FRANCESCO ORLANDO – TENEREZZA FAMILIARE E SEPARAZIONE TRAGICA
[Il testo che segue è uscito nel 2007 nel programma di sala che ha accompagnato la messa in scena al Teatro Comunale di Firenze della “Valchiria” di Richard Wagner.]
Il mondo della sua futura tetralogia Wagner lo intravide trentenne nel 1843, leggendo la Mitologia tedesca di Jakob Grimm. Dice in La mia vita che, «dai più scarsi frammenti d’un mondo tramontato», vide affiorare «una costruzione confusa, che a prima vista somigliava a un aspro terreno tutto crepacci, cosparso d’una misera sterpaglia». E malgrado fosse avvinto come dal fascino d’un ritrovamento e d’una rinascita, dubitò di potervi edificare mai qualcosa di suo, «non incontrando in nessuna direzione niente di compiuto, che somigliasse a una linea architettonica». Ci sarebbero voluti ventisei anni di genesi intermittente, 1848-1874 (ne riparlerò quando Crepuscolo degli dei chiuderà il ciclo), perché definisse da cima a fondo le poderose linee architettoniche che sappiamo – tanto più sue quanto più liberamente aveva rimescolato e fuso elementi grandi e piccoli attinti alle fonti medievali islandesi, norvegesi, tedesche. Pure, se qualcosa è rimasto dell’eclettica libertà presa con le fonti, lo tradisce innanzi tutto un noncurante disordine nella distribuzione delle notizie relative agli antefatti: notizie sparse lungo le quattro opere in momenti numerosi, distanti, a volte tardivi. Se questo c’interessa soprattutto ora, è perché fra prologo e prima «giornata» si situa (l’ho già detto) uno iato narrativo d’imprecisabile durata, dove i fatti avvenuti sono tali e tanti che sarebbero bastati a riempire un quinto spettacolo, e invece riempono La Valchiria di racconti. Fortuna che del racconto musicale, dall’orchestra o dalla voce stessa alimentato di temi successivi o sovrapposti, cioè di significati in relazioni sempre nuove, Wagner è il maestro.
Alla fine dell’Oro del Reno, per saperne di più sul profetico monito di Erda, Wotan aveva voluto trattenerla mentre tornava a inabissarsi, poi si era ripromesso in turbamento e timore: «a lei devo scendere!». Nella Valchiria dobbiamo aspettare la metà del secondo atto, perché racconti che (fra le due opere) lo ha fatto; e da lei, «con incantesimo d’amore», non solo ha appreso tutto sul crepuscolo che minaccia gli dei, ma ha generato Brunilde e otto sorelle. Sono – integrate nella famiglia divina, tenute all’obbedienza verso Fricka – le valchirie: che “scelgono i caduti”. Loro compito è condurre su cavalli alati i morti più valorosi, fra gli uomini, al Walhall; per munirlo di schiere d’eroi tali che risulterebbero vittoriose, in una prospettiva mitica che toglie rilevanza addirittura alla distinzione fra morti e vivi, contro le «schiere notturne» di Alberich. È sempre Alberich infatti, secondo la rivelazione di Erda, l’avversario da cui l’apocalittico pericolo oscuramente proviene. Ma solo in un caso potrebbe essere lui a volgere per costrizione gli stessi eroi contro il dio, e il Walhall sarebbe allora perduto: se mai si riappropriasse dell’anello, rimasto al gigante Fafner, il cui inerte possesso si sottintende che non rassicuri abbastanza Wotan. I versi che lo spiegano, passo poco appariscente d’un lungo racconto (facile preda di tagli, quando usava), sono la chiave fattuale della trama di tre opere su quattro. Ci si potrebbe fermare all’idea che orde di diseredati minaccino la fortezza dei possidenti, e questi predispongano contro quelli una difesa militare – di che legittimare le peggiori letture unilaterali da destra. E invece la centralità dell’anello, già ottenuto da Alberich maledicendo l’amore, e a lui strappato da Wotan per analoga brama di potere, tiene ferma l’antecedente complementarità fra loro (di cui ho parlato): quasi un unico duplice personaggio, in cui un vasto ideale soggetto di classe sublima o ripudia opposti aspetti di sé. Solo che l’aspetto nobile e quello ignobile, pur restando geneticamente speculari, si sono divaricati in diacronia: il desiderio del nibelungo è immutato, il desiderio del dio si è fatto progettante interesse a una disinteressata illusione.
