Archivio mensile: luglio 2018

FRANCESCO ORLANDO – TENEREZZA FAMILIARE E SEPARAZIONE TRAGICA

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[Il testo che segue è uscito nel 2007 nel programma di sala che ha accompagnato la messa in scena al Teatro Comunale di Firenze della “Valchiria” di Richard Wagner.]

valchiria

Il mondo della sua futura tetralogia Wagner lo intravide trentenne nel 1843, leggendo la Mitologia tedesca di Jakob Grimm. Dice in La mia vita che, «dai più scarsi frammenti d’un mondo tramontato», vide affiorare «una costruzione confusa, che a prima vista somigliava a un aspro terreno tutto crepacci, cosparso d’una misera sterpaglia». E malgrado fosse avvinto come dal fascino d’un ritrovamento e d’una rinascita, dubitò di potervi edificare mai qualcosa di suo, «non incontrando in nessuna direzione niente di compiuto, che somigliasse a una linea architettonica». Ci sarebbero voluti ventisei anni di genesi intermittente, 1848-1874 (ne riparlerò quando Crepuscolo degli dei chiuderà il ciclo), perché de­finisse da cima a fondo le poderose linee architettoniche che sappiamo – tanto più sue quanto più liberamente aveva rimescolato e fuso elementi grandi e piccoli attinti alle fonti medievali islandesi, norvegesi, tedesche. Pure, se qualcosa è rimasto del­l’eclet­tica libertà presa con le fonti, lo tradisce innanzi tutto un noncurante disordine nel­la distribu­zione delle notizie relative agli antefatti: notizie sparse lungo le quattro opere in momenti numerosi, distanti, a volte tardivi. Se questo c’interessa soprattutto ora, è perché fra prologo e prima «giornata» si situa (l’ho già detto) uno iato narrativo d’impre­ci­sabile durata, dove i fatti avvenuti sono tali e tanti che sarebbero bastati a riempire un quinto spettacolo, e invece riempono La Valchiria di racconti. Fortuna che del racconto musicale, dall’orchestra o dalla voce stessa alimentato di temi successivi o sovrapposti, cioè di significati in relazioni sempre nuove, Wag­ner è il maestro.

Alla fine dell’Oro del Reno, per saperne di più sul profetico monito di Erda, Wo­tan aveva voluto trattenerla mentre tornava a ­inabissarsi, poi si era ripromesso in turba­mento e timore: «a lei devo scendere!». Nella Valchiria dobbiamo aspettare la metà del secondo atto, perché racconti che (fra le due opere) lo ha fatto; e da lei, «con incante­simo d’a­more», non solo ha appreso tutto sul crepuscolo che minaccia gli dei, ma ha gene­rato Bru­nilde e otto sorelle. Sono – integrate nella famiglia divina, tenute all’obbe­dien­za verso Fric­ka – le valchirie: che “scelgono i caduti”. Loro compito è condurre su cavalli ala­ti i mor­ti più valorosi, fra gli uomini, al Walhall; per munirlo di schiere d’eroi tali che risulte­rebbero vittoriose, in una prospettiva mi­tica che toglie rilevanza addirittura alla distinzione fra morti e vivi, contro le «schiere notturne» di Alberich. È sempre Alberich infatti, se­condo la rivelazione di Erda, l’av­ver­sario da cui l’apo­ca­littico pericolo oscuramente pro­­viene. Ma solo in un caso potrebbe essere lui a volgere per costrizione gli stessi eroi con­­tro il dio, e il Walhall sarebbe allora perduto: se mai si riappropriasse del­l’a­nello, rima­­sto al gigante Fafner, il cui inerte possesso si sottintende che non rassicuri abbastanza Wo­­tan. I versi che lo spiegano, passo poco appariscente d’un lungo racconto (fa­­cile preda di tagli, quando usa­va), sono la chiave fattuale della trama di tre opere su quattro. Ci si potrebbe fermare all’idea che orde di diseredati minac­cino la fortez­za dei possidenti, e questi predispongano contro quelli una difesa militare – di che le­git­tima­re le peggiori letture unilaterali da destra. E invece la centralità del­l’a­­­nel­lo, già ot­tenu­to da Alberich maledicendo ­l’amore, e a lui strappato da Wotan per analoga brama di po­tere, tiene ferma l’antecedente complementarità fra loro (di cui ho par­lato): qua­si un uni­co duplice personaggio, in cui un vasto ideale soggetto di classe su­blima o ripu­dia op­posti aspetti di sé. Solo che l’aspetto nobile e quello ignobile, pur restan­do geneticamen­te speculari, si sono divaricati in diacronia: il desiderio del nibelungo è im­mutato, il de­siderio del dio si è fatto progettante interesse a una disinteressata illusione.

