Archivio mensile: gennaio 2019

GIULIA BULLENTINI – CARMEN: TRAGEDIA DELLA RAGIONE E DRAMMA DEL DESIDERIO

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[Giulia Bullentini si è specializzata in Letterature e Filologie Europee all’Università di Pisa e ha conseguito il Dottorato di Ricerca nel 2017, sotto la supervisione del Prof. Gianni Iotti, con una Tesi dal titolo “Storia di una madeleine: poetiche del récit d’enfance da Daudet a Proust”. Tra i suoi interessi spiccano in particolare l’infanzia, l’autobiografia francese del Novecento, il romanzo fin de siècle, Nathalie Sarraute, e Racine. Al momento sta portando avanti un progetto su forme dell’indefinito e figure dell’indicibile in autori come Mérimée, Loti e Cocteau.]

  3.-OK-to-USE-Carmen_-©-Pierre-Grosbois-WEB

 

C’è qualcosa di estremamente fascinoso nell’immagine del critico perseguitato che trova rifugio dagli orrori della guerra nel silenzio di una grande biblioteca affacciata sul mercato chiassoso e l’aroma speziato, a Istanbul. Chiuso lì dentro, Erich Auerbach ripenserà alla storia della letteratura occidentale, dalle origini – Omero e la Bibbia – all’inizio del secolo tormentato ch’egli sta vivendo: ne nascerà una summa di grandezza straordinaria e mai ripetuta, in cui scorre la linfa vitale di un duttile storicismo, sapientemente sposato all’approccio analitico più puntuale. Mimesis narra con grande intelligenza le peripezie della realtà rappresentata, secondo i luoghi e i tempi e la ricchissima pluralità delle convenzioni che l’hanno governata. Traccia l’insieme delle proporzioni – estremamente variabili – tra toni comici e toni seri nel percorso verso ciò che risulterà essere il Realismo di marca ottocentesca. In tale prospettiva, «Stendhal è il fondatore di quel moderno realismo serio che non può rappresentare l’uomo se non incluso entro una realtà politica e sociale ed economica continuamente evolventesi, come accade oggi in un qualunque romanzo o film»;[1] mentre «la letteratura antica non poteva rappresentare la vita quotidiana né seriamente né problematicamente, e nemmeno nel suo sfondo storico, ma solamente nello stile umile, comico o tutt’al più idilliaco, senza storia e statico».[2] Perché «le basi del realismo moderno sono da un lato la trattazione seria della realtà quotidiana, e il fatto che ceti sociali più estesi e socialmente inferiori siano assurti a oggetti d’una raffigurazione problematico-esistenziale, dall’altro lato l’inserimento di persone o di avvenimenti qualsiasi e d’ogni giorno nel filone della storia contemporanea, del movimentato sfondo-storico».[3]

Ora, nonostante l’alone romantico che circonda le intuizioni di Auerbach e la genesi di Mimesis, da questo impianto teorico pressoché onnicomprensivo sembrano restare sostanzialmente fuori proprio le opere di Musset o Chateaubriand. L’esclusione non è peraltro dettata da considerazioni di carattere estetico né da giudizi di valore, confortati da una minore o maggiore significatività storico-letteraria o ideologica dei testi in questione, quanto piuttosto dall’idea stessa di realtà che sta alla base del saggio. Dopo averci brillantemente ricordato che i concetti non sono qualcosa di aprioristico, immutabile, dato una volta per sempre, bensì piuttosto il prodotto (storicizzabile) di una determinata cultura,[4] Auerbach sembra dimenticarlo, almeno in parte, proprio quando si tratta di quello – così fondamentale per il suo discorso – di «realtà».  Che si oggettivizza, per lui, nella medietà: tanto degli oggetti rappresentati quanto dei toni che servono a dipingerli. In questo processo di neutralizzazione che mira a elidere gli estremi, non può ovviamente trovare posto l’idea romantica della vita come impasto non amalgamato di lacrime e riso, innocenza e colpa, inganno e illusione, sangue e candore, male e bene;[5] l’idea romantica della vita senza possibilità di agglutinamenti compromissori che trovava echi premonitori nei versi di Shakespeare: «Merry and tragical! Tedious and brief! / That is, hot ice and wondrous strange snow. / How shall we find the concord of this discord?».[6] Né tanto meno può trovarvi posto la poetica hugoliana del «mostruoso», così come la descrive Gianni Iotti: con il suo universo «prodotto d’una deliberata contaminazione fra generi «polari», frutto «degenere» del connubio di tragédie e mélodrame, oltre che popolato da mostri».[7] Infatti, ecco come Auerbach liquida Hugo, la genìa romantica, e l’intera questione:

Il Romanticismo, che s’era iniziato molto prima in Germania e Inghilterra, e le cui tendenze storiche e individualistiche si stavano da lungo tempo preparando anche in Francia, giunse alla sua manifestazione prima verso il 1820 e, com’è noto, fu proprio il principio della mescolanza degli stili, che Victor Hugo e i suoi amici innalzarono a loro grido di battaglia; in esso apparve evidentissima la contrapposizione al modo classico di considerare gli oggetti e alla lingua della letteratura classica. Tuttavia già nella formulazione di Victor Hugo questa antitesi si rivela un po’ troppo spinta; per lui si tratta della mescolanza del sublime e del grottesco: due poli dello stile in cui non si prende in considerazione la realtà. Effettivamente egli non cerca di raffigurare la realtà data comprendendola, ma piuttosto si adopera con energia estrema a trarre dal materiale storico e contemporaneo i due poli stilistici del sublime e del grottesco o anche altri contrapposti etici ed estetici, cosicché rimbalzino l’uno contro l’altro; in tal modo nascono in verità grandi effetti, poiché la forza espressiva di Hugo è potente e suggestiva, ma essi sono inverosimili e, in quanto riproduzione della vita umana, falsi.[8]

A prescindere dalla sua incongruenza con le tesi del libro e dalla sua riduttività, un giudizio del genere rischia di essere miope e fuorviante per ricostruire la poliedricità delle soluzioni letterarie ottocentesche: la forma e le direzioni che la contaminazione degli stili ha preso in Stendhal e Balzac non costituiscono che una parte degli esiti possibili; altre, non meno rilevanti e felici, sono state attualizzate per esempio da Hoffmann, Jean-Paul, e Musset. In questi autori, la commistione del comico e del serio produce un potente cortocircuito emotivo, con effetti particolarmente sconcertanti: «perché cessando di essere accostamento tra serie eterogenee che affermano in fondo la loro circolarità, si trasforma in interferenza tra istanze che scontano la condanna a una circolarità, sentita come negativa, nella loro mutua elisione».[9] Si genera così il «patetico» romantico, inteso come «formazione di compromesso tra un processo di degradazione comica e un processo di sublimazione patetica sistematicamente esercitata su uno stesso oggetto o situazione» – sono ancora parole di G. Iotti.[10]

Nella sola Francia, nell’arco di trent’anni scarsi, esistono due testi di straordinaria bellezza che non solo giocano entrambi sull’interpenetrazione destabilizzante di serie stilistiche a contrasto, ma lo fanno perfino convogliando in modi diversi gli stessi contenuti: la Carmen (1847) del racconto di Mérimée e quella dell’opéra-comique (1875) di Bizet. Con coerenza e con mio grande rammarico, Auerbach non si concede neanche un breve accenno a questi due capolavori, che realizzano nelle loro specificità un’alternativa di spessore a quella che lui chiama la «forma stendhal-balzachiana».[11]

Queste pagine intendono essere una sorta di risarcimento, di rimedio a quella mancanza. Un’interpretazione che scommetta sulla possibilità di portare alla luce la rete dei significati profondi, nella novella e nell’opera, a partire dall’assunto che la «dinamica tra comicità virtuale e com-passione effettiva, proprio nella misura in cui resta parzialmente irrisolta»,[12] riesca a definire l’essenza del patetico romantico e post-romantico.