Ne deriva un secondo antefatto, successivo nel tempo narrato ma precedente nelle conseguenze rappresentate, non inducibile da un racconto solo ma da più racconti e indicazioni per un atto e mezzo; nei graduali riconoscimenti, la musica precorre le parole, l’ascoltatore indovina prima dei personaggi. Wotan, dunque, non può concepire di ritogliere lui stesso l’anello a Fafner, avendoglielo ceduto in pagamento secondo uno di quei patti dei quali è il garante sovrano – come lo è del feudalesimo cosmico anteriore all’inizio del ciclo. Concepisce allora un singolare sdoppiamento, o spersonalizzazione, o negazione dell’io: un tentativo patetico e antilogico di uscire da se stesso restando necessariamente se stesso, di porsi quale soggetto altro senza che un altro soggetto oggettivamente ci sia. A questo scopo valorizza di nuovo, come nelle scelte delle valchirie, quegli uomini che gli sono sudditi benché non comparissero nell’Oro del Reno. Scende fra loro (come non pensare un attimo al mito cristiano? niente di simile c’era nelle fonti), per apparire irriconoscibilmente uno di loro. Sposa una donna di cui i racconti neanche ci dicono il nome, genera un figlio e una figlia, gemelli. Estraniato dagli dei in mezzo agli uomini, anche dalla comunità umana estrania selvaggiamente sé e i suoi. Se li inimica contrariandone la morale, si denomina Lupo in avversione al loro conformismo da cani, e il risultato voluto è, per i suoi, il dolore. Un giorno la dimora viene incendiata, la madre uccisa, la figlia donata in matrimonio a forza, senz’amore; un vecchio straniero apparso a quelle nozze, non altri che lui, lascia infitta in un tronco d’albero una spada che nessun uomo sarà così forte da estrarre. E una tale spada aveva promesso al suo Lupatto, a cui sono riservate dure prove, dopo che del padre scomparso ha ritrovato solo una pelle di lupo. Respinto sempre se cerca fra gli uomini amicizia, amore, valori e disvalori condivisi, li sfida volendo salvare una fanciulla da un matrimonio senz’amore – come quello, che ignora, della sorella. La sua fuga da un inseguimento mortale, disarmato e ferito, non è più antefatto: è ciò che racconta il preludio orchestrale prima che si alzi il sipario.
Da questi antefatti, oltre che dalla propria trama, La Valchiria deriva caratteri che ne assicurano l’unità entro quella più ampia del ciclo. Certo, è vero per le tre «giornate» ciò che anticipavo raccontando i due eventi speculari i quali, all’inizio del prologo, segnano il trapasso dalla preistoria alla storia, furto dell’oro e costruzione del Walhall: che sino alla fine del ciclo non sarebbe in fondo quasi successo più niente; solo ripercussioni o ripetizioni fatali delle uniche due cose, anzi dell’unica cosa veramente successa. E certo, è di tutte e tre le «giornate», rispetto al densissimo e sveltissimo prologo, un rallentamento o dilatazione dei tempi narrativi. Così pure, una divaricazione fra trame proprie e prosecuzioni della trama del ciclo – che nella Valchiria però si limita ancora ai molti racconti. Così pure, la frequenza di quelle grandi scene a due che non c’erano ancora nel prologo – e che nella Valchiria sovvertono più volte le posizioni di uno o di entrambi gli interlocutori. Ma unico è qui il fatto che i veri antagonisti, Alberich aspirante a riprendersi l’anello, Fafner suo possessore effettivo, tutt’altro che assenti dalle motivazioni della trama, sono però relegati appunto al livello delle motivazioni: lontani dalla scena, e quasi sempre anche dai discorsi. Gli antagonisti di turno, Fricka e Hunding, non sono affatto personaggi di dignità inferiore; interna al mondo di Wotan non è solo la prima, in quanto dea e sposa, ma anche l’altro in quanto suddito nel feudalesimo primordiale esteso agli uomini, il che vale per l’intero sfondo ambientale del primo atto. Ne è assicurata l’astensione da toni sordidi, grotteschi o anche ironici; più in generale, la musica nibelungica (quale ho già provato a definirla) si fa sentire stavolta assai di rado. L’ininterrotta, dolorosa, a momenti “classica” nobiltà di stile musicale, il trattamento così spesso intimo e “cameristico” dell’orchestra nel silenzio significativo delle voci, rendono La Valchiria tributaria d’una poetica della tragedia – dopo la perfetta tragicommedia che era L’oro del Reno, e ancor più di quanto non voglia la formidabile alternanza che farà un’altra tragicommedia di Sigfrido e un’altra tragedia di Crepuscolo degli dei.
* * *
Un uomo fugge nella tempesta. Sono incessanti e la pioggia e la corsa: lo dice sia il pedale in re di rapide sestine per ben 60 battute nei secondi violini e viole, ossessionante con furiosa calma nell’oscillare tra forte e piano, sia il salire e scendere dei violoncelli e contrabbassi che c’è sotto, regolare pur nelle variazioni che sperimenta e negli strattoni dei gruppi di cinque semicrome a inizio di battuta. Quando l’orchestra è entrata tutta e il disegno monta ai primi violini, gli strattoni diventano tre per battuta, ogni ordine ritmico vacilla, lo squillare tonale degli ottoni discorda per cinque volte con una caotica armonia. Tuono e fulmine culminano nei timpani, ma anche in quello squillo quattro volte disarticolato in discesa, dal fortissimo al piano; il placarsi della bufera lascia lungamente a nudo sui timpani, decrescenti, il regolare disegno iniziale negli archi bassi. Ricordiamoci che una tempesta chiudeva quasi l’Oro del Reno, se quest’altra apre La Valchiria. L’una, godibile e liberatoria, era provocata a volontà da Donner dio dei tuoni e fulmini; l’altra è subìta sulla terra, da un mortale che la natura si è unita agli uomini nel perseguitare. Vero e proprio capovolgimento di punto di vista, periodico per due atti nella nuova opera, che al primo ascolto non si nota. La fanfara degli ottoni, luminosamente tonale ed euforicamente ritmata quando la intonava Donner, si riconosce a stento; assai più nascosta ancora è la derivazione del disegno di fuga e corsa, negli archi bassi, dal tema della lancia di Wotan o dei patti. Il mondo su cui si alza il sipario è infatti pur sempre mondo governato da Wotan, sebbene il dio vi abbia nel frattempo soggiornato in veste clandestina e trasgressiva. La dimora primitiva che fa da scenario è accentrata intorno a un gran tronco di frassino; l’uomo a cui appartiene si chiama Hunding. E l’albero e il nome provengono dalla fonte dominante nella Valchiria, la Saga dei Völsunghi, ma è di Wagner tanto la vicinanza del feudalesimo cosmico alla natura vegetale, quanto la contrapposizione tra i figli «di cane» e «di lupo» (Hunding, Wölfing, letteralmente).