Ne deriva un secondo antefatto, successivo nel tempo narrato ma precedente nelle conseguenze rappresentate, non inducibile da un racconto solo ma da più racconti e indicazioni per un atto e mezzo; nei graduali riconoscimenti, la musica precorre le parole, l’a­­­­­­scoltatore indovina prima dei personaggi. Wotan, dunque, non può concepire di ritogliere lui stesso l’anello a Fafner, avendoglielo ceduto in pagamento secondo uno di quei patti dei quali è il garante sovrano – come lo è del feudalesimo cosmico anteriore all’ini­zio del ciclo. Concepisce allora un singolare sdoppiamento, o spersonalizzazione, o nega­zione dell’io: un tentativo patetico e antilogico di uscire da se stesso restando necessa­ria­mente se stesso, di porsi quale soggetto altro senza che un altro soggetto oggettivamen­­­­­te ci sia. A questo scopo valorizza di nuovo, come nelle scel­te delle valchirie, quegli uomini che gli sono sudditi benché non comparissero nell’Oro del Reno. Scende fra loro (co­me non pensare un attimo al mito cristiano? niente di simile c’era nelle fonti), per apparire irriconoscibilmente uno di loro. Sposa una donna di cui i racconti neanche ci dico­no il nome, genera un figlio e una figlia, gemelli. Estraniato dagli dei in mezzo agli uomi­ni, anche dalla comunità umana estrania selvaggiamente sé e i suoi. Se li inimica con­tra­rian­do­ne la morale, si denomina Lupo in avversione al loro conformismo da cani, e il ri­sul­tato voluto è, per i suoi, il dolore. Un giorno la dimora viene incendiata, la madre uc­cisa, la figlia donata in matrimonio a forza, senz’amore; un vecchio straniero apparso a quelle noz­ze, non altri che lui, la­scia infitta in un tronco d’albero una spada che nessun uomo sa­­rà così forte da estrarre. E una tale spada aveva promesso al suo Lupatto, a cui sono ri­ser­­vate dure prove, dopo che del padre scomparso ha ritrovato solo una pelle di lupo. Re­­­­spinto sempre se cerca fra gli uomini amicizia, amore, valori e disvalori condi­­­visi, li sfida volendo salvare una fanciulla da un matrimonio senz’amore – come quel­lo, che ignora, della sorella. La sua fuga da un inseguimento mortale, disarmato e fe­ri­t­o, non è più antefatto: è ciò che racconta il preludio orchestrale prima che si alzi il sipario.

Da questi antefatti, oltre che dalla propria trama, La Valchiria deriva caratteri che ne assicurano l’unità entro quella più ampia del ciclo. Certo, è vero per le tre «gior­nate» ciò che anticipavo raccontando i due eventi speculari i quali, all’inizio del prologo, segna­no il trapasso dalla preistoria alla storia, furto dell’oro e costruzione del Walhall: che si­no alla fine del ciclo non sarebbe in fondo quasi successo più niente; solo ripercussioni o ripeti­zioni fatali delle uniche due cose, anzi dell’unica cosa veramente successa. E cer­to, è di tut­te e tre le «giornate», rispetto al densissimo e sveltissimo prologo, un rallentamen­to o dilatazione dei tempi narrativi. Così pure, una divaricazione fra trame proprie e pro­secuzioni della trama del ciclo – che nella Valchiria però si limita ancora ai molti rac­conti. Così pure, la frequenza di quelle grandi scene a due che non c’e­rano ancora nel prologo – e che nella Valchiria sovvertono più volte le posizioni di uno o di entram­bi gli interlocutori. Ma unico è qui il fatto che i veri antagonisti, Albe­rich aspi­rante a ripren­dersi l’anello, Fafner suo possessore effettivo, tutt’al­tro che assenti dal­le mo­tivazio­ni del­­la trama, sono però relegati appunto al livello delle motivazioni: lontani dalla scena, e qua­si sempre anche dai discorsi. Gli antagonisti di turno, Fricka e Hun­ding, non so­no af­fatto personaggi di dignità inferiore; interna al mondo di Wotan non è solo la prima, in quan­to dea e sposa, ma anche l’altro in quanto suddito nel feudale­simo primordiale esteso agli uomini, il che vale per l’intero sfondo ambientale del primo atto. Ne è assicurata l’astensione da toni sordidi, grotteschi o anche ironici; più in ge­nerale, la musica nibelungica (quale ho già provato a definirla) si fa sentire stavolta assai di rado. L’inin­ter­rotta, dolorosa, a momenti “classica” nobiltà di stile musicale, il trattamen­to co­sì spesso intimo e “cameristico” dell’orchestra nel silenzio significativo delle vo­ci, rendo­no La Val­­chiria tributaria d’una poetica della tragedia – dopo la perfetta tragi­com­media che era L’oro del Reno, e ancor più di quanto non voglia la formidabile alter­­nanza che farà un’al­­tra tragicommedia di Sigfrido e un’altra tragedia di Crepuscolo degli dei.

* * *

Un uomo fugge nella tempesta. Sono incessanti e la pioggia e la corsa: lo dice sia il pedale in re di rapide sestine per ben 60 battute nei secondi violini e viole, ossessionante con furiosa calma nell’oscillare tra forte e piano, sia il salire e scendere dei violoncelli e contrabbassi che c’è sotto, regolare pur nelle variazioni che sperimenta e negli strattoni dei gruppi di cinque semicrome a inizio di battuta. Quando l’or­chestra è entrata tutta e il disegno monta ai primi violini, gli strattoni diventano tre per battuta, ogni ordine ritmico vacilla, lo squillare tonale degli ottoni discorda per cinque volte con una caotica armonia. Tuono e fulmine culminano nei timpani, ma anche in quello squillo quattro volte disarticolato in discesa, dal fortissimo al piano; il placarsi della bufera lascia lungamente a nudo sui timpani, decrescenti, il regolare disegno iniziale negli archi bassi. Ricordiamoci che una tempesta chiudeva quasi l’Oro del Reno, se quest’altra apre La Valchiria. L’una, godibile e liberatoria, era provocata a volontà da Donner dio dei tuoni e ful­mini; l’altra è subìta sulla terra, da un mortale che la natura si è unita agli uomini nel perseguitare. Vero e proprio capovolgimento di pun­to di vista, periodico per due atti nella nuova opera, che al primo ascolto non si nota. La fanfara de­gli ottoni, luminosamente tonale ed euforicamente ritmata quando la intonava Donner, si riconosce a stento; assai più nascosta ancora è la derivazione del disegno di fuga e corsa, negli archi bassi, dal tema della lancia di Wotan o dei patti. Il mondo su cui si alza il sipario è infatti pur sempre mondo governato da Wotan, sebbene il dio vi abbia nel frattempo soggior­nato in veste clandestina e trasgressiva. La dimora primitiva che fa da scenario è accentrata intorno a un gran tronco di frassino; l’uomo a cui appartiene si chiama Hunding. E l’albero e il nome provengono dalla fonte dominante nella Valchiria, la Saga dei Völsunghi, ma è di Wag­­ner tanto la vicinanza del feudalesimo cosmico alla natura vegetale, quanto la contrapposizione tra i figli «di cane» e «di lupo» (Hunding, Wölfing, letteralmente).