Se il soggetto della Carmen – l’amore travolgente del giovane soldato per la conturbante gitana, e le sue conseguenze funeste – è noto a livelli quasi universali, un po’ meno lo sono le modalità dei ritagliamenti che il poeta e il compositore ne hanno dato: l’uno rimodellando la tragedia della ragione che il secolo precedente, con Montesquieu, aveva lasciato in eredità; l’altro mettendo in musica e parole l’eterno dramma umano del desiderio. Capire quanto queste due categorie rendano conto della differenza tra le due versioni, conoscere il sistema delle analogie rispettate e contraddette, cogliere il proprium di ciascuna declinazione, non è possibile senza scendere più analiticamente nell’interpretazione testuale. E, poiché la novella, oltre a precedere cronologicamente l’opera, ha costituito il motivo ispiratore delle musiche e il materiale fabulistico per il libretto di Meilhac e Halévy, sembra più opportuno affrontare il discorso a partire da quella.[13]

Récit enchâssé come le meravigliose storie di Sherazade, profumata di esotismo quanto la bella principessa orientale, la Carmen di Mérimée narra – a un primo livello – le esperienze e i curiosi incontri di uno studioso dell’Antichità che attraversa la Spagna alla ricerca delle rovine di Munda. La voce del pedante erudito è il je attraverso cui conosciamo le vicende: una sorta di diaframma tra chi legge e il vortice tanatoico che inghiottirà Carmen e don José. Negli interessi del narratore, occupa il posto d’onore la questione archeologica: stabilire le coordinate esatte del luogo in cui sorgeva un tempo l’antica città che fu teatro dell’ultima battaglia della guerra civile tra Giulio Cesare e le truppe dei repubblicani conservatori; le peripezie dei due amanti non sono per lui che un piccolo divertissement, una digressione da concedersi nell’attesa di poter pubblicare un’importante trattazione filologica sulle sue scoperte. La Weltanschauung che la voce narrante ci invita a condividere presuppone un universo coestensivo al mondo accademico, in cui si svolge una specie di darwiniana lotta per l’affermazione della supremazia intellettuale:

J’avais toujours soupçonné les géographes de ne savoir ce qu’ils disent lorsqu’ils placent le champ de bataille de Munda dans le pays des Bastuli-Poeni, près de la moderne Monda, à quelque deux lieues au nord de Marbella. […] Un mémoire que je publierai prochainement ne laissera plus, je l’espère, aucune incertitude dans l’esprit de tous les archéologues de bonne foi. En attendant que ma dissertation résolve enfin le problème géographique qui tient toute l’Europe savante en suspens, je veux vous raconter une petite histoire, elle ne préjuge rien sur l’intéressante question de l’emplacement de Munda.[14]

Niente autorizza a pensare che tutto ciò sia detto sul modo ironico: in fondo, le contingenze piccole e grandi che compongono la vita di un essere umano, i minuti fatti che si susseguono nella sua quotidianità, sono quasi sempre tutto ciò che lo interessa. Eppure si ha come la sensazione di udire una nota dissonante, in questo incipit. In parte, tornano alla mente gli accenti beffardi con cui Voltaire stigmatizza l’etnocentrismo nelle sue varie, pazze, forme; in parte, non si può fare a meno di notare l’enorme sproporzione tra lo spazio che il racconto accorda alle vestigia romane (poche righe), il cui mistero dovrebbe tenere tutta l’Europa colta con il fiato sospeso, e quello riservato al soldato-bandito don José e alla sua romi (i quattro quinti della novella). Il contrasto quantitativo assume una maggior rilevanza se surdeterminato in senso qualitativo: i temi tragici dell’amore e della morte non possono che proiettare, di riflesso, una luce risibile sull’affaire Munda. L’impressione è poco più avanti confermata dal mélange sistematico, all’interno della voce narrante che se ne fa carico, dei toni seri con quelli che oscillano tra il colloquiale prosastico e l’irrispettoso svalutativo. È un po’ come se Don Chisciotte e Sancho Panza avanzassero contemporaneamente le loro ragioni – l’ideale e il creaturale – dentro un’unica coscienza; ne esce fuori una particolarissima concordia discorde:

[je] m’étais mis en campagne avec les Commentaires de César et quelques chemises pour tout bagage. […] harassé de fatigue, mourant de soif, brûlé par un soleil de plomb, je donnais au diable de bon coeur César et les fils de Pompée, lorsque j’aperçus, assez loin du sentier que je suivais, une petite pelouse verte parsemée de joncs et de roseaux.[15]

Tutto questo crea potenti effetti di dépaysement, alterando in continuazione il sistema assiologico e la gerarchia dei valori a cui il lettore dovrebbe implicitamente aderire: 1) il narratore-archeologo sembra mettere al primo posto l’indagine filologica – per noi insignificante – su Munda, ma poi si rivela dispostissimo a mandare al diavolo anche quella per un po’ di frescura; 2) José Navarro, soldato della compagnia dei Dragoni, l’unico forse tra i suoi commilitoni a prender sul serio l’impegno civile e patriottico, abbandona l’Arma e sacrifica l’onore per una straniera appena incontrata, per l’effimera lusinga di un amore virtualmente carico di libera sensualità; 3) la morte verso cui egli s’incammina passa in secondo piano di fronte ai sigari che potrebbero andare sprecati.[16]

Il rimescolamento che avverrà così nel corso del racconto è peraltro anticipato dalla citazione greca (da Pallada di Alessandria) in epigrafe:

La femme est amère comme la bile; il y a toutefois deux circonstances où elle est agréable: au lit et quand elle est morte.[17]

Anche qui è difficile stabilire con certezza se leggere sul modo serio o sul modo ironico la boutade: la misoginia dell’epigramma è piuttosto plausibile se ricollocata nel V secolo d. C., un po’ meno nel XIX. Ma più interessante è la rete di rimandi semantici che si crea con il testo e un rincaro nel procedimento che smentisce le attese ancor prima che possano diventare coscienti. La frase è perfettamente in linea con la cultura di matrice classica, specialistica e oziosa, che il pedante narratore rappresenta: non fa che accreditare la sua estrazione e il suo peso specifico sociale. Nello stesso tempo, sembra dar ragione a Carmen che, a più riprese, si auto-rappresenta come il Diavolo.[18] Infine, la carica di ingiusta crudeltà che avvertiamo si rivela in verità, nella vicenda narrata, insufficiente a rendere conto dei fatti: anche morta, Carmen non cesserà di tormentare don José, conducendolo al patibolo. Troviamo così, dietro queste parole collocate in posizione liminare e apparentemente marginali, tutti gli ingredienti che mettono in moto il racconto: il senso di garanzia insito nella cultura; lo spettro insopprimibile della superstizione; il groviglio inestricabile di amore e morte. Qualche riflessione va subito fatta sul primo punto.