È il Lupatto inseguito ed esausto che, a caso?, si rifugia e si abbatte lì dentro. Entra in scena la giovane sposa di Hunding; chiamiamoli fin da ora (come fa il testo stampato) coi nomi che assumeranno più tardi: Siegmund, Sieglinde. Il dialogo si apre sull’invocare da bere di lui e sulla sollecitudine di lei nel ristorarlo. A un tema di lui che si era formato nei violoncelli, risponde altrettanto sommesso un tema di lei nei violini; l’offerta dell’acqua è un episodio da altissima musica strumentale, soli archi che salgono al forte per ridiscendere e risalire sempre meno alto e più piano, fino a dare il passo alla voce sospendendosi su un gruppetto d’ineffabile gentilezza. Ma al bere segue un non meno sublime momento, più propriamente cameristico perché affidato a un violoncello solo, per 9 battute sul silenzio e per altrettante su pochi archi bassi. È il primo scambio d’un profondo sguardo, già più che virtualmente d’amore. Di due parti del tema che resteranno temi entrambe, la prima rallenta languidamente la seconda parte di quello di Freia: presso gli dei dell’Oro del Reno, la tenerezza tra fratelli e sorelle era famiglia e natura; qui, la sensualità che la radicalizza e la denuda non può essere che reciproca e immediata. L’episodio di archi all’offerta dell’acqua torna quasi uguale, con delicate ingerenze dei fiati, all’offerta dell’idromele; di nuovo il bere è seguito dal tema di sguardo e d’amore, che al di sotto d’una nota alta di clarinetto riemerge da una nota bassa dei violoncelli, invertite le sue due parti in un’esposizione più diffusa. Siegmund ha tre volte fretta di fuggire per non recare sventura, Sieglinde si lascia andare a dire che lì la sventura è di casa. Mentre restano a guardarsi e tacciono, un nuovo più duraturo tema di lui, formatosi sempre nei violoncelli, si dà la replica con quello di lei nei violini o nei clarinetti. Salvo l’approssimazione inevitabile quanto alle durate assolute, si contano, fra l’ingresso di Sieglinde e il preannuncio del tema di Hunding in arrivo, 108 battute in cui hanno parte le voci contro 115 di orchestra sola – e mai piena: per un dialogo operistico, un assoluto record. Strumenti e sguardi parlano come è prematuro che faccia la parola.
Il tema di Hunding enunciato dalle tube, ma trasferibile a uno scabro staccato d’archi, è così ritmato nella sua durezza barbarica da azzerarsi poi spesso a ritmo puro, in bassi vari e timpani; cellule ritmiche lo imparentano qua e là impercettibilmente sia ai giganti che ai nibelunghi, stirpi ostili a quella divina. La lunga scena a tre è resa possibile dal fatto che Hunding e Siegmund non si fossero mai visti, e nel padrone di casa il culto dell’ospitalità, proclamato in una doppia frase discendente a nuda voce, è inizialmente impeccabile. Fra quando lui stupisce tra sé che agli altri due lampeggino ugualmente gli occhi, e quando dichiara all’ospite di averlo identificato come sacrilego nemico, il movimentato racconto dello straniero si articola in risposta a tre domande di Sieglinde, che non nasconde curiosità né parzialità per lui. Narra prima di padre, madre e sorella, lasciando indeciso il proprio nome tra Wölfing e Wehwalt (signore del dolore); poi, del suo isolamento morale, dopo la sparizione del padre che è per lui mistero – nei tromboni il Walhall in triplo pianissimo; infine, della fanciulla morta che aveva difesa invano, e in orchestra sorge accorato e nobile il tema dell’ascendenza dei gemelli. Come non dire oggi, dopo il cinema, che questi squarci di racconto tutti foresta, caccia, corni, armi, violenza e vendetta sanno irresistibilmente di preistorico western? Ma i temi d’amore nel clarinetto e nell’oboe, a tre riprese, corrispondono agli sguardi fra loro due, prolungano in presenza d’un terzo una comunicazione muta. Vocalmente, va detto qualcosa che valeva già per la scena precedente, varrà altrettanto per la prima metà del secondo atto, ed è il corrispettivo della sobrietà orchestrale sopra segnalata in ampie parti della Valchiria. Se parti ancora più ampie, qui e altrove, fanno di Wagner il sommo punto e d’arrivo e di partenza delle tendenze a un sinfonismo operistico, meno scontato è che nelle scene di cui parlo tocchi un vertice, degno di Monteverdi o di Bellini, la scultorea bellezza di recitativi tanto musicalmente ispirati quanto modellati sulla parola.