È il Lupatto inseguito ed esausto che, a caso?, si rifugia e si abbatte lì dentro. Entra in scena la giovane sposa di Hunding; chiamiamoli fin da ora (come fa il testo stampato) coi nomi che assumeranno più tardi: Siegmund, Sieglinde. Il dialogo si apre sul­l’in­voca­re da bere di lui e sulla sollecitudine di lei nel ristorarlo. A un tema di lui che si era formato nei violoncelli, risponde altrettanto sommesso un tema di lei nei violini; l’offerta del­l’acqua è un episodio da altissima musica strumentale, soli archi che salgono al forte per ridiscendere e risalire sempre meno alto e più piano, fino a dare il passo alla voce sospendendosi su un gruppetto d’inef­fabile gentilezza. Ma al bere segue un non meno sublime momento, più propriamente cameristico perché affidato a un violoncello solo, per 9 battute sul silenzio e per altrettante su pochi archi bassi. È il primo scambio d’un profondo sguardo, già più che virtualmente d’amo­re. Di due parti del tema che resteranno temi entrambe, la prima rallenta languidamente la seconda parte di quello di Freia: presso gli dei dell’Oro del Reno, la tenerezza tra fratelli e sorelle era famiglia e natura; qui, la sensualità che la radicalizza e la denuda non può essere che reciproca e immediata. L’e­pi­sodio di archi all’offerta dell’ac­qua torna quasi ugua­le, con delicate ingerenze dei fiati, all’offerta dell’idromele; di nuovo il bere è seguito dal tema di sguardo e d’a­mo­re, che al di sotto d’una nota alta di clarinetto riemerge da una nota bassa dei vio­loncelli, invertite le sue due parti in un’esposizione più diffusa. Siegmund ha tre volte fretta di fuggire per non recare sventura, Sieglinde si lascia andare a dire che lì la sventura è di casa. Mentre restano a guardarsi e tacciono, un nuovo più duraturo tema di lui, formatosi sempre nei violoncelli, si dà la replica con quello di lei nei violini o nei clarinetti. Salvo l’appros­simazione ine­vitabile quanto alle durate assolute, si contano, fra l’in­gresso di Sieg­­linde e il preannuncio del tema di Hunding in arrivo, 108 battute in cui hanno parte le voci contro 115 di orchestra sola – e mai piena: per un dialogo operistico, un assoluto record. Strumenti e sguardi parlano come è prematuro che faccia la parola.

Il tema di Hunding enunciato dalle tube, ma trasferibile a uno scabro staccato d’ar­chi, è così ritmato nella sua durezza barbarica da azzerarsi poi spesso a rit­mo puro, in bassi vari e tim­pani; cellule ritmiche lo imparentano qua e là impercettibilmen­te sia ai giganti che ai nibelunghi, stirpi ostili a quella divina. La lunga scena a tre è re­sa possibile dal fatto che Hunding e Siegmund non si fossero mai visti, e nel padrone di casa il culto del­­­l’o­spi­talità, proclamato in una dop­pia frase discendente a nuda voce, è inizialmente im­pecca­bile. Fra quando lui stupisce tra sé che agli altri due lampeggino ugualmente gli occhi, e quando dichiara al­l’o­spi­te di averlo iden­ti­­ficato come sacrilego ne­mi­­co, il movi­mentato racconto dello straniero si articola in risposta a tre domande di Sieg­linde, che non nasconde curiosità né parzialità per lui. Narra prima di padre, madre e sorella, lasciando indeciso il proprio nome tra Wölfing e Wehwalt (signore del dolore); poi, del suo isolamento morale, dopo la sparizione del padre che è per lui mistero – nei tromboni il Walhall in triplo pianissimo; infine, della fanciulla morta che aveva difesa invano, e in orchestra sorge accorato e nobile il tema dell’ascendenza dei gemelli. Co­me non dire oggi, dopo il cinema, che questi squarci di racconto tutti foresta, caccia, cor­ni, armi, violenza e vendetta sanno irresistibilmente di preistorico western? Ma i temi d’amore nel clarinetto e nell’oboe, a tre riprese, corrispondono agli sguardi fra loro due, prolungano in presenza d’un terzo una comunicazione mu­ta. Vocalmente, va detto qual­cosa che valeva già per la scena precedente, varrà altrettanto per la prima metà del secondo atto, ed è il corrispettivo della sobrietà orchestrale sopra segnalata in ampie par­ti della Valchiria. Se parti ancora più ampie, qui e altrove, fanno di Wagner il sommo pun­to e d’ar­rivo e di partenza delle tendenze a un sinfonismo operistico, meno scontato è che nelle scene di cui parlo tocchi un vertice, degno di Monteverdi o di Bellini, la scultorea bellezza di recitativi tanto musicalmente ispirati quanto modellati sulla parola.