Il bagaglio di conoscenze che – più o meno figuratamente (nella sua valigia non c’erano che le camicie e i Commentari di Cesare) – il narratore si porta dietro fa di lui un campione della razionalità: specialmente nel confronto con gli altri personaggi della storia e con l’ambiente gravido di credenze popolari che le fa da sfondo. In diversi passi del testo, s’attira scopertamente l’attenzione sul suo grado d’istruzione; e – come ha ben scritto Fiorentino – «l’erudito, riprendendo con più o meno consapevolezza un modello autorevole della propria cultura, proietta sul paesaggio e sul suo inquietante compagno di strada propri modelli culturali»:[19] cita i soldati di Gedeone,[20] il Satana di Milton,[21] Le Cid di Corneille.[22] La mente dello studioso, libera dai pregiudizi dell’ignoranza, è presumibilmente in grado di stabilire in maniera oggettiva la verità dei fatti e di restituircela intera. Il lettore è chiamato a fidarsi di questa figura di mediazione, senza volto, con cui condivide un certo razionalismo e una certa superiorità intellettuale. Ma una serie di spie lo rendono, progressivamente, quanto meno sospetto. Basti pensare al suo primo incontro con don José:[23] l’aspetto incolto e fiero dello sconosciuto, l’archibugio che tiene stretto in pugno, i cenni disperati con cui la guida che lo accompagna (Antonio) si sforza di metterlo in guardia, non servono a dissuaderlo dal proposito di avvicinarsi. Il viaggiatore è convinto che sarà al sicuro dietro lo scudo di un’antica usanza: si limita a offrire un sigaro al bandito, perché: «En Espagne, un cigare donné et reçu établit des relations d’hospitalité, comme en Orient le partage du pain et du sel».[24] Il rapporto di fiducia è stabilito – in seguito alla condivisione di un pasto frugale e di un buon sigaro – sulla base di leggi dell’ospitalità sentite come superate e razionalizzate in altro modo, a Parigi.[25] Quando poi, durante la notte, Antonio cercherà di denunciare José Navarro alle autorità, il narratore si richiamerà di nuovo allo stesso principio e all’esigua intimità così stabilita, per salvargli la vita. Da notare anche, nel passo in questione, come un grande dilemma della coscienza vada a infrangersi su dettagli concreti quali un po’ di prosciutto e un piatto di riso (ma nella novella è spesso rappresentato pure il movimento contrario, ossia la descrizione di aspetti crudi, disagevoli, grotteschi, del reale su toni seri o perfino magniloquenti):[26]

Je me demandais si j’avais eu raison de sauver de la potence un voleur et peut-être un meurtrier et cela seulement parce que j’avais mangé du jambon avec lui et du riz à la valencienne. N’avais-je pas trahi mon guide qui soutenait la cause des lois; ne l’avais-je pas exposé à la vengeance d’un scélérat? Mais les devoirs de l’hospitalité!… Préjugé de sauvage, me disais-je […]. Pourtant est-ce un préjugé que cet instinct de conscience qui résiste à tous les raisonnements?[27]

Il valore fondante della ragione è già messo in questione dopo poche pagine; poi arriva Carmen, con i suoi filtri, gli amuleti di calamita, le carte, i camaleonti essiccati, e si scopre che il nostro campione di razionalità ha un passato da studioso delle scienze occulte, delle quali non ha mai smesso di subire il fascino:

Sortant du collège, je l’avouerai à ma honte, j’avais perdu quelque temps à étudier les sciences occultes et même plusieurs fois j’avais tenté de conjurer l’esprit de ténèbres. Guéri depuis longtemps de la passion de semblables recherches, je n’en conservais pas moins un certain attrait de curiosité pour toutes les superstitions, et me faisais une fête d’apprendre jusqu’où s’était élevé l’art de la magie parmi les Bohémiens.[28]

L’alibi che il narratore fa suo per lasciarsi andare in buona coscienza a una sorta di beata regressione è quello del viaggio.[29] Come osserva anche Fiorentino: «Questo archeologo, quando non si applica ai suoi studi, ha un atteggiamento che, con un neologismo dell’epoca, potremmo definire turistico: è sensibile a quanto di pittoresco trova nel paesaggio e negli incontri che può fare in Spagna».[30] Lontano da casa e dagli abituali doveri sociali, è lecito abbandonarsi alla curiosità, assaggiare un po’ di tutto, cumulare più esperienze possibili: «in uno spazio altro, sentito come meno civile, “inferiore”, il viaggiatore si sente più libero, cioè più autorizzato a esprimere la parte inconfessata e primitiva di sé».[31] E’ come se il trovarsi «altrove» autorizzasse una sospensione momentanea delle nostre capacità di giudizio:[32] e Mérimée non avrebbe potuto pertinentizzare più di così il sema dell’ailleurs nella sua novella. La caratterizzazione di questa Spagna, oppressa dal caldo e dalla polvere, patinata di sporcizia e barbarie, popolata di zingare e banditi, è in realtà molto tipizzata. Nonostante questo – o, sarebbe più corretto credere: proprio per questo – si innesca una dinamica che sta alla base dei più grandi romanzi gotici come dell’esotismo di marca illuministica: lo spostamento dal piano spaziale a quello temporale. In un luogo collocato oltre i confini del nostro vivere quotidiano, possono tranquillamente accadere cose che non accadono più da noi: nel cuore pulsante della civiltà, dove la razionalità ha ormai raggiunto uno stadio sufficientemente avanzato per credersi al riparo da certi errori. Il proprium dell’esotismo – potremmo dire parafrasando pagine critiche particolarmente perspicaci[33] – non coincide tanto con una distanza nello spazio resa pertinente ai fini dell’ambientazione quanto piuttosto con una sorta di alterazione della prospettiva temporale: per cui una cultura che noi, rispetto alla nostra coscienza di civiltà contemporanea, sentiamo come superata – superata, e non da sempre estranea, si badi bene! – può invece rivelarsi attuale in altro luogo. Lo stesso concetto approfondisce Francesco Orlando facendo riferimento proprio alla Carmen (ma a quella di Bizet): «Antico regime o medioevo attardato, orgogliosa e rutilante periferia appartata, spazio fatto inconsapevolmente tempo, la Spagna decaduta si convertirà nel passato d’Europa. Ecco perché è di preferenza altrove che la sua immagine prende suggestivamente forma».[34]

In questa Spagna bambina, infanzia della cultura francese, il viaggiatore razionale rischia di perdere la propria identità: corre il pericolo di un ritorno a una fase più arcaica della ragione. La commistione di toni comici e toni seri, di ideale e creaturale, di afflato lirico e contro-spinta materialistica, adombra questa formazione di compromesso più profonda: in cui i confini (tra ciò che una ragione adulta tollera e ciò che preme dal basso per restaurare una mentalità più arcaica) si ridefiniscono continuamente. D’altronde, la combinazione non potrebbe esistere senza una diacronia (arcaico vs attuale), mentre il sublime «può essere tale solo restando fuori dal tempo»:[35] si capisce perché inglobare la dimensione temporale significa necessariamente far spazio anche alle istanze più degradanti.