Hunding accorda un tetto al fuggiasco per la notte, ma gl’impone di battersi al mattino pur sapendolo senz’armi. Durante 58 battute di sola orchestra, s’incrociano tre sguardi: Sieglinde prepara una bevanda notturna, poi benché Hunding la scruti, trasalisca, la scacci, tenta di orientare col suo lo sguardo di Siegmund su un punto del tronco di frassino. Ciò che indica lo proclama la tromba bassa, entro il velo d’un tremolo di violini, e il tema ripassa nei legni in minore. Siegmund rimasto solo al buio, braccato dalla sorda minaccia del ritmo di Hunding, esclama che il padre gli aveva promesso una spada; gliela chiede invocandolo col nome che crede il vero, Wälse, su note tenute a piena voce. Allora la brace illumina, miracolo pagano, quel punto del tronco; la tromba scatta forte e tagliente nel fitto tremolo dei violini, e dovremmo riconoscere quel tema: aveva corrisposto al «gran pensiero» di Wotan nel momento di dare nome e destinazione al Walhall. Ripetendosi, nella tromba e non solo, annuncia l’elsa di spada che ancora non vede Siegmund – il quale torna rincuorato al vagheggiamento della donna, prima che il monologo si richiuda nel buio. Ecco Sieglinde, che ha versato al marito una bevanda soporifera, e non anela che a fargli a sua volta un racconto: ne ho anticipato il contenuto. Sotto la voce di lei, il plastico tema della spada si congiunge finalmente al suo significato; all’entrata del vecchio straniero, il tema del Walhall acquista una familiarità dolce e misteriosa; al riconoscimento del padre, un’analogia ritmica rende lo stesso tema indistinguibile da uno di quelli dell’amore. Irrompono, da entrambe le parti, abbandoni a piena voce che suonano rivalsa sui lunghi silenzi recenti come sulle vicende passate, e fanno immediatamente di due infelicità una felicità sola. Tragedia, sì, La Valchiria; ma che qui trascende l’illusione effimera, e travolge ogni ironia tragica, in una pienezza di sollievo assoluta. Di colpo la grande porta al fondo si spalanca da sola: chi è uscito, o entrato?, chiede lei spaventata; lui risponde che nessuno è uscito, che è entrata la primavera – come notturnamente s’intravede fuori.
L’onnipotenza di risorse wagneriana fonde e brucia nella storia d’amore più matrici culturali, oltre le fonti di base. Il reietto Siegmund è erede, rimotivato, d’una dinastia di eroi romantici trasgressivi e antisociali. Poco dopo la tempesta, la primavera propizia all’amore è memore di lontane origini medievali, perfino romanze. D’altra parte romantiche, musicalmente, anch’esse: la grande tradizione tedesca del Lied non riecheggia solo nella canzone primaverile di lui, soave tregua al flusso sinfonico. Anche nella cantabilità spiegata con cui, subito dopo, le scambievoli confessioni prendono slancio vocale dal tema dell’amore: quella di lei, più lunga e su versi indimenticabili, consacra nell’incesto un ideale di amore come, insieme, rivelazione di sé a sé e trasparenza fra un io e un tu. Si trapassa a un episodio dove l’ansimare e languire del cromatismo, all’opposto che nel desiderio metafisico o prenatale del Tristano, trasfigura l’orgasmo fisico adulto con una audacia che non ha forse l’uguale in musica. La certezza di riconoscere il fratello, in Sieglinde, passa di nuovo dalla velata suggestione del Walhall, poi dalla propria immagine a specchio nel ruscello, poi dall’eco della propria voce in cui si risolve l’incanto d’un ricordo d’infanzia, poi dal lampo nell’occhio del vecchio straniero. Eppure l’agnizione finisce di compiersi solo sul nome del padre, Wälse, non Wotan per loro, permettendo a lei d’impartirgli il nome di Siegmund (bocca di vittoria); a lui di balzare al tronco e afferrare l’elsa, sul tema dei Wälsunghi che è ricomparso sempre più stretto e nervoso. L’invocazione a piena voce non si rivolge più al padre ma alla spada, denominata a sua volta Notung (figlia della necessità, o dell’angoscia), su tremolo d’archi possente come lo sforzo dei muscoli. Siegmund ce la fa, la spada estratta trionfa in do maggiore a tre trombe; su un’improvvisa esaltante transizione a mi maggiore, decide di rapire via colei che solo ora si dà nome Sieglinde (scudo di vittoria). La primavera li aspetta, e fiorirà il loro sangue fraterno – ma nelle ultime due note in cui trabocca il crescendo orchestrale, nessuno riconosce un tema di schiavitù, dalla musica di Alberich.