Hunding accorda un tetto al fuggiasco per la notte, ma gl’impone di battersi al mattino pur sapendolo senz’armi. Durante 58 battute di sola orchestra, s’incrociano tre sguar­di: Sieg­linde prepara una bevanda notturna, poi benché Hunding la scruti, trasalisca, la scacci, tenta di orientare col suo lo sguardo di Siegmund su un punto del tronco di frassino. Ciò che indica lo proclama la tromba bassa, entro il velo d’un tremolo di violini, e il te­ma ripassa nei legni in minore. Siegmund rimasto solo al buio, braccato dalla sorda mi­­nac­cia del ritmo di Hunding, esclama che il padre gli aveva promesso una spada; glie­la chie­de invocandolo col nome che crede il vero, Wälse, su note tenute a piena voce. Al­lora la brace illumina, miracolo pagano, quel punto del tronco; la tromba scatta for­­te e ta­­gliente nel fitto tremolo dei violini, e dovremmo riconoscere quel tema: aveva cor­­ri­sposto al «gran pen­siero» di Wotan nel momento di dare nome e destinazione al Wal­­hall. Ri­petendosi, nella tromba e non solo, annuncia l’elsa di spada che ancora non ve­­de Sieg­mund – il quale torna rincuorato al vagheggiamento della donna, prima che il mo­­nologo si richiuda nel buio. Ecco Sieglinde, che ha versato al marito una bevanda sopo­­rifera, e non anela che a fargli a sua volta un racconto: ne ho anticipato il con­­tenuto. Sotto la voce di lei, il plastico tema della spada si congiunge finalmente al suo significato; al­l’en­trata del vecchio straniero, il tema del Walhall acquista una familiarità dolce e misteriosa; al riconoscimento del padre, un’a­­na­logia rit­mica rende lo stesso tema indistinguibile da uno di quelli dell’amo­re. Irrom­­pono, da en­trambe le parti, abbandoni a piena voce che suonano rivalsa sui lunghi si­len­zi recenti co­me sulle vicende passate, e fanno immediatamente di due infelicità una fe­licità sola. Tra­gedia, sì, La Valchiria; ma che qui trascende l’il­lu­sio­ne effimera, e tra­volge ogni ironia tragica, in una pienezza di sollievo assoluta. Di colpo la gran­­de por­ta al fondo si spalanca da sola: chi è uscito, o entrato?, chiede lei spaventata; lui risponde che nessuno è uscito, che è entrata la primavera – come notturnamente s’intravede fuori.

L’onnipotenza di risorse wagneriana fonde e brucia nella storia d’amo­re più matrici culturali, oltre le fonti di base. Il reietto Siegmund è erede, rimotivato, d’una dinastia di eroi romantici trasgressivi e antisociali. Poco dopo la tempesta, la primavera pro­pizia al­l’amore è memore di lontane origini medievali, perfino romanze. D’altra parte ro­­man­tiche, musicalmente, anch’esse: la grande tradizione tedesca del Lied non riecheg­gia solo nella canzone primaverile di lui, soave tregua al flusso sinfonico. Anche nella cantabilità spiegata con cui, subito dopo, le scam­bievoli confessioni prendono slancio vocale dal te­ma dell’amore: quel­la di lei, più lunga e su versi indimenticabili, consacra nel­l’incesto un ideale di amore come, insieme, rivelazione di sé a sé e trasparenza fra un io e un tu. Si trapassa a un episodio dove l’ansi­mare e languire del cromatismo, al­l’op­­posto che nel desiderio metafisico o prenatale del Tristano, trasfigura l’orgasmo fisico adulto con una au­dacia che non ha forse l’uguale in musica. La certezza di riconoscere il fratello, in Sieglinde, passa di nuovo dalla velata sugge­stione del Walhall, poi dalla pro­pria im­ma­gi­ne a specchio nel ruscello, poi dal­l’eco della propria voce in cui si risolve l’in­can­to d’un ricordo d’infanzia, poi dal lampo nel­l’occhio del vecchio straniero. Eppure l’a­­gni­zione finisce di compiersi solo sul nome del padre, Wälse, non Wotan per loro, per­mettendo a lei d’impartirgli il nome di Siegmund (bocca di vittoria); a lui di balzare al tronco e afferrare l’elsa, sul tema dei Wälsunghi che è ricomparso sempre più stretto e nervoso. L’in­­­vo­cazione a piena voce non si rivolge più al padre ma alla spada, denominata a sua volta Notung (figlia della necessità, o dell’ango­scia), su tremolo d’ar­chi possente come lo sforzo dei muscoli. Siegmund ce la fa, la spada estratta trionfa in do maggiore a tre trombe; su un’improvvisa esaltante transizione a mi maggiore, decide di rapire via co­lei che solo ora si dà nome Sieglinde (scudo di vittoria). La primavera li aspetta, e fio­rirà il loro sangue fraterno – ma nelle ultime due note in cui trabocca il crescendo orche­strale, nessuno riconosce un tema di schiavitù, dalla musica di Alberich.