L’oscillazione bipolare – in tutta la sua potenza destabilizzante – è consentita, preparata, amplificata, da un altro gioco di pendolarità: quello fra i due poli di identificazione e dissociazione. Il personaggio dell’archeologo, come scrive Fiorentino, «per funzione narrativa e per il suo carattere non esotico, rappresenta il luogo deputato dell’incontro tra l’autore e il lettore nel testo».[36] Se il lettore deve necessariamente farsi guidare dall’occhio dell’istanza narrante, se può identificarsi con lui assumendo la razionalità come ago della propria bussola, se al contempo coltiva in sé anche qualche dubbio sull’effettiva stabilità di questa ragione che si sforza invano di negare cittadinanza alle lusinghe del mistero, il narratore si trova a occupare esattamente la stessa posizione nei confronti di don José. In parte è come lui, in parte non si fida di lui. L’identificazione può avvenire innanzitutto in base alla comune condizione di viaggiatore in terra straniera:

je remarquai qu’il ne prononçait pas l’s à la manière andalouse, d’où je conclus que c’était un voyageur comme moi, moins archéologue seulement.[37]

Ma anche e soprattutto per quell’atteggiamento di curiosità – tipico pure della logica del viaggiatore, secondo il testo – che spinge lo studioso e il soldato verso le pericolose attrattive di Carmen (la curiosità che guida anche il lettore dietro a loro). L’uno e l’altro sembrano affascinati dall’idea di sentirsi accanto una potenza selvaggia e di averla in qualche modo addomesticata. Il narratore avverte per la prima volta questa forza ciecamente contro ragione nell’incontro con don José:

D’ailleurs, j’étais bien aise de savoir ce que c’est qu’un brigand. On n’en voit pas tous les jours, et il y a un certain charme à se trouver auprès d’un être dangereux, surtout lorsqu’on le sent doux et apprivoisé.[38]

A partire da questo momento, il nodo che intreccia la dimensione selvatica a quella domestica viene pertinentizzato e produce senso. A un livello di astrazione più alto, comprendiamo che l’associazione dei due elementi è surdeterminata: gli impulsi ferini alludono a una fase arcaica della ragione, precedente al «disagio della civiltà», in cui essi potevano esplicarsi in tutta la loro forza (bruta); l’addomesticamento va riportato a una razionalità più matura, sempre suscettibile, però, di obliarsi un momento e lasciar trasparire nuovamente ciò che di superato (Freud parla proprio di «ritorno del superato»)[39] e violento reprime. Ridiscendendo al livello della trama, per trovare un altro esempio di questa combinazione binaria, basta pensare alla famosa descrizione di Carmen: il suo sguardo è quello famelico di un lupo o quello, analogo, del gatto di casa che punta una preda, tornando ai suoi istinti primordiali.

Ses yeux surtout avaient une expression à la fois voluptueuse et farouche que je n’ai trouvée depuis à aucun regard humain. Oeil de bohémien, oeil de loup, c’est un dicton espagnol qui dénote une bonne observation. Si vous n’avez pas le temps d’aller au jardin des Plantes pour étudier le regard d’un loup, considérez votre chat quand il guette un moineau.[40]

Del resto, anche don José – contagiato e corrotto dalla relazione con Carmen – sarà descritto come «un loup affamé»:[41] «noble et farouche».[42] L’animalità che a tratti s’accende in lui, contraddicendo il senso del dovere e l’educazione, non è estranea al narratore: che più volte ci suggerisce quanto di sé riesca a sentire nel bandito. E noi con lui: se l’identificazione era polarizzata fin dall’inizio sull’archeologo, e lui può riconoscersi in don José, allora anche noi solidarizziamo in qualche modo con il fuorilegge. Funziona qui quel meccanismo dell’inconscio che Matte Blanco ha saputo ridurre così bene nel principio della generalizzazione:[43] procedendo per classi logiche sempre più ampie, i pochi tratti che potevamo inizialmente avere in comune con don José ci rendono infine uguali a lui; o, per meglio dire: ci fanno essere lui. L’intimità tra noi (che ci muoviamo insieme allo studioso francese) e lui cresce ulteriormente nella notte passata a dormire fianco a fianco, sul pavimento del polveroso capanno in mezzo alle montagne. La scena merita di essere citata per intero:

Nous arrivâmes à la venta. Elle était telle qu’il me l’avait dépeinte, c’est-à-dire une des plus misérables que j’eusse encore rencontrées. Une grande pièce servait de cuisine, de salle à manger et de chambre à coucher. Sur une pierre plate, le feu se faisait au milieu de la chambre, et la fumée sortait par un trou pratiqué dans le toit, ou plutôt s’arrêtait, formant un nuage à quelques pieds au-dessus du sol. Le long du mur, on voyait étendues par terre cinq ou six vieilles couvertures de mulets; c’étaient les lits des voyageurs. À vingt pas de la maison, ou plutôt de l’unique pièce que je viens de décrire, s’élevait une espèce de hangar servant d’écurie. Dans ce charmant séjour, il n’y avait d’autres êtres humains, du moins pour le moment, qu’une vieille femme et une petite fille de dix à douze ans, toutes les deux de couleur de suie et vêtues d’horribles haillons. – Voilà tout ce qui reste, me dis-je, de la population de l’antique Munda Boetica! Ô César! ô Sextus Pompée! que vous seriez surpris si vous reveniez au monde![44]

Dopo le fantasticherie del narratore sulla vita liricamente avventurosa dei banditi, l’insistenza sullo squallore dell’albergo e sulla condizione miserabile delle padrone di casa ci riporta allo spazio del quotidiano, compiendo l’ennesimo salto dal metafisico al fisico. Nei toni ironici delle esclamazioni finali, riecheggia il richiamo allo splendore, ormai spento, delle grandi civiltà passate. Ancora una volta si tratta di contrapporre passato e presente: o, per meglio dire, di far convivere l’uno e l’altro in un rapporto di equilibrio altamente instabile, continuamente alterabile. Se il grado di raffinatezza che Cesare o Pompeo avevano raggiunto cozza con la desolazione di questo rifugio, d’altra parte è vero anche che la vecchia e la bambina – vivendo in una dimensione più arcaica e, verosimilmente, nell’ignoranza – sanno però rispettare un codice d’onore istintivo (lo stesso che sembra valere per il narratore, parigino e colto, quando si appella a «cet instinct de conscience qui résiste à tous les raisonnements»):[45] offrono asilo al fuorilegge. Antonio, invece, insegue il valore tutto moderno del denaro: è pronto a rischiare la vita per denunciare don José e guadagnarsi la taglia che grava sulla sua testa. Alla locanda, ha luogo anche un altro episodio dove il mélange dei toni trionfa e si dispone nella formazione di compromesso tra comico e patetico: si tratta della canzone accennata da don José prima di coricarsi. Un’aria sofferente e dolorosa che si accompagna al suono, invece giocoso, del mandolino:

– Soyez assez bon, lui dis-je, pour me chanter quelque chose; j’aime à la passion votre musique nationale.
– Je ne puis rien refuser à un monsieur si honnête, qui me donne de si excellents cigares, s’écria don José d’un air de bonne humeur; et, s’étant fait donner la mandoline, il chanta en s’accompagnant. Sa voix était rude, mais pourtant agréable, l’air mélancolique et bizarre; quant aux paroles, je n’en compris pas un mot.[46]

Difficile non pensare alle parole con cui Musset commenta la serenata di Don Giovanni,[47] mascherato, sotto le finestre della cameriera: «Une mélancolique et piteuse chanson, / Respirant la douleur, l’amour et la tristesse. / Mais l’accompagnement parle d’un autre ton. / Comme il est vif, joyeux! Avec quelle prestesse / Il sautille! – On dirait que la chanson caresse / Et couvre de langueur le perfide instrument, / Tandis que l’air moqueur de l’accompagnement / Tourne en dérision la chanson elle-même, / Et semble la railler d’aller si tristement. / Tout cela cependant fait un plaisir extrême».[48] In Mérimée, le serie stilistiche hanno una composizione molto diversa: non c’è un seduttore che tenta – con la sua maschera e con le sue parole doppie – di ingannare, mentre soffre anche lui, della ferita che il desiderio imprime nella sua carne. Qui, assistiamo piuttosto al tentativo di mantenere un’atmosfera di intrattenimento, conviviale e gaia, nonostante i guai che la vita ci mette incessantemente di fronte: tentativo corroborato dalla leggerezza che si sprigiona attraverso le corde del mandolino; osteggiato dal risorgere di ricordi d’infanzia che sprofondano nella malinconia. Locuzioni come «d’un air de bonne humeur» fanno contrasto, in questa pagina, con altre del tipo «air sombre» o «une singulière expression de tristesse»: l’immagine delle province basche, dell’innocenza perduta per sempre, della madre che lo cullava magari su quella stessa melodia, cinge d’assedio la mente del giovane disertore, mutando in mestizia il rimbalzare scherzoso del piccolo strumento a corde. Lo stesso avverrà poco più avanti al narratore, su un piano di desiderio frustrato ancor più vicino a quello mozartiano:

Quelques minutes avant l’angélus, un grand nombre de femmes se rassemblent sur le bord du fleuve, au bas du quai, lequel est assez élevé. Pas un homme n’oserait se mêler à cette troupe. Aussitôt que l’angélus sonne, il est censé qu’il fait nuit. Au dernier coup de cloche, toutes ces femmes se déshabillent et entrent dans l’eau. Alors ce sont des cris, des rires, un tapage infernal. Du haut du quai, les hommes contemplent les baigneuses, écarquillent les yeux, et ne voient pas grand-chose. Cependant ces formes blanches et incertaines qui se dessinent sur le sombre azur du fleuve, font travailler les esprits poétiques, et, avec un peu d’imagination, il n’est pas difficile de se représenter Diane et ses nymphes au bain, sans avoir à craindre le sort d’Actéon. On m’a dit que quelques mauvais garnements se cotisèrent certain jour, pour graisser la patte au sonneur de la cathédrale et lui faire sonner l’angélus vingt minutes avant l’heure légale. Bien qu’il fît encore grand jour, les nymphes du Guadalquivir n’hésitèrent pas, et se fiant plus à l’angélus qu’au soleil, elles firent en sûreté de conscience leur toilette de bain, qui est toujours des plus simples. Je n’y étais pas. De mon temps, le sonneur était incorruptible, le crépuscule peu clair, et un chat seulement aurait pu distinguer la plus vieille marchande d’oranges de la plus jolie grisette de Cordoue.[49]

L’aneddoto ha un lato spiccatamente lirico e uno decisamente farsesco: da una parte, possiamo pensare la luce del giorno che si stempera nelle ombre notturne, il gioco di riflessi dell’acqua, il rintocco quasi mistico dell’angelus, la pelle bianca e i profili incerti che cullano le rêveries erotiche dell’osservatore, trasportandolo nel tempo mitico delle dee e delle ninfe; dall’altra, grida e schiamazzi infernali, fresche sartine vagheggiate che si rivelano essere vecchie rugose e cadenti, ragazzacci che corrompono il campanaro per appagare il loro appetito voyeuristico. Lo scarto tra i due piani non fa che aumentare il sentimento destabilizzante di chi legge, fino a infrangersi contro la frase finale, messa sul conto del narratore: si aguzza l’ingegno, si ride, si scherza, ma dolorosamente. Il desiderio rimane frustrato, anche quello puramente contemplativo: il viaggiatore è escluso dall’idillio, e la sua cultura – che si esprime anche attraverso i paragoni colti con Diana e Atteone – non serve a compiere l’integrazione. L’oggi è di nuovo contrapposto al prima, anche sul modo giocoso: una volta, desiderio e atto trovavano la maniera di corrispondersi; adesso, il sagrestano è integerrimo, e perfino la notte sembra manifestare l’intenzione di ostacolare il raggiungimento del piacere. Sono proprio le conquiste della ragione a ricordarci ciò che le si è penosamente sacrificato.

Oppure s’incarica di ricordarcelo chi quelle conquiste le ignora e le rinnega: Carmen, libera da ogni tipo di zavorra morale. Tutte le volte che don José cerca di misurarsi con lei rimanendo dentro la logica razionale, ne esce pietosamente sconfitto. Comicamente sconfitto, per meglio dire. Basta pensare alla scena del primo incontro tra i due protagonisti.[50] Il gioco dei quiproquo che Carmen consapevolmente conduce, trasformando l’«épinglette» per stappare il fucile – simbolo di virilità e patriottismo – in una «épingle» da sartoria, getta una luce letteralmente risibile sulle occupazioni del soldato: l’intera piazza prorompe in una debordante risata. Mentre nel comico classico di Molière si ride a spese di coloro che sono incapaci di attenersi a una norma sociale, «stigmatizzando istanze infantili o anarchiche e mostrandone gli effetti disastrosi»,[51] in Mérimée, il riso sembra piuttosto solidarizzare con gli eccentrici: «Monsieur, quand cette fille-là riait, il n’y avait pas moyen de parler raison. Tout le monde riait avec elle».[52] E’ un riso assoluto, primitivo, selvaggio. Che spenge nel fango della prosaicità ogni slancio lirico di don José: stigmatizzando il suo senso etico con disprezzo;[53] o volgendo al ridicolo le sue fantasticherie sulla vita da contrabbandiere, in sella a un buon cavallo, con la libertà a portata di mano e l’amore contro la schiena:

J’avais entendu souvent parler de quelques contrebandiers qui parcouraient l’Andalousie, montés sur un bon cheval, l’espingole au poing, leur maîtresse en croupe. Je me voyais déjà trottant par monts et par vaux avec la gentille bohémienne derrière moi. Quand je lui parlais de cela, elle riait à se tenir les côtés […].[54]

L’istintualità animale di Carmen è potente, sovversiva, contagiosa. Con lei, la ragione passa sempre dalla parte del torto; lo dimostra un altro gustoso episodio di malintesi pilotati, dal sapore decisamente marivaudiano: don José parte per Gibilterra sulle tracce di Carmen, e vaga per la città mascherato da mercante d’arance; all’improvviso, lei lo chiama dal balcone di un lussuoso appartamento, dove si trova in compagnia di un ufficiale inglese. Comincia così un’esilarante commedia dell’equivoco: Carmen impone a don José di parlare esclusivamente basco, e l’Inglese – del loro battibecco geloso e piccato – non afferra che gli echi della traduzione tendenziosa che la bella gitana inventa per lui:

– Je donnerais un doigt pour tenir ton mylord dans la montagne, chacun un maquila au poing.
– Maquila, qu’est-ce que cela veut dire? demanda l’Anglais.
– Maquila, dit Carmen riant toujours, c’est une orange. N’est-ce pas un bien drôle de mot pour une orange? Il dit qu’il voudrait vous faire manger du maquila.
– Oui? dit l’Anglais. Eh bien ! apporte encore demain du maquila.
Pendant que nous parlions, le domestique entra et dit que le dîner était prêt. Alors l’Anglais se leva, me donna une piastre, et offrit son bras à Carmen, comme si elle ne pouvait pas marcher seule. Carmen, riant toujours, me dit :
– Mon garçon, je ne puis t’inviter à dîner; mais demain, dès que tu entendras le tambour pour la parade, viens ici avec des oranges. Tu trouveras une chambre mieux meublée que celle de la rue du Candilejo, et tu verras si je suis toujours ta Carmencita. Et puis nous parlerons des affaires d’Egypte.
Je ne répondis rien, et j’étais dans la rue que l’Anglais me criait:
– Apportez demain du maquila! et j’entendais les éclats de rire de Carmen.[55]

Con questo scambio di battute, siamo incontestabilmente nel dominio della farsa. E’ una situazione da commedia delle più tipiche: colui che crede di essere rispettato, di detenere l’autorità, è in realtà giocato. L’unica ad uscirne vittoriosa è sempre Carmen, con la sua carica sensuale e a-razionale: ma tutti quelli che la circondano, sebbene sconfitti, non possono che lasciarsi conquistare dalla spinta asociale di cui si fa promotrice. Perché in lei c’è qualcosa di alieno, ma c’è anche e soprattutto qualcosa di simile a noi: cioè a don José. Fin dalla sua prima apparizione, il soldato si fa rapire dalla fisicità di Carmen, così diversa da quella modesta e pudica delle donne basche:

Elle avait un jupon rouge fort court qui laissait voir des bas de soie blancs avec plus d’un trou, et des souliers mignons de maroquin rouge attachés avec des rubans couleur de feu. Elle écartait sa mantille afin de montrer ses épaules et un gros bouquet de cassie qui sortait de sa chemise. Elle avait encore une fleur de cassie dans le coin de la bouche, et elle s’avançait en se balançant sur ses hanches comme une pouliche du haras de Cordoue. Dans mon pays, une femme en ce costume aurait obligé le monde à se signer.[56]

Ma è ciò che di famigliare vede in lei a far cedere il soldato: quando Carmen gli si rivolge nella sua lingua natale, allora non può resisterle («Notre langue, monsieur, est si belle, que, lorsque nous l’entendons en pays étranger, cela nous fait tressaillir…»).[57] Deve correre in suo aiuto perché lei, una sua compaesana, è stata insultata dalla viltà sivigliana:

Je travaillais à la manufacture pour gagner de quoi retourner en Navarre, près de ma pauvre mère qui n’a que moi pour soutien, et un petit barratcea avec vingt pommiers à cidre! Ah! si j’étais au pays, devant la montagne blanche! On m’a insultée parce que je ne suis pas de ce pays de filous, marchands d’oranges pourries; et ces gueuses se sont mises toutes contre moi, parce que je leur ai dit que tous leurs jacques de Séville, avec leurs couteaux, ne feraient pas peur à un gars de chez nous avec son béret bleu et son maquila. Camarade, mon ami, ne ferez-vous rien pour une payse?[58]

Carmen sa bene quali corde toccare per sedurre don José: l’immagine delle montagne bianche, del paese, risvegliano in lui quella nostalgia che lo porterà alla rovina. Una nostalgia che funziona al grado zero, certo, ma che si lascia facilmente surdeterminare. Perché Carmen è l’infanzia della ragione, che ognuno di noi ha conosciuto e nessuno può rimuovere definitivamente; il suo richiamo è quello antisociale, antiutilitaristico, del «principio di piacere»: lei «gioca, attacca briga, consuma dolciumi, ride irresistibilmente»,[59] «comme un enfant de six ans».[60] Non a caso, la novella insiste – a più riprese – sul concetto di «educazione». Don José è stato educato in un forte rigorismo morale, che lo separa dai suoi commilitoni («Quand ils sont de service, les Espagnols jouent aux cartes, ou dorment; moi, comme un franc Navarrais, je tâchais toujours de m’occuper.»),[61] lo rende apparentemente immune al fascino delle sigaraie («Pendant que les autres regardaient, moi, je restais sur mon banc, près de la porte. J’étais jeune alors; je pensais toujours au pays, et je ne croyais pas qu’il y eût de jolies filles sans jupes bleues et sans nattes tombant sur les épaules.»),[62] lo spinge paradossalmente dritto verso la tragedia. Come Stevenson allude al fatto che proprio una vita irreprensibile, una sorveglianza di sé eccessiva, un’autodisciplina troppo onerosa da sopportare, hanno aperto nel Dr Jekyll la falla da cui è mostruosamente saltato fuori Mr Hyde, così Mérimée sembra suggerire che l’unica vera colpa di don José è stata di voler dominare l’intera realtà con la ragione – al contrario del narratore, che, sebbene estremamente colto, accetta l’esistenza di forze oscure che turbano il razionale e lo trascendono. Al polo opposto, sta Carmen con la sua potente, fascinosa, sensuale irrazionalità: corre mostrando le gambe (e, non a caso, «On dit jambes de Basques»: un modo di dire, certo, ma anche un altro riferimento a ciò che di famigliare è presente in lei);[63] disprezza il senso del dovere;[64] è pronta a sgozzare un uomo per un orologio d’oro, ma, impedita da don José, si siede a gambe incrociate e, con gusto, mangia un’arancia.[65] Anche per lei, è questione di educazione (o non-educazione), come mette in luce il commento finale di don José: «Pauvre enfant! Ce sont les Calé qui sont coupables pour l’avoir élevée ainsi».[66] In questa prospettiva, si comprende meglio la necessità di chiudere il racconto con il trattatello sugli usi e i costumi dei Gitani, una porzione di testo che spesso è stata considerata come un’inutile appendice e, in certi casi, perfino tagliata:[67] il narratore torna a prendere la parola, dopo la lunga confessione del condannato a morte, assume nuovamente il tono distaccato e curioso che l’ha distinto come osservatore imparziale per tutta la vicenda, mette in sostanza l’accento sulla relatività del confine (prodotto dell’educazione: di una maturità indotta della ragione) fra bene e male, morale e immorale, giusto e sbagliato. Non avrebbe potuto farlo se, storicamente, non si fosse compiuto quel processo di ridefinizione del pensiero su basi sensistico-emotive anziché razionali inaugurato da Locke e Rousseau – processo che ha reso la partecipazione emotiva indistinguibile dal giudizio intellettuale, agglutinando affettività e razionalità. Dunque, questa relativizzazione officia una volta di più la tragedia della ragione.

Nell’opera di Bizet, un analogo tentativo di ridimensionamento non c’è. Siamo all’interno di un altro meccanismo di pensiero, un altro sistema semiotico, un’altra tradizione di genere. Che pretende una polarizzazione «drammatica».[68] La spartizione assiologica deve essere ben chiara: da una parte Carmen, diabolica tentatrice; dall’altra Micaëla (personaggio inesistente nella novella), l’angelo custode che tenta ogni mezzo per riportare don José sulla retta via: e sembra così vicina a riuscirci, in quel meraviglioso duetto vibrante di pathos che recita «Ô souvenirs d’autrefois! / Doux souvenirs du pays!».[69] Il movimento pendolare fra gli opposti non è più qui la dialettica infanzia – età adulta della ragione, bensì il dramma del desiderio. La materia scandalosa di Mérimée andava riplasmata, depotenziata, adattata ai frequentatori borghesi e benpensanti dell’Opéra Comique, per evitare che si sentissero offesi «dalla impudica immoralità del racconto».[70] «Da quella base, che pure a noi sembra tutt’altro che eversiva nella sua distaccata pittoricità da romanzo inglese, fu tutto un prodigarsi, da parte dei librettisti soprattutto, per mediarne le punte più estreme, ridurne gli eccessi ad un livello di «medietà» più accettabile da parte del gran pubblico».[71] Così commenta V. R. Segreto, e continua: «È quindi comprensibile, anche se non giustificabile, il loro prodigarsi affinché la scena non fosse troppo naturalistica, la recitazione troppo «osée», l’interpretazione troppo accesa».[72] Ma bisogna stare attenti a non sottolineare eccessivamente l’aspetto di tradimento di un originale, altrimenti si rischia di fraintendere la specificità di un capolavoro che, sì, è ispirato al racconto omonimo, però è anche e soprattutto altro. Del resto, l’operazione di neutralizzazione non deve essere del tutto riuscita, se Lorenzo Arruga può descrivere l’opera in questi termini: «Peccato senza redenzione, sesso senza spiegazioni, biondina dagli occhi celesti che cerca di salvare il bel dragone innamorato della gitana, e non solo non lo salva, ma nemmeno può morire per lui. In certo modo il Romanticismo era finito; e anche le bugie delle convenzioni di stile e di amori per bene sulla scena erano smascherate».[73]