È infatti di nuovo una fuga, a due, che narra il secondo preludio. Al tema della spada variato in minore, risponde anch’esso accelerato quello dell’amore; si fa tema ansiosamente montante il sensuale episodio cromatico; poi è come se, sinfonicamente, cambiasse la scena. Cessa in basso il ritmo inseguitore di Hunding e, preparato dal resto dell’orchestra in fortissimo col ritmo ternario d’ogni attività fisica, esplode negli ottoni per 8 battute il tema delle valchirie. Scenario di selvaggia montagna: l’unico nella geografia del ciclo, vale la pena di osservarlo, a non avere un nome né essere la sede di qualcuno. Forse è una conferma dell’ideale centralità di quest’atto: il più difficile fra i più grandi di Wagner, per la portata “metalinguistica” della sua prima parte, che ne rende di frequente astratto o ardito il linguaggio verbale o musicale. Non subito, comunque: in scena compare, con Wotan, Brunilde; assisterà all’imminente scontro fra Hunding e Siegmund, al quale è assicurata la vittoria. La valchiria lancia il suo grido, armonicamente aspro, variante pure ternaria di quel ritmo ripetuta con quattro vertiginosi salti di ottava; seppur finalizzata, l’attività fisica esulta in un benessere elementare (come per le ondine). Prima di uscire, Brunilde vede arrivare Fricka e avverte il padre, con qualche irriverenza, del ben diverso scontro verbale che gli si prepara con la sposa incollerita. La dea delle nozze viene a dolersi dell’adulterio e incesto commessi dai gemelli, loro stessi scandaloso frutto di tradimento e degradazione. È la voce della conservazione (come nell’Oro del Reno); fra i distesi recitativi del dialogo, i suoi veementi o maestosi cantabili le conferiscono dignità, autorità, a momenti dolcezza. Finché la contesa verte sulla morale, Wotan resta tuttavia il dio intraprendente e ironico che conoscevamo; nelle sue obiezioni ha buon gioco la benigna superiorità dell’innovatore, lascivamente secondata dai violoncelli coi temi dell’amore e della primavera. Le cose cambiano quando si fa serio e, opponendo alla tradizione «quel che mai non avvenne», enuncia l’idea dell’eroe di cui gli dei hanno bisogno e che non ha bisogno di loro.
Su un tale terreno concettuale, Fricka si rivela un’interlocutrice dalla temibile logica. Smaschera prontamente la sua pretesa di voler fare e non fare a un tempo qualcosa, delegandola a un altro che ha suscitato lui stesso. Contraddizioni della paternità: forse che un figlio agisce da solo, a condizione d’ignorare il senso delle proprie azioni e di sormontare sofferenza e fatica, se il padre ha pianificato tutto per lui e lo dirige a distanza? Forse che Siegmund è andato a finire per caso nel luogo dove l’invincibile spada lo aspettava? Da quest’argomento in poi, Wotan non replica che con impotenti gesti d’ira. Il tema della sua frustrazione, altra nascosta derivazione dal tema dei patti, dopo un accigliato gruppetto scende assorto per cinque note come se riluttasse a farlo: tra prolungamenti della nota iniziale e scansioni interrotte di esso, Wotan giura di ritirare ogni protezione al Wälsungo. All’uscita di Fricka, nei tromboni all’unisono risuona la maledizione di Alberich. Ma Brunilde è rientrata: all’esplosione di furore del padre umiliato lo supplica di confidarle cos’ha; la tenerezza con cui lui le accarezza i riccioli è parificata, dal clarinetto basso, a un altro amore familiare che conosciamo. E le contraddizioni della paternità si ripresentano inavvertite: Wotan, convinto dolcemente da lei su sommessi corni, presume di parlare soltanto con se stesso se racconterà a lei. Contropartita musicale del più intimo abbandono, il suo racconto comincia bisbigliato su una profonda nota di contrabbassi, e per una decina di minuti archi e fiati nella partitura non leggono quasi che in chiave di basso, pianissimo o piano. Ma saltiamo all’estremità della lunga scena: Brunilde riprende la parola solo per chiedere di Siegmund, del fratellastro caro a lei come al padre, dalla cui «ambigua parola» ha compreso che ora le tocca sacrificarlo; osa opporre un rifiuto. No, non si parla impunemente ad altri. Troverei meno forzato di molte “libere” interpretazioni sceniche, se la clamorosa minaccia con cui la atterrisce Wotan fosse già fatta apparire come anche inconsciamente recitata: per provocarla all’opposizione reale, per fare di lei davvero un soggetto indipendente – un altro.