È infatti di nuovo una fuga, a due, che narra il secondo preludio. Al tema della spada variato in minore, risponde anch’esso accelerato quello dell’amore; si fa tema ansiosamente montante il sensuale episodio cromatico; poi è come se, sinfonicamente, cam­bias­se la scena. Cessa in basso il ritmo inseguitore di Hunding e, preparato dal resto dell’or­che­stra in fortissimo col ritmo ternario d’ogni attività fisica, esplode ne­gli ottoni per 8 bat­tute il tema delle valchirie. Scenario di selvaggia mon­ta­gna: l’unico nella geografia del ciclo, vale la pena di osservarlo, a non avere un nome né essere la sede di qual­cuno. Forse è una conferma dell’ideale centralità di que­st’atto: il più difficile fra i più grandi di Wagner, per la portata “me­ta­lin­gui­stica” della sua prima parte, che ne rende di frequente astrat­to o ardito il linguaggio verbale o musicale. Non subito, comunque: in sce­na com­pare, con Wotan, Brunilde; assisterà al­l’im­mi­nen­te scontro fra Hun­­ding e Sieg­­mund, al quale è assicurata la vittoria. La valchiria lancia il suo grido, ar­mo­ni­ca­men­te aspro, variante pure ternaria di quel ritmo ripetuta con quat­tro vertiginosi sal­ti di ot­tava; seppur finalizzata, l’attività fisica esulta in un benessere elementare (co­­me per le on­dine). Prima di uscire, Brunilde vede arrivare Fricka e avverte il padre, con qualche irriverenza, del ben diverso scontro verbale che gli si prepara con la sposa in­col­le­rita. La dea delle nozze viene a dolersi del­l’adul­terio e incesto commessi dai ge­­mel­li, loro stessi scandaloso frutto di tradimento e degradazione. È la voce del­la con­serva­zione (co­me nel­l’Oro del Reno); fra i distesi recitativi del dialogo, i suoi vee­­­menti o mae­sto­si cantabili le conferiscono dignità, autorità, a momenti dol­cezza. Finché la contesa ver­te sulla morale, Wotan resta tuttavia il dio intraprendente e ironico che co­no­sce­vamo; nel­le sue obiezioni ha buon gioco la benigna superiorità dell’in­no­vatore, la­sci­va­mente se­condata dai vio­lon­celli coi temi dell’a­mo­re e della primavera. Le cose cam­­biano quan­do si fa serio e, opponendo alla tradizione «quel che mai non avvenne», enun­cia l’i­dea del­­­l’eroe di cui gli dei hanno bisogno e che non ha bisogno di loro.

Su un tale terreno concettuale, Fricka si rivela un’interlocu­trice dalla te­mi­bile logica. Sma­schera prontamente la sua pretesa di voler fare e non fare a un tempo qualcosa, delegandola a un altro che ha suscitato lui stesso. Contraddizioni del­la paternità: for­se che un figlio agisce da solo, a condizione d’i­­gno­­rare il senso delle proprie azio­ni e di sor­­montare sofferenza e fatica, se il padre ha pianificato tutto per lui e lo dirige a distanza? Forse che Siegmund è andato a finire per caso nel luogo dove l’invincibile spada lo aspet­tava? Da quest’argomento in poi, Wotan non replica che con impotenti gesti d’ira. Il tema della sua frustrazione, altra nascosta derivazione dal tema dei patti, dopo un acci­gliato gruppetto scende assorto per cinque note come se riluttasse a farlo: tra prolungamen­ti della nota iniziale e scansioni interrotte di esso, Wotan giura di ritirare ogni protezione al Wälsungo. All’uscita di Fric­ka, nei tromboni all’unisono risuona la ma­ledi­zione di Alberich. Ma Bru­nilde è rien­trata: all’esplosione di furore del padre umilia­to lo supplica di confidarle cos’ha; la tenerezza con cui lui le accarezza i riccioli è parificata, dal clarinetto basso, a un altro amore familiare che conosciamo. E le contrad­di­zioni della paternità si ripresentano inavvertite: Wotan, convinto dol­cemente da lei su som­messi cor­ni, presume di parlare soltanto con se stesso se racconterà a lei. Contropartita mu­sicale del più intimo abbandono, il suo racconto comincia bisbigliato su una profonda no­ta di contrab­bassi, e per una decina di minuti archi e fiati nella partitura non leggono qua­­­­si che in chia­ve di basso, pianissimo o piano. Ma saltiamo all’estremità della lunga sce­­na: Brunilde riprende la parola solo per chiedere di Siegmund, del fratellastro caro a lei come al pa­dre, dalla cui «ambigua parola» ha compreso che ora le tocca sacri­fi­car­­­lo; osa opporre un rifiuto. No, non si parla impunemente ad altri. Troverei meno for­za­­to di molte “libe­re” interpretazioni sceniche, se la clamorosa minaccia con cui la at­ter­­risce Wotan fosse già fatta apparire come anche inconsciamen­te recitata: per provocar­­la al­l’op­­­­posizione rea­le, per fare di lei davvero un soggetto indipendente – un altro.

La prima incarnazione di quell’Altro assoluto chiamato così nei versi stessi del testo, sognato da Wotan monologante in pre­senza di lei. «Nauseato ritrovo – eternamente solo me – in tutto ciò che faccio! – L’Al­tro a cui aspiro, – l’Altro non lo scorgo mai: – da sé chi è libero deve crearsi; – servi soltanto io mi asservisco!». Una tale esigenza, nascente dalla tendenza che sappiamo a sdoppiare un soggetto unico, non può essere che utopia. Proiezione del meglio di sé verso l’alto, complementare alla proiezione del peggio verso il basso data fin dall’inizio nella razza nibelungica. L’Altro dal basso, condannato a esistere anche troppo, corrisponde a un momento che semplificando assai pos­so chiamare razzista; l’Altro dall’alto, votato al rischio dell’ine­si­stenza, corrispon­­­­de al momento uto­pico – a sua volta strettamente connesso con quel­l’incesto di cui ci si può chiedere se nella Valchiria ce ne sia uno solo o due. Wotan non può riconoscersi nel­l’Al­­tro dall’alto, per la speranza che resti veramente, liberamente tale; nel­l’Al­tro dal bas­so, per pau­ra che cessi di esserlo se un’aborrita identità trapela. Il tema che scorre senza requie sotto ­l’ap­pello di lui lega il tema di natura in minore, o di Erda, a quello della frustrazione, non de­rogando dal tono della tragedia. Così, a un secondo scoppio di disperazione, esce il tema dell’amore sotto il rimorso del padre che deve uccidere chi ama, tradire chi confida in lui. Ma qui si riparla di Alberich, di Fafner, si riascolta il tema del­l’a­nello co­me della maledizione; la più ripugnante musica nibelungica introduce la notizia che lo gnomo ha ingravidato una donna grazie all’oro (lap­sus d’autore: quale oro? di fat­to l’ha da tempo perduto). Il tema del Walhall si fa irriconoscibile, spez­zato e inframmezzato dal tema del­l’oro, su un metallico allucinato tremolo di piatti, quando Wotan saluta il figlio non ancor nato del ne­mico con una sarcastica benedizione. Dopo la sua sfuriata au­toritaria, Brunilde resta sola. Intona poche frasi; tromba bassa piano nel tema delle val­­chirie, su silenzio e timpani; lento malinconico impasto orchestrale, interrotto a sor­presa dai violini in tempo agitato. Ha visto arrivare i gemelli, a cui lascia la scena.