È un fatto però che quelle che vengono avvertite come «infedeltà» del libretto al testo originario vanno tutte in quella direzione: basti pensare all’invenzione di Micaëla come pendant angelico di Carmen e all’eliminazione dei delitti di sangue compiuti da don José per gelosia, pur mantenendo invece la presenza opprimente del senso di colpa, qui ancor più sproporzionato. Ma un confronto serrato tra Mérimée e Bizet non ci interessa, se non per ricordare ancora una volta che l’opera si avvale di altri mezzi, di un’altra ascendenza, di un altro linguaggio: che è musica e parole insieme, e cioè il gioco di interferenze, contrasti, interpenetrazione di due elementi distinti. Soltanto se si ammette questo cambio di piano, si può capire come cessi di esser pertinente il nodo infanzia-maturità della ragione, e diventi protagonista il desiderio in tutte le sue declinazioni. Senza le voci narranti a interagire, scompare anche il gioco di rimbalzi dell’identificazione. Va in scena il dramma del desiderio, dramma eterno e universale, che trova un’epitome a pochi minuti dall’apertura del sipario nella famosa, irresistibile, habanera:

L’amour est un oiseau rebelle
que nul ne peut apprivoiser,
et c’est bien en vain qu’on l’appelle,
s’il lui convient de refuser!
Rien n’y fait, menace ou prière,
l’un parle bien, l’autre se tait;
et c’est l’autre que je préfère,
il n’a rien dit, mais il me plaît.

[…] L’amour est enfant de Bohême,
il n’a jamais, jamais connu de loi;
si tu ne m’aimes pas, je t’aime;
si je t’aime, prends garde à toi![74]

Carmen ci mette in guardia: amarla non conviene. Enuncia le leggi dell’amore, votandolo al fallimento. È tutto già scritto, già detto, già previsto fin dall’inizio. Se queste sono le regole del gioco, Moralès tenterà invano di sedurre una freschissima Micaëla – da lui designata con l’appellativo di «oiseau»[75] proprio come l’Amore; invano, Zuniga farà valere la sua autorità per possedere Carmen: sarà ridotto all’impotenza e tenuto sotto tiro dai contrabbandieri;[76] e, invano, don José implorerà, come un ubriaco, come un ensorcelé, «si je cède, si je me livre, / ta promesse, tu la tiendras, / ah! Si je t’aime, Carmen, Carmen, tu m’aimeras!»:[77] non potrà uscirne che sconfitto (e tornano a sottolinearlo musicalmente le note dell’habanera). Questo aspetto era completamente assente nella novella, dove i poteri diabolici di Carmen e i suoi filtri gitani a base di pietra calamita non sarebbero bastati ad alienare don José a se stesso, senza l’attrazione per il superato, la curiosità intellettuale e sensuale, la necessità della ragione di comprendere e inglobare l’altro che poi così altro non è: ricordiamo il binomio gonna rossa – lingua basca. Nell’opera, invece, si enfatizza da subito la frattura insanabile tra il mondo di don José e quello di Carmen: che rappresentano poli semantici in conflitto, e l’habanera – descrivendo il destino del desiderio, esorcizzandone al contempo la sofferenza – esclude categoricamente qualsiasi possibilità non tragica di mediazione. I due personaggi appartengono a mondi diversi e incomunicabili: basta a provarlo il fatto che il soldato ricorre sempre al linguaggio razionale, mentre la sensuale gitana rifiuta di esprimersi fuori dal canto, dalla salmodia, dai gorgheggi ipnotici. Sotto interrogatorio, messa alle strette dal luogotenente che l’accusa del delitto in manifattura, Carmen canticchia (e i violini l’accompagnano): «Tra la, la, la, la, la, la, la, / coupe-moi, brûle-moi, / je ne te dirai rien! / Tra la, la, la, la, la, la, la, / je brave tout, le feu, / le fer et le ciel même!».[78] Nel tragitto verso la prigione, don José proibisce a Carmen di parlargli, e lei intona quella irresistibile séguedille.[79] Nel secondo atto, la vediamo esibirsi in una danza conturbante, al ritmo dei tamburelli, sempre sul solito «Tra la la la».[80] E «quando, arrivato don José, danza in suo onore accompagnandosi con le nacchere, va fino in fondo nell’azzerare letteralmente la parola: un La la la la tendente all’infinito, fra la nenia erotica e la ninna nanna».[81]

L’impossibilità di una reciprocità è dunque data fin dall’esordio. La musica parla ancor più chiaro: ci mette di fronte a un sistema rotondo e chiuso, il cui finale è già compreso nell’ouverture. La circolarità di molti brani non fa che accentuare questo carattere di ineluttabilità: l’idea che si trasmette è quella dell’impossibilità di una qualsiasi evoluzione, come se la libertà invocata e propugnata da Carmen non potesse ridursi ad altro che a una trappola. Pensiamo alla prima scena, tra calore e polvere e noia: arriva quel «drôles des gens»[82] a creare un diversivo sulla bocca e negli occhi dei soldati, torna ripetuto dal brigadiere Moralès, poi ancora dagli uni e l’altro in coro – prima dell’arrivo di Micaëla e immediatamente dopo, a chiudere appunto la scena in modo circolare.[83] O pensiamo anche al cambio della guardia, con i bambini che scimmiottano le pose seriose dei soldati al suono metallico della tromba: il loro «Sonne, trompette éclatante! / Ta ra ta ta ta ra ta ta»[84] si ripete quattro volte, aprendo e chiudendo la parte musicale della scena seconda. Del resto, anche F. Orlando – seppur in altro senso – vede nel quadro una sorta di prolessi, se può scrivere che «il velleitario militarismo infantile racchiude una profezia: mette in caricatura la disciplina che sarà rinnegata da don José un atto dopo, a suon di trombe ridotte da Carmen con ben più aggressiva contraffazione a un “Ta ra ta ta”».[85] La frustrazione del desiderio che avviene a livello dei protagonisti è miniaturizzata in una serie di scene secondarie: prima fra tutte, quella – memorabile – dell’uscita dalla manifattura, che prepara la comparsa di Carmen. La campana suona e una folla di giovani donne sciama verso la piazza, nelle strade; uno stuolo di giovanotti le attende, ne spia il passaggio, le corteggia. I toni sono ariosi, i cori commossi, le masse si muovono sulla scena. C’è un’aria di festa, sottolineata dal «Tout doucement cela vous met / l’âme en fête!»[86] delle sigaraie. L’atmosfera si erotizza e il gioco della seduzione è in atto: il «Sans faire les cruelles, / écoutez-nous, les belles»[87] delle voci maschili, le tonalità profonde e lacrimose del coro, sottolineano la parte dolorosa di questo commercio vagheggiato. Sembra allontanarla la camminata moqueuse e insouciante di Carmen, il suo canto gioioso a cui si unisce l’intero insieme delle voci femminili; ma lo scioglimento drammatico è in agguato, e l’orchestra lo sottolinea rispondendo al moto anelante dei giovanotti con le note tragiche che avevamo assaggiato in ouverture, quelle che accompagnano il lancio del fiore: da una parte, scegliendo don José, Carmen lascia insoddisfatti tutti gli altri; dall’altra, prepara una vita di inferno al soldato basco.