La prima incarnazione di quell’Altro assoluto chiamato così nei versi stessi del testo, sognato da Wotan monologante in presenza di lei. «Nauseato ritrovo – eternamente solo me – in tutto ciò che faccio! – L’Altro a cui aspiro, – l’Altro non lo scorgo mai: – da sé chi è libero deve crearsi; – servi soltanto io mi asservisco!». Una tale esigenza, nascente dalla tendenza che sappiamo a sdoppiare un soggetto unico, non può essere che utopia. Proiezione del meglio di sé verso l’alto, complementare alla proiezione del peggio verso il basso data fin dall’inizio nella razza nibelungica. L’Altro dal basso, condannato a esistere anche troppo, corrisponde a un momento che semplificando assai posso chiamare razzista; l’Altro dall’alto, votato al rischio dell’inesistenza, corrisponde al momento utopico – a sua volta strettamente connesso con quell’incesto di cui ci si può chiedere se nella Valchiria ce ne sia uno solo o due. Wotan non può riconoscersi nell’Altro dall’alto, per la speranza che resti veramente, liberamente tale; nell’Altro dal basso, per paura che cessi di esserlo se un’aborrita identità trapela. Il tema che scorre senza requie sotto l’appello di lui lega il tema di natura in minore, o di Erda, a quello della frustrazione, non derogando dal tono della tragedia. Così, a un secondo scoppio di disperazione, esce il tema dell’amore sotto il rimorso del padre che deve uccidere chi ama, tradire chi confida in lui. Ma qui si riparla di Alberich, di Fafner, si riascolta il tema dell’anello come della maledizione; la più ripugnante musica nibelungica introduce la notizia che lo gnomo ha ingravidato una donna grazie all’oro (lapsus d’autore: quale oro? di fatto l’ha da tempo perduto). Il tema del Walhall si fa irriconoscibile, spezzato e inframmezzato dal tema dell’oro, su un metallico allucinato tremolo di piatti, quando Wotan saluta il figlio non ancor nato del nemico con una sarcastica benedizione. Dopo la sua sfuriata autoritaria, Brunilde resta sola. Intona poche frasi; tromba bassa piano nel tema delle valchirie, su silenzio e timpani; lento malinconico impasto orchestrale, interrotto a sorpresa dai violini in tempo agitato. Ha visto arrivare i gemelli, a cui lascia la scena.
Lo stacco ci riporta al secondo preludio, che aveva già tramutato la loro esaltazione in fretta angosciosa: ancora tema d’amore accelerato, tema sensuale montante, ritmo d’inseguimento. Al calore vocale di lui che la implora di sostare, e parlargli, fanno eco tenerissimi i corni. Ma sull’abbraccio di lei i violini salgono fino allo spasimo, e il dolce ricambio dei legni è troncato da un soprassalto; alternando il grido di vergogna ai temi erotici fatti nostalgicamente strazianti, Sieglinde si afferma a sua volta quale vittima trasgressiva: è il matrimonio subìto senz’amore, non l’adulterio, che l’ha disonorata. Vede vaneggiando l’«onda dei cani» di Hunding, simbolica ma spaventevole: abbaiano al cielo, loro, per la fede nuziale infranta, ma digrignano zanne avide di carne. Quando a metà del delirio si rivolge a Siegmund, nuova è (come nel racconto del primo atto) l’intensità della sua melodia – asimmetrica e cromatica, divagante fra struggenti semitoni. Nel parossismo, vede spezzati e la spada e il frassino; cade esanime in braccio a lui che se l’adagia in grembo, mentre il tema dell’amore ripassa mestamente quieto da legni solisti a violoncelli. Col trapasso dai violoncelli alle tube wagneriane, stacco di segno inverso al precedente, arriviamo a un culmine musicale e teatrale: la valchiria si avanza guidando il cavallo bianco, mitologica (su uno scenario ideale, lo s’immagina a sera). Sempre in pianissimo e per due volte, nelle tube tre note ripetono la loro interrogazione, nelle trombe ascende una frase solenne che resta aperta sulle stesse tre note. Poi, il pianissimo estrania un inciso del Walhall: di fronte all’ignara prospettiva terrena di Siegmund, per l’unica volta nel ciclo, sta il soprannaturale. All’annunciatrice di morte rivolge sei domande; apprende chi lei è, dove lo condurrà, che ci sarà Wotan, ci sarà Wälse suo padre, lei stessa gli offrirà da bere. La sesta risposta rompe l’incantesimo: no, Sieglinde non potrà seguirlo lassù. «Allora salutami il Walhall», dice lui; salutami Wotan, Wälse, le valchirie: senza di lei non verrò con te. La scena (anche verbalmente tra le più perfette di Wagner) è divisa in due da queste «molto decise» parole.
Fine del pianissimo e dell’estasi; un brivido erompe negli archi fortissimo (presagio della marcia funebre nel Crepuscolo). Siegmund non ha paura di Hunding, e la tromba è lì a dargli ancora ragione col tema della spada. Allora Brunilde alza la voce perché sappia che all’arma è stata tolta la sua virtù. Lui si dispera di tradire la fiducia di Sieglinde, prima ancora d’imprecare contro chi lo ha tradito; se deve morire andrà, piuttosto che al Walhall, all’inferno (tra i non “scelti” dalle valchirie). La sua grandezza di personaggio reietto sta nell’incarnare a fondo la categoria di chi è sfiorato, usato, rigettato dalla storia senza saperlo neppure – non identificherà mai, in Wälse, Wotan. Ma a questo punto è Brunilde che, anche lei su melodia calante per semitoni, sta imparando qualcosa d’ignoto: si può preferire una derelitta creatura alla gloria divina. A Siegmund, che l’accusa d’insensibilità sulla frase accelerata dell’annuncio di morte, scopre la sua compassione sulla stessa melodia (alla lontana, un duetto). Gli svela che la donna è incinta, e poiché lui sta per recidere con la spada entrambe le vite, gli grida la decisione che covava da quando aveva tentato di resistere al padre: rovescierà di nuovo le sorti, lo farà vincere. Corre via e l’orchestra si scatena in giubilo, mentre si oscura di nubi la scena. Siegmund lascia dormire Sieglinde: con lui, gli archi meditano sul mistero del sonno, sorridono a un sogno primaverile, la carezzano nel bacio di congedo. A risvegliarla è l’incubo infantile dell’incendio, che le si confonde col tragico western frattanto ripartito. Ritmo di Hunding in un rauco corno di toro, sfide fra i due uomini che nella nebbia non s’incontrano, lampi e tuoni. Sullo scontro plana Brunilde al di sopra di Siegmund, e negli ottoni fraternizzano spada e valchirie; ma sorge Wotan al di sopra di Hunding, e contro la sua lancia si spezza la spada. Allo sguardo del padre sul figlio ucciso non sono concesse più di 8 funebri battute. Brunilde ha il tempo di rapire Sieglinde sul suo cavallo e fuggire. Wotan, nel rinviare Hunding a Fricka vendicata, con un gesto di disprezzo lo atterra morto; ed ora, come potrebbe l’ira non sospingerlo dietro la figlia disobbediente?