Lo stacco ci riporta al secondo preludio, che aveva già tramutato la loro e­sal­ta­zio­ne in fretta angosciosa: ancora tema d’amo­re accelerato, tema sensuale montante, ritmo d’in­­seguimento. Al calore vocale di lui che la implora di sostare, e par­largli, fanno eco te­­ne­rissimi i corni. Ma sull’ab­brac­­cio di lei i violini salgono fino allo spasimo, e il dolce ricam­­bio dei legni è troncato da un soprassalto; alternando il grido di vergogna ai temi ero­tici fat­ti nostalgicamente strazianti, Sieglinde si afferma a sua volta quale vittima trasgres­­si­va: è il ma­trimonio subìto senz’amore, non l’adulterio, che l’ha disonorata. Vede vaneggiando l’«on­­­­da dei cani» di Hun­ding, simbolica ma spaventevole: ab­­baiano al cie­lo, loro, per la fede nuziale infranta, ma digrignano zanne avide di carne. Quando a metà del­­ delirio si rivolge a Siegmund, nuo­va è (come nel racconto del primo atto) l’in­­ten­sità del­la sua me­lo­dia – asimmetrica e cromatica, divagante fra struggenti semitoni. Nel pa­rossismo, vede spezzati e la spada e il frassino; cade esanime in braccio a lui che se l’a­dagia in grembo, mentre il tema del­l’a­mo­re ripassa mestamente quieto da legni so­listi a violoncelli. Col trapasso dai violoncelli alle tube wagneriane, stacco di segno inverso al prece­dente, arriviamo a un culmine musicale e teatrale: la valchiria si avanza guidan­do il cavallo bianco, mitolo­gica (su uno scenario ideale, lo s’immagina a sera). Sempre in pia­nis­si­mo e per due volte, nelle tube tre note ripetono la loro interrogazione, nelle trom­be ascen­­de una frase solenne che resta aperta sulle stesse tre note. Poi, il pianissimo estra­­nia un inciso del Wal­­hall: di fronte all’ignara prospettiva terrena di Siegmund, per l’unica volta nel ci­clo, sta il soprannaturale. Al­l’an­­nun­cia­trice di morte rivolge sei domande; appren­de chi lei è, do­ve lo con­­dur­rà, che ci sarà Wotan, ci sarà Wälse suo padre, lei stessa gli of­frirà da bere. La se­sta risposta rom­pe l’incantesimo: no, Sieglinde non potrà seguirlo las­sù. «Al­lora salutami il Walhall», dice lui; sa­lu­tami Wo­­tan, Wälse, le val­chirie: senza di lei non verrò con te. La scena (an­che ver­bal­mente tra le più perfette di Wag­ner) è divisa in due da queste «molto decise» parole.

Fine del pianissimo e dell’estasi; un brivido erompe negli archi fortissimo (presagio della marcia funebre nel Crepuscolo). Siegmund non ha paura di Hun­ding, e la tromba è lì a dargli ancora ragione col tema della spada. Allora Brunilde alza la voce perché sappia che all’arma è stata tolta la sua virtù. Lui si dispera di tradire la fiducia di Sieglinde, prima ancora d’imprecare contro chi lo ha tradito; se deve morire andrà, piut­tosto che al Walhall, all’inferno (tra i non “scel­ti” dalle valchirie). La sua grandezza di personaggio reietto sta nell’incarnare a fondo la categoria di chi è sfiorato, usato, rigettato dalla storia senza saperlo neppure – non identificherà mai, in Wälse, Wotan. Ma a questo punto è Brunilde che, anche lei su melodia calante per semitoni, sta imparando qualcosa d’igno­to: si può preferire una derelitta creatura alla gloria divina. A Sieg­mund, che l’accusa d’in­sensibilità sulla frase accelerata del­l’an­nun­­cio di morte, scopre la sua compassione sul­la stessa melodia (al­la lontana, un duet­to). Gli svela che la donna è incinta, e poiché lui sta per recidere con la spada entrambe le vi­te, gli grida la deci­sio­ne che covava da quan­do aveva tentato di resistere al padre: rovescierà di nuovo le sorti, lo farà vincere. Cor­re via e l’or­che­stra si scatena in giubilo, men­tre si oscura di nubi la sce­na. Siegmund la­scia dormire Sieglinde: con lui, gli archi me­­ditano sul mistero del son­no, sorridono a un sogno primaverile, la carezzano nel bacio di congedo. A risvegliarla è l’incubo infan­ti­le del­l’in­­cendio, che le si confonde col tra­gico western frattanto ripartito. Ritmo di Hun­­ding in un rauco corno di toro, sfide fra i due uomini che nel­la neb­bia non s’in­con­trano, lampi e tuoni. Sullo scontro plana Brunil­de al di sopra di Siegmund, e ne­gli ottoni fra­ternizzano spada e valchirie; ma sorge Wotan al di sopra di Hunding, e contro la sua lan­­cia si spez­za la spa­da. Allo sguardo del padre sul figlio ucciso non sono con­cesse più di 8 funebri battute. Brunilde ha il tempo di rapire Sieglinde sul suo cavallo e fug­gire. Wo­­tan, nel rinviare Hunding a Fricka vendicata, con un gesto di disprezzo lo atterra mor­to; ed ora, come potrebbe l’ira non sospingerlo dietro la figlia di­sobbediente?