Dal commento di questa scena appare già evidente la modalità secondo cui si esplica quel dramma del desiderio che è la Carmen di Bizet: anche qui funziona in tutta la sua forza il «gioco del comico e del serio» che ha sostituito, dopo il Secolo dei Lumi, la comicità tout court. Con parole di F. Orlando: «l’originalità unica del capolavoro consiste precisamente nella gestione musicale semiseria, ironica, scherzosa d’una trama che alla conclusione, e quindi già in anticipo per tutta la sua durata, è tragica».[88] L’opera risulta, infatti, «regolata per intero da una proporzione in assoluto unica fra il drammatico e il giocoso».[89] Già l’ouverture riproduce in scala ridotta il mélange tonale, riservando – se possiamo parlarne in termini quantitativi – lo spazio dei due terzi a brani imbevuti di leggerezza e gioiosità, un terzo alla serietà tragica. L’equilibrio combinatorio sortisce effetti potentissimi anche nell’incontro tra Escamillo e don José al terzo atto: quando il torero va in cerca di Carmen e si scontra invece con un sofferente don José. Completamente ignaro dell’identità di chi ha di fronte, egli si dichiara follemente innamorato della gitana, e rievoca – come osserva Paduano – più «con paradossale e malinconica simpatia» che «non irrisione»[90] la storia del soldato che ha perso onore e amore proprio davanti a quel soldato.[91] Ma la scena più emblematica in questo senso è sicuramente il finale, e merita farne un commento più approfondito.

Siamo in un giorno di fiera: fra il caldo e le folle accalcate, entra il circo e si prepara la corrida. Alle masse umane fanno eco quelle delle merci (il legame tra merce e desiderio non è certo ignoto a chi viene dopo Marx): i mercanti – che si fanno intendere in due cori distinti, di voci maschili e voci femminili – pubblicizzano arance e ventagli, sigarette e bibite. Un «Señoras et caballeros»[92] ci avverte che lo spettacolo sta per cominciare, per la gente che si sventola nell’afa sivigliana come per gli spettatori chiusi in teatro. Viene lanciata la parata, che si dondola su musica da cancan, e prende forma nelle descrizioni del coro: l’alternarsi delle voci femminili (dominanti) e maschili rimanda all’episodio del cambio della guardia, nell’immagine che ce ne restituiscono i ragazzini. Dal lato della giocosità, si situano anche il duetto di Carmen e Escamillo che si dichiarano il loro amore, e la marcia orchestrale – di un’imponderabile leggerezza – che accompagna l’ingresso dell’alcalde. A questo punto, i toni cominciano a farsi spuri: gli ammonimenti a Carmen di Frasquita e Mercédès suonano decisamente cupi, e, per lo spazio di un istante, il cancan della corrida si mescola ai bassi della minaccia incombente. Poi arriva don José: e struggente è la sua supplica a Carmen, la disperata richiesta di fuggire insieme e ricominciare da capo, altrove. Il duetto di Carmen e don José si configura come un dialogo tra sordi, dove ognuno porta avanti le sue ragioni senza comprendere quelle dell’altro; nella musica, vibra tutto il pathos dei ricordi. Infine, il soldato prende coscienza della fine dell’amore e le note si fanno tragiche, dolenti; prova un’ultima volta a convincere colei che adora «Carmen, il est temps encore, / oui, il est temps encore…»,[93] facendo appello al passato, in un pateticissimo «ô ma Carmen! Ah! Souviens-toi, / souviens-toi du passé! Nous nous aimions, naguère!», che distende le tonalità;[94] ma lei non intende ragioni e l’affondo musicale con cui si rifiuta è implacabile, tremendo. Segue lo scontro finale: vero capolavoro di intreccio tonale. L’alterco tra gli amanti è continuamente intermezzato dalle grida esultanti del pubblico, che tiene gli occhi fissi sull’arena. E il colpo mortale a Carmen corrisponde alla morte del toro nella corrida, accolta dal coro «Toréador»:[95] così che, per un’amara ironia della sorte, gli occhi neri che dovrebbero attendere e ricompensare le fatiche di Escamillo sono chiusi per sempre. Certo, il quadro si colloca interamente «sotto il segno della più tipica costante forse dell’intera tradizione operistica da Gluck a Britten: la festa tragica»;[96] ma c’è anche altro. C’è anche qualcosa di più specificamente ottocentesco.

C’è la tendenza, tutta moderna, a fondere in combinazioni inedite la materia comica e quella tragica; a mescolare tra loro stili differenti, toni differenti; a far scontare un implacabile contrappasso a qualsiasi slancio lirico. Stendhal lo faceva caricando i suoi eroi di un’inadeguatezza al mondo sentita contemporaneamente come debolezza e superiorità; Hugo nascondendo «solidarietà latenti» dietro «opposizioni ostentate»,[97] ovvero instillando le scintille del sublime in anime mostruosamente repellenti all’identificazione; Musset funzionalizzando artisticamente il triviale insieme a un’invincibile nostalgia dell’ideale metafisico, come compendia perfettamente la sua Confession: «Ce ne fut qu’un sanglot et un éclat de rire, l’un venant de l’âme, l’autre du corps».[98]

Mérimée e Bizet hanno saputo inventarsi nuove possibilità di cortocircuito per le due serie stilistico-tonali antinomiche. Nella novella di Carmen, questa nuova possibilità si è tradotta nella corrispondenza originalissima tra una maturità della ragione che nega il creaturale fino a lasciarsi fatalmente attrarre, e un’infanzia della ragione che ne riduce al modo comico – liberatorio e dissacrante – ogni anelito sublimante. Nella Carmen musicata, il pathos sta piuttosto dalla parte del desiderio, che cerca di librarsi nell’aria, mentre il comico s’incarica di farlo affondare nel fango della trivialità. E tutta la poesia moderna è in questo sapiente, dolorosissimo, delicato, (dis-)equilibrio.

 

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– P. Glaudes (a cura di), Mérimée et le bon usage du savoir. La création à l’épreuve de la connaissance, Toulouse, Presses Universitaires du Mirail, 2008

– G. Iotti, «Figures du pathétique chez La Chaussée et chez Voltaire», in La Chaussée, Destouches et la comédie nouvelle au XVIIIe siècle, Paris, Presses de l’Université Paris-Sorbonne, 2012

– Id., Il gioco del comico e del serio. Saggio sul teatro di Musset, Napoli, ESI, 1990

– Id., «Le metamorfosi di Triboulet», in: Il senso del nonsenso. Scritti in memoria di Lynn Salkin Sbiroli, Napoli, ESI, 1995

– H. James, Prosper Mérimée, in La lezione dei maestri – Il romanzo  francese dell’Ottocento, a cura di G. Mochi, Torino, Einaudi, 1993

– S. Lorusso (a cura di), Carmen, Venezia, Marsilio, 2004

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– I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, Torino, Einaudi, 1981

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– D. Xavier, Prosper Mérimée, Paris, Flammarion, 1998

________________
Note.

[1] Erich Auerbach, Mimesis – Il Realismo nella letteratura occidentale, Torino, PBE Einaudi, 1956, vol. I, p. 231.
[2] Ivi, p. 40.
[3] Ivi, p. 267.
[4] Mi riferisco alle acute osservazioni sul concetto di naturalezza che Auerbach fa parlando delle tragedie di Racine, nel capitolo «L’ipocrita» (pp. 117-154). Cfr. in particolare pp. 148-149.
[5] Sto imperfettamente parafrasando alcuni tra i versi più belli di Namouna:
C’est qu’on pleure en riant; – c’est qu’on est innocent
                Et coupable à la fois; c’est qu’on se croit parjure
                Lorsqu’on n’est abusé; c’est qu’on verse le sang
                Avec des mains sans tache, et que notre nature
                A de mal et de bien pétri sa créature […].
(Alfred de Musset, Poésies complètes, édition établie et annotée par M. Allem, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 1958, p. 242.
[6] Sono i versi di Midsummer Night’s