può comunicare. È questa compresenza di elementi voluttuosi e terribili che fa delle manifestazioni letterarie della malattia di cui i testi di Diderot sono disseminati, delle formazioni di compromesso fra istanza razionale che sancisce il dover essere e istanza istintuale, somatica che si compiace nell’affrancamento dell’essere. Se, in particolare nel caso de La Religieuse, la malattia è il risultato della negazione dei diritti naturali esercitata dall’istituzione sociale, l’individuo può in qualche modo liberarsi dal gravame dell’istituzione e lasciar libera espressione alla natura del proprio corpo[14].

Il ritmo cadenzato della scrittura che incarna le azioni ipnotiche del corpo, conduce Suzanne alla perdita di coscienza e sentimento di sé annientando le coordinate spaziali delimitanti i confini interni ed esterni all’individuo. Se a questa condizione si aggiunge l’annullamento delle coordinate temporali di cui Suzanne ci rende partecipi solo a posteriori, si riconoscono i presupposti di quella che si configura come una sorta di estasi, come un’evasione dalla realtà circostante all’individuo, completamente assorto su un unico oggetto: la propria esperienza sensoriale. La concatenazione di azioni inconseguenti si appiana, Suzanne rinuncia al controllo del proprio corpo, accetta la disorganizzazione dell’organismo che innesca la malattia psicofisica[15] e si abbandona regressivamente alla percezione dei mutamenti sensoriali che si producono sul e attraverso il proprio corpo. Due periodi dall’andamento piano ed elegante, nei quali una sensazione uditiva confusa, pervade la scena, contribuiscono alla manifestazione della resa del personaggio. Il carattere in negativo delle percezioni di Suzanne – di fatto afferma di non poter distinguere alcun suono – ha perso la connotazione lugubre delle precedenti azioni mancate e il personaggio insieme al lettore si compiace di questa nuova condizione vagamente regressiva in cui tutto è percezione.

Questa pace non dura a lungo, una sensazione di freschezza (non di freddo!) improvvisa che è il vero apex del climax sensoriale ascendente, – da una confusa sensazione uditiva si passa ad una decisa sensazione tattile di freschezza –, riporta Suzanne alla coscienza di sé, e mette fine all’abbandono compiaciuto nella contemplazione sensoriale, attraverso una lieve convulsione (anche qui la caratterizzazione della convulsione come lieve esclude ogni violenza) ed un profondo sospiro, che insieme alla testa abbandonata, alla bocca semiaperta e agli occhi chiusi del periodo successivo, presentano il quadro completo dei segni con cui Diderot rappresenta analogamente il corpo morente e il corpo del personaggio colto nell’apice del godimento fisico[16].

Si ripropone allora circolarmente l’immagine del corpo di Suzanne asperso di liquido, ma stavolta non si tratta di sudore, bensì dell’acquasanta contenuta in una acquasantiera dalla quale è stata inondata. Dal momento in cui Suzanne torna ad essere vigile e si riappropria di una coscienza ‘esteriore’ del proprio corpo, il ritmo sincopato riprende, caratterizzato dalla punteggiatura affannosa e dalla serie di pulsioni volitive contrastate da avversative cui non segue alcuna azione, per fermarsi soltanto sulla plainte inarticulé, entrecoupée et penible che chiude circolarmente la scena, iniziata, con la disgregazione del linguaggio verbale, attraverso il carattere disarticolato della domanda di Suzanne.

Ritengo che in questo brano, la formazione di compromesso descritta da Francesco Orlando venga esemplificata da un punto di vista contenutistico e formale a un tempo. Fino a che la ragione pretende mantenere un controllo sul corpo e vuole decidere dei suoi movimenti e delle sue reazioni, imbrigliandolo in stilemi tradizionali – ciò che, fuori di metafora, significa velare la sua naturalità intimando il rispetto delle regole imposte dall’istituzione –, il corpo si ribella, e produce reazioni opposte a quelle volute; il pensiero razionale si disgrega progressivamente e il corpo finisce per comandare la ragione, plasmando anche il ritmo della scrittura.