Il terzo atto non ha preludio distinto dalla scena in cui le valchirie si radunano sotto la cima d’una rupe, arrivando ognuna con in sella un guerriero ucciso, da condurre al Wal­­hall. Subito raffiche d’archi, e fischianti sestine di semicrome nei legni acuti; il tema delle valchirie, finalmente completo, scandisce la sua figura ritmica e melodica su no­te di accordo perfetto; a sipario alzato porta due volte gli ottoni da pia­no a fortissimo, la se­conda da minore a maggiore; si alterna e combina col grido selvaggio già ascoltato, che culmina pure in un fortissimo a sei voci. Simili sestine di semicrome, qui accavallate in fluido vento, avvolgono anche altrove tutte le grandi onomatopee di natura (scor­­rere del fiume, scintillio del­l’arcobaleno, fruscio della foresta, di­vampare del fuo­co), in­clusi i vapori tem­pestosi di Donner. Qui la tempesta è di nuovo, a differenza da quel­le dei primi due at­­ti, godibile da un punto di vista superiore alla pre­ca­rietà uma­na. E non è cer­to d’u­na sola se­ra il rito delle valchirie – né era d’una sola mattina il nuoto e l’inno del­­le on­dine intorno al­l’o­ro, o sarà d’una sola notte il filare e cantare del­le norne sulla stes­­­sa ru­pe. In tutte e tre le scene, tre mitiche sorelle, o nove, ci fanno assi­stere una volta so­la a qual­cosa che ac­cadeva innumerevoli volte, e di cui non sanno che accade per l’ul­ti­­­ma vol­ta. Da qui, nella sua molteplicità di piani sonori, l’uniformità iterativa, l’intermi­na­bi­li­tà vir­tua­le di questa mu­si­ca (e il suo impoverirsi nel decontestualizzato e chiu­­so pezzo antolo­gi­co, quan­d’anche non venga mutilata delle voci). La ritualità, per­du­­rante men­­tre otto val­­chirie si contano e avvistano la ritardataria Brunilde, è tra­volta di col­po in orche­stra: fi­ne del­la preistoria, irruzione della storia (come in quelle due altre sce­­­ne); il senso del trau­­ma si ripe­terà, in bruschi attacchi e violente cadenze, sino a tut­ta la scena seguente. Pri­­ma ancora che l’affannata sorella racconti, l’infierire della tem­pe­sta è ridiventato perse­cuto­rio; dopo, le altre otto voci cominciano a intersecarsi stridule, con audacia ar­mo­ni­ca pari alla novità che le sconvolge. Ma concordano nel­l’obbe­dien­za al padre, nessu­na pre­sterà a Brunilde un cavallo per la donna che vorrebbe salvare.

Interviene Sieglinde che non vuole, perduto Siegmund, essere salvata. Pronta Brunilde le rivela la sua gravidanza, e nelle impennate dei violini e nel canto la materna volontà di vivere irradia immediata; pronta Brunilde le sacrifica l’unico cavallo, il proprio (sia­­mo lon­tani dalle rivalità della drammaturgia operistica tradizionale). Le valchi­rie in ve­­detta scorgono l’appressarsi di Wotan, incitano via l’intrusa. Brunilde sa benissimo quel che fa consegnandole la spada in due pezzi, e im­ponendo al nascituro sia un nome, Sig­­­frido (pa­ce nella vittoria), sia, di sua voce, un tema. Tema chiaro e virile, da riascol­­ta­re in futuro quan­to pochi altri; aveva avuto il suo cenno di pre­an­nuncio l’atto prima, e ha cru­­cia­­le somiglianza melodica e opposizione armonica con la maledizione, come lo splen­­den­te Wal­­hall co­l fosco anello. La riconoscenza di Sieglinde si dispiega due vol­te in tre bat­tute cantabili, con trascinanti violini all’ottava alta; non sarebbe tema se non fos­­­se de­stinato a ricomparire pro­­prio al­la fine del ciclo, per dare alla maternità, alla fem­minilità l’ul­ti­ma parola. Ma dove si dirigerà Sieglinde? Le valchirie sconsigliano un’im­­­­mensa fo­­resta a oriente, covo di Fafner che s’è trasformato in drago per custodire il te­so­­ro; Bru­nilde ne sa di più, e intuisce che quella foresta non è affatto malsicura per la don­­­na, vietata com’è a Wotan dai patti. Dato incidentale di grande portata simbolica: il pre­­­­sunto Al­tro dall’al­to nascerà in un luogo al cui centro sta l’anel­lo, il luogo stesso del­l’Al­­­­­­­­tro dal bas­so; evidentemente, tertium non datur, non si dà spazio per l’u­to­pia. Dal­l’u­­­sci­ta di Sieg­­linde di­sta 8 battute l’ingresso di Wotan. La collera del dio punitore si scon­tra con la sba­lor­di­ti­va po­lifonia delle otto sorelle, supplichevole o inorridita; ma con u­mi­­le corag­gio ­l’ac­­cu­sa­ta esce dal gruppo e si offre alla pena, su note frante, su pau­se, a or­­­che­stra ridotta. Per tre volte Wotan premette alla condanna il ricordo di tutto ciò che Bru­­nilde valeva per lui, e sembra voler così aggravare la colpa; pure, ogni volta, si li­bera più rim­pianto nelle sue parole e più melodia nel suo canto. Brunilde ha cessato di essere valchiria e dea; dor­mirà sulla rupe, alla mercè del passante che la desti e la possegga.