Il terzo atto non ha preludio distinto dalla scena in cui le valchirie si radunano sotto la cima d’una rupe, arrivando ognuna con in sella un guerriero ucciso, da condurre al Walhall. Subito raffiche d’archi, e fischianti sestine di semicrome nei legni acuti; il tema delle valchirie, finalmente completo, scandisce la sua figura ritmica e melodica su note di accordo perfetto; a sipario alzato porta due volte gli ottoni da piano a fortissimo, la seconda da minore a maggiore; si alterna e combina col grido selvaggio già ascoltato, che culmina pure in un fortissimo a sei voci. Simili sestine di semicrome, qui accavallate in fluido vento, avvolgono anche altrove tutte le grandi onomatopee di natura (scorrere del fiume, scintillio dell’arcobaleno, fruscio della foresta, divampare del fuoco), inclusi i vapori tempestosi di Donner. Qui la tempesta è di nuovo, a differenza da quelle dei primi due atti, godibile da un punto di vista superiore alla precarietà umana. E non è certo d’una sola sera il rito delle valchirie – né era d’una sola mattina il nuoto e l’inno delle ondine intorno all’oro, o sarà d’una sola notte il filare e cantare delle norne sulla stessa rupe. In tutte e tre le scene, tre mitiche sorelle, o nove, ci fanno assistere una volta sola a qualcosa che accadeva innumerevoli volte, e di cui non sanno che accade per l’ultima volta. Da qui, nella sua molteplicità di piani sonori, l’uniformità iterativa, l’interminabilità virtuale di questa musica (e il suo impoverirsi nel decontestualizzato e chiuso pezzo antologico, quand’anche non venga mutilata delle voci). La ritualità, perdurante mentre otto valchirie si contano e avvistano la ritardataria Brunilde, è travolta di colpo in orchestra: fine della preistoria, irruzione della storia (come in quelle due altre scene); il senso del trauma si ripeterà, in bruschi attacchi e violente cadenze, sino a tutta la scena seguente. Prima ancora che l’affannata sorella racconti, l’infierire della tempesta è ridiventato persecutorio; dopo, le altre otto voci cominciano a intersecarsi stridule, con audacia armonica pari alla novità che le sconvolge. Ma concordano nell’obbedienza al padre, nessuna presterà a Brunilde un cavallo per la donna che vorrebbe salvare.
Interviene Sieglinde che non vuole, perduto Siegmund, essere salvata. Pronta Brunilde le rivela la sua gravidanza, e nelle impennate dei violini e nel canto la materna volontà di vivere irradia immediata; pronta Brunilde le sacrifica l’unico cavallo, il proprio (siamo lontani dalle rivalità della drammaturgia operistica tradizionale). Le valchirie in vedetta scorgono l’appressarsi di Wotan, incitano via l’intrusa. Brunilde sa benissimo quel che fa consegnandole la spada in due pezzi, e imponendo al nascituro sia un nome, Sigfrido (pace nella vittoria), sia, di sua voce, un tema. Tema chiaro e virile, da riascoltare in futuro quanto pochi altri; aveva avuto il suo cenno di preannuncio l’atto prima, e ha cruciale somiglianza melodica e opposizione armonica con la maledizione, come lo splendente Walhall col fosco anello. La riconoscenza di Sieglinde si dispiega due volte in tre battute cantabili, con trascinanti violini all’ottava alta; non sarebbe tema se non fosse destinato a ricomparire proprio alla fine del ciclo, per dare alla maternità, alla femminilità l’ultima parola. Ma dove si dirigerà Sieglinde? Le valchirie sconsigliano un’immensa foresta a oriente, covo di Fafner che s’è trasformato in drago per custodire il tesoro; Brunilde ne sa di più, e intuisce che quella foresta non è affatto malsicura per la donna, vietata com’è a Wotan dai patti. Dato incidentale di grande portata simbolica: il presunto Altro dall’alto nascerà in un luogo al cui centro sta l’anello, il luogo stesso dell’Altro dal basso; evidentemente, tertium non datur, non si dà spazio per l’utopia. Dall’uscita di Sieglinde dista 8 battute l’ingresso di Wotan. La collera del dio punitore si scontra con la sbalorditiva polifonia delle otto sorelle, supplichevole o inorridita; ma con umile coraggio l’accusata esce dal gruppo e si offre alla pena, su note frante, su pause, a orchestra ridotta. Per tre volte Wotan premette alla condanna il ricordo di tutto ciò che Brunilde valeva per lui, e sembra voler così aggravare la colpa; pure, ogni volta, si libera più rimpianto nelle sue parole e più melodia nel suo canto. Brunilde ha cessato di essere valchiria e dea; dormirà sulla rupe, alla mercè del passante che la desti e la possegga.