Ma se la mente allenta il controllo e lascia che il corpo prenda il sopravvento, l’istanza razionale non viene annientata, l’unità delle due sostanze, ristabilita a fatica dal pensiero di John Locke, non è messa a repentaglio. Nei romanzi di Diderot, quando il disaccordo tra natura e civiltà produce il delirio dei sensi e i silenzi, il minimo battito di ciglia, le escrezioni fisiche, la disarticolazione dei movimenti si affermano come linguaggio, il corpo si fa incarnazione di una ratio sensista, sviluppo dialettico della ragione tradizionale e non sua negazione. Ecco che allora, come ci sarà chiaro, l’abbandono al potere dei sensi, risposta ad una sofferenza fisica e morale ad un tempo, nel romanzo di Diderot diventa un’occasione utile all’affermazione dell’individuo e dei suoi diritti conculcati dall’istituzione repressiva. Non solo abbandonandosi all’esperienza sensoriale il personaggio sembra ritrovare un’edonistica, regressiva dimensione naturale che Diderot presume buona ed innocente, ma attraverso la scrittura dei sensi, Suzanne giunge in qualche misura a neutralizzare i valori castranti della segregazione, grazie al processo dell’identificazione emotiva fra personaggio e lettore, insito in ogni atto di lettura. Se come sottolinea Roger Kempf, nel suo saggio dedicato a Diderot, il discorso e con questo il controllo razionale e l’imposizione dei valori culturali della civiltà non affrontano mai il corpo e quindi la pulsionalità e i valori della natura, senza danno[17], la scrittura sostituendo la presenza del corpo, interessa, nel senso empatico del termine, il lettore e lo rende partecipe della narrazione. L’insorgere dello stato psicopatologico durante il quale il corpo prende il sopravvento sul linguaggio diviene allora un’occasione per costituire sì quella critica dell’istituzione conventuale che era lo scopo programmatico del romanzo, ma allo stesso tempo permette un’apologia del corpo, del sentimento e della sua espressione, affidati alla sensibilità del lettore. Attraverso la sua scrittura sintomatologica e metonimica, priva di ricomprensione esplicita, Suzanne-Diderot stabilisce una connessione intima con il lettore e lo invita a farsi attento osservatore del corpo del personaggio che, nel parossismo della malattia, diviene unico portatore di senso e di denuncia. È quindi, al protagonismo diegetico del corpo – in questo caso del corpo battuto e sofferente – che si deve lo scatto della modalità narrativa sperimentata da Diderot: lo scatto costituito dal decentramento della prospettiva narrativa dal narratore al personaggio che, da Flaubert in poi, diventerà uno dei caratteri essenziali del romanzo moderno.

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Note.