Di quattro o cinque traumatiche cadenze della condanna, l’ultima intima alle valchi­rie di disperdersi via dalla rupe. Il loro tema fasciato dal vento si rompe e dirada in frammen­­ti; questi sono appena finiti che sul tremolo d’archi i legni, piano, s’i­spi­­rano due volte al­ tema dell’an­nun­cio di morte per riportarci a chi è in scena: Wotan in piedi, Bru­nilde a terra, soli. Dopo l’incontro dei gemelli, è l’altro supremo mo­men­to in cui l’or­che­stra si raccoglie di più in musica da camera. Clarinetto basso, corno inglese, oboe, propongono un tema in cui la serie di note discendenti del patto si slancia verso l’alto alla quarta nota, e da lì scen­de altre due note. Mirabile corrispettivo sonoro d’una infrazione subordinata, d’una fedeltà infedele, a cui l’etichetta ‘giustificazione di Bru­­­­nilde’ si addice più che in altri ca­si; nel silenzio si passa senza discontinuità dal clarinetto basso alle prime cupe note del­la voce di lei. Il desiderio eseguito da me non era se non il tuo, ecco il suo argomento. Stra­no che non per la prima volta ne riassumiamo uno con queste parole: era proprio l’ar­go­men­to di Alberich quando Wotan stava per strap­pargli l’anello. Nella sim­metria dialettica fra l’Altro dal basso, e colei che si è assunta di salvare l’Al­tro dal­l’al­to, c’è tutta la latitudine e la contraddittoria unità dell’immenso ciclo. Quando, ingaggiata la discussione, Bru­nil­de si confida rivivendo fatti a noi noti, è quel tema a elevarsi in orchestra sotto note a lungo tenute dalla sua voce; l’ultima nota termina le parole: «nel tuo volere intimamente fidando». Wotan le si confida con altrettanto abbando­no; ma l’ipo­tesi che in ogni sua presa di distanze da Brunilde ci sia del voluto, perfino del recitato, forse non è incompatibile con la dolente gelosia che permea la sua tirata più lunga – e sotto le sue parole successive passa il tema dell’amore. Due incesti simmetricamente variati, nella Valchiria? Fratello e sorella, separati da violenza esterna nel­l’an­­te­fatto e nella morte, si avvicinano senza divisione di ruoli morali nell’amore; padre e figlia si dividono dall’interno nei ruoli rispettivi della disobbedienza e del castigo, dopo essere stati teneramente uniti e prima di riavvicinarsi nella commozione del congedo.

Non c’è atto in cui succeda di meno, a dilatare i tempi è la peripezia interiore. Bru­nil­de rivendica con la propria sorte quella dell’eroe nascituro, ne fa riascoltare in piano il tema; Wotan fa la sua par­te ripetendo che non può scegliere per lei, che la stirpe dei Wäl­­­sunghi è condan­­nata. Ma il sonno da lui decretato, su estenuati accordi a semitoni ca­­lanti, si pre­sta a ciò che in uno scatto di eccitazione, su un secondo tema del sonno che per ora è un ostinato d’archi in minore, lei chiede in ginocchio. Il fuoco circondi la rupe – ed esso brilla in orchestra, col tema delle valchirie den­tro; scoraggi i vili, la serbi a chi è senza paura! Su un grandioso crescendo prorompe da Wotan, «sopraf­fatto», l’ad­dio. I «non più» del rimpian­­to sfociano fieramente nel fuoco che chiama «nu­zia­le», poi la sua stessa voce condivide il tema di chi sarà più libero del dio. I legni attaccano la giustificazione di Brunilde, gli archi la portano al massimo senso possibile d’e­­leva­zio­ne; si riab­bracciano a prez­zo di se­­­pa­ra­zio­ne eter­na, nella speranza dal padre trasmessa alla figlia per rinnegarla in lei. Dal fortissimo il secondo tema del sonno scende ad accom­­pa­gna­re pia­­nissimo pri­ma Wo­tan, su un canto più intimo d’addio, poi cullante, in metà degli ar­­chi, la melodia di lui ripresa dall’altra metà in sordina. Frattanto un bacio magico ha indotto in lei il son­­no, sul tema estenuato. Imperioso come la lancia che lo precede, l’ap­pel­lo a Lo­ge se­midio del fuo­co fa fremere e guizzare l’orche­stra fino a una vera accensione: pro­digio stru­­­­­men­tale che mobilita ottavini, violini a velocità incontrollabile, sei ar­­pe, gloc­kenspiel, trian­golo, piatti, so­vrapponendo presto tre musiche. Sopra il fuoco il son­­­­­no cul­­lante, al­­l’in­fi­ni­to; sotto, il tema di Sigfrido, prima per voce di Wotan che vie­ta l’au­­­­­spi­­cato at­­tra­­versamento della cortina ardente, poi nell’im­po­nente coalizione di trom­­be, trom­­­­­­­­­boni e tuba. Sul­l’ultima nota subentrano violoncelli e viole, mormora in due semitoni la ras­segnazione impossibile del­l’addio; infine, con Wo­­tan, si ritira il tempo. La fiammeggiante ninna nanna si ripete fino a ri­dursi al­­­­­le due no­te superiori, si perde in arpeggi nella penultima battuta, nell’ul­tima in ac­cor­­do te­nuto dai soli fiati – surmotivando come atemporalità immobile la conclusione tonale.

Francesco Orlando