Di quattro o cinque traumatiche cadenze della condanna, l’ultima intima alle valchirie di disperdersi via dalla rupe. Il loro tema fasciato dal vento si rompe e dirada in frammenti; questi sono appena finiti che sul tremolo d’archi i legni, piano, s’ispirano due volte al tema dell’annuncio di morte per riportarci a chi è in scena: Wotan in piedi, Brunilde a terra, soli. Dopo l’incontro dei gemelli, è l’altro supremo momento in cui l’orchestra si raccoglie di più in musica da camera. Clarinetto basso, corno inglese, oboe, propongono un tema in cui la serie di note discendenti del patto si slancia verso l’alto alla quarta nota, e da lì scende altre due note. Mirabile corrispettivo sonoro d’una infrazione subordinata, d’una fedeltà infedele, a cui l’etichetta ‘giustificazione di Brunilde’ si addice più che in altri casi; nel silenzio si passa senza discontinuità dal clarinetto basso alle prime cupe note della voce di lei. Il desiderio eseguito da me non era se non il tuo, ecco il suo argomento. Strano che non per la prima volta ne riassumiamo uno con queste parole: era proprio l’argomento di Alberich quando Wotan stava per strappargli l’anello. Nella simmetria dialettica fra l’Altro dal basso, e colei che si è assunta di salvare l’Altro dall’alto, c’è tutta la latitudine e la contraddittoria unità dell’immenso ciclo. Quando, ingaggiata la discussione, Brunilde si confida rivivendo fatti a noi noti, è quel tema a elevarsi in orchestra sotto note a lungo tenute dalla sua voce; l’ultima nota termina le parole: «nel tuo volere intimamente fidando». Wotan le si confida con altrettanto abbandono; ma l’ipotesi che in ogni sua presa di distanze da Brunilde ci sia del voluto, perfino del recitato, forse non è incompatibile con la dolente gelosia che permea la sua tirata più lunga – e sotto le sue parole successive passa il tema dell’amore. Due incesti simmetricamente variati, nella Valchiria? Fratello e sorella, separati da violenza esterna nell’antefatto e nella morte, si avvicinano senza divisione di ruoli morali nell’amore; padre e figlia si dividono dall’interno nei ruoli rispettivi della disobbedienza e del castigo, dopo essere stati teneramente uniti e prima di riavvicinarsi nella commozione del congedo.
Non c’è atto in cui succeda di meno, a dilatare i tempi è la peripezia interiore. Brunilde rivendica con la propria sorte quella dell’eroe nascituro, ne fa riascoltare in piano il tema; Wotan fa la sua parte ripetendo che non può scegliere per lei, che la stirpe dei Wälsunghi è condannata. Ma il sonno da lui decretato, su estenuati accordi a semitoni calanti, si presta a ciò che in uno scatto di eccitazione, su un secondo tema del sonno che per ora è un ostinato d’archi in minore, lei chiede in ginocchio. Il fuoco circondi la rupe – ed esso brilla in orchestra, col tema delle valchirie dentro; scoraggi i vili, la serbi a chi è senza paura! Su un grandioso crescendo prorompe da Wotan, «sopraffatto», l’addio. I «non più» del rimpianto sfociano fieramente nel fuoco che chiama «nuziale», poi la sua stessa voce condivide il tema di chi sarà più libero del dio. I legni attaccano la giustificazione di Brunilde, gli archi la portano al massimo senso possibile d’elevazione; si riabbracciano a prezzo di separazione eterna, nella speranza dal padre trasmessa alla figlia per rinnegarla in lei. Dal fortissimo il secondo tema del sonno scende ad accompagnare pianissimo prima Wotan, su un canto più intimo d’addio, poi cullante, in metà degli archi, la melodia di lui ripresa dall’altra metà in sordina. Frattanto un bacio magico ha indotto in lei il sonno, sul tema estenuato. Imperioso come la lancia che lo precede, l’appello a Loge semidio del fuoco fa fremere e guizzare l’orchestra fino a una vera accensione: prodigio strumentale che mobilita ottavini, violini a velocità incontrollabile, sei arpe, glockenspiel, triangolo, piatti, sovrapponendo presto tre musiche. Sopra il fuoco il sonno cullante, all’infinito; sotto, il tema di Sigfrido, prima per voce di Wotan che vieta l’auspicato attraversamento della cortina ardente, poi nell’imponente coalizione di trombe, tromboni e tuba. Sull’ultima nota subentrano violoncelli e viole, mormora in due semitoni la rassegnazione impossibile dell’addio; infine, con Wotan, si ritira il tempo. La fiammeggiante ninna nanna si ripete fino a ridursi alle due note superiori, si perde in arpeggi nella penultima battuta, nell’ultima in accordo tenuto dai soli fiati – surmotivando come atemporalità immobile la conclusione tonale.
Francesco Orlando