[1] «È colmo [il romanzo La Religieuse] di quadri patetici. È molto interessante, e tutta l’attenzione è concentrata sul personaggio che parla. Sono sicuro che affliggerà più i vostri lettori che Jacques non li abbia fatti ridere […]. È intitolato La Religieuse e credo che non sia mai stata scritta satira più spaventosa dei conventi. È un’opera che deve essere sfogliata senza sosta dai pittori; e se la vanità non vi si opponesse, la sua vera epigrafe sarebbe: Son pittore anch’io» (Diderot, Correspondance, Paris, Éditions de Minuit, 1970, t. XV, p. 190-191).
[2] Per la definizione di realismo si veda E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino, Einaudi, 1946 e T. Pavel, La pensée du roman¸ Paris, Gallimard, 2003.
[3] A questo proposito, s ricordi l’aneddoto che Grimm include nella Préface al romanzo, pubblicato sulla Correspondance littéraire dal 1770, che mostra Diderot colto dall’amico e attore d’Alainville, mentre si addolora e versa lacrime sulle pagine de La Religieuse alle quali sta lavorando; cfr. Diderot, La Religieuse, in Id., Œuvres complètes, ed. DPV, Paris, Hermann, 1975, t. XI, p. 31. Anche in questo caso, il coinvolgimento emotivo non solo del lettore, ma anche dello scrittore stesso, cui deve mirare la produzione letteraria, è un elemento tratto dalla retorica classica ed in particolare dall’opera di Quintiliano il quale vuole che, al fine di coinvolgere l’auditorio, l’oratore sia lui stesso coinvolto dal contenuto e dalla forma della sua orazione.
[4] Il carattere soggettivo e contingente della narrazione di Suzanne è tale da determinare una compartecipazione emotiva, che rendendo idealmente e fisicamente partecipe il lettore agli eventi, implichi per questi un guadagno considerevole in termini di esperienza. È questa la grandezza che Diderot riconosce al romanzo nel suo Éloge de Richardson (1762); cfr. Diderot, Éloge de Richardson, in Id., Œuvres complètes, ed. DPV, Paris, Hermann, 1980, t. XIII, pp. 192-193.
[5] Cfr. Diderot, La Religieuse, édition établie et présentée par Robert Mauzi, Paris, Colin, 1961, p. XIX.
[6] Cfr., F. Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi, 1997, pp. 141-142.
[7] Al fine di indagare con coerenza il discorso letterario relativo alla rappresentazione del corpo che la letteratura francese ed europea del Settecento produce, rimando all’abbondante letteratura critica in materia, della quale ricordo almeno, tra molti altri: S. Arnaud, H. Jordheim, Le corps et ses images dans l’Europe du dix-huitième siècle, Paris, Honoré Champion, 2012; A. Coudreuse, Le goût des larmes au XVIIIe siècle, Paris, Éditions Desjonquères, 2013; H. Cussac, A. Deneys-Tunney et C. Seth (dir.), Les discours du corps au XVIIIe siècle: littérature, philosophie, histoire, science, Québec, Presses de l’Université de Laval, 2009; A. Deneys-Tunney, Écritures du corps: de Descartes à Laclos, Paris, PUF, 1993; G. Iotti, M-G Porcelli (dir.), Il corpo e la sensibilità morale: letteratura e teatro nella Francia e nell’Inghilterra del XVIII secolo, Pisa, Pacini, 2011; S. Arnaud, H. Jordheim, Le corps et ses images dans l’Europe du dix-huitième siècle, Paris, Honoré Champion, 2012; etc.
[8] «È la carne che è difficile rendere; è quel bianco untuoso, omogeneo senza essere pallido, né opaco; è quella miscela di rosso e di blu che traspira impercettibilmente; sono il sangue, la vita a fare la disperazione del colorista. Colui che ha acquisito il senso della carne ha fatto un grande passo; il resto non è nulla in confronto» (Diderot, Salon 1765, in Id., Œuvres complètes, ed. DPV, Paris, Hermann, t. XIV, p. 354).
[9] «Ciò che il mio linguaggio nasconde, il mio corpo lo dice. Il mio corpo è un bambino cocciuto, il mio linguaggio è un adulto civilizzato» (R. Barthes, Fragments d’un discours amoureux, Paris, Éditions du Seuil, 1977, pp. 53-54).
[10] «Mon corps est ici, mais mon cœur n’y est pas ; il est au dehors», Diderot, La Religieuse, in Id., Œuvres complètes, cit., p. 154.
[11] Ivi, p. 124.
[12] «Un sudore freddo si riversò sul mio corpo: tremavo, sentivo che le ginocchia mi si piegavano; guardavo con terrore le tre fatali compagne. Erano in piedi l’una accanto all’altra su una stessa linea, il volto cupo, le labbra strette e gli occhi chiusi. Il terrore aveva rotto le parole della domanda che avevo posto, a giudicare dal silenzio, credetti che non mi avessero sentita […]. Volli gridare, ma la mia bocca era aperta e non vi sortiva alcun suono. Tendevo verso la superiora le braccia supplichevoli, e il mio corpo che veniva meno, si rovesciava all’indietro. Caddi, ma la mia caduta non fu violenta; in quei momenti di angoscia, in cui insensibilmente le forze ci abbandonano, le membra cedono, si afflosciano, per così dire, le une sulle altre e la natura, nell’impossibilità di sostenersi, sembra che cerchi di venir meno mollemente. Persi conoscenza e sentimento; sentivo soltanto ronzare intorno a me voci confuse e lontane; che le monache parlassero o fossero le mie orecchie a ronzare, io non sentivo nient’altro che quel ronzio ininterrotto. Ignoro per quanto tempo rimasi in quello stato, ma ne riemersi per una sensazione improvvisa di fresco che mi provocò una leggera convulsione e mi strappò un profondo sospiro. Ero percorsa dall’acqua, colava attraverso i miei abiti a terra, era quella di una grande acquasantiera che mi era stata riversata sul corpo. Ero sdraiata sul fianco, stesa in quell’acqua, la testa appoggiata al muro, la bocca semiaperta e gli occhi spenti e chiusi. Cercai di aprirli e di guardare, ma mi sembrò di essere avvolta in un’aria densa attraverso la quale intravedevo soltanto degli abiti ondeggianti ai quali cercavo di aggrapparmi senza riuscirci; facevo forza sul braccio che non mi sosteneva, avrei voluto sollevarlo, ma lo sentivo troppo pesante. A poco a poco, la sensazione di estrema debolezza diminuì; mi sollevai, mi appoggiai con la schiena al muro; avevo entrambe le mani nell’acqua, la testa reclinata sul petto e emettevo un lamento inarticolato, rotto e penoso», Ivi, 169-170.
[13] Cfr. A. Coudreuse, Le goût des larmes au XVIIIe siècle, cit., pp. 162-191.
[14] La trattatistica medica dell’epoca conferma questa tesi; cfr. T. de Bordeu, Recherches sur les maladies chroniques, Paris, chez Gabon et Brosson, 1800, p. 78.
[15] Cfr. Diderot, Éléments de physiologie, ed. P. Quintili, Paris, Honoré Champion, 2002, p. 177; Bordeu, Recherches anatomiques sur la position des glandes et sur leur action, Paris, chez Quillau, 1751, p. 378.
[16] In un passo del romanzo in cui è descritto un momento di intimità tra la superiora di Saint-Eutrope e Suzanne, Diderot descrive il raggiungimento dell’orgasmo della superiora con gli stessi tratti che, nel passo citato, descrivono il corpo sofferente ed estatico a un tempo di Suzanne; cfr. Diderot, La Religieuse, in Id., Œuvres complètes, cit., p. 227. Si noti anche che Suzanne caratterizza a più riprese la condizione in cui versa la superiora come una malattia che acquisirà pure un carattere contagioso; cfr. Ivi, p. 233. Per verificare la stessa ambivalenza degli atteggiamenti del corpo ritratto attraverso due registri nettamente contrastanti, si confronti la scena della morte di sœur Ursule a Longchamp con quella dell’apice del godimento fisico di Marguerite che, in Jacques le fataliste et son maître, è la vittima della falsa iniziazione sessuale di Jacques; cfr. Ivi, p. 201 et Diderot, Jacques le fataliste, in Id., Œuvres complètes, ed. DPV, Paris, Hermann, 1981, t. XXIII, p. 223.
[17] Cfr. R. Kempf, Diderot et le roman ou le démon de la présence, Paris, Éditions du Seuil, 1964, pp. 103-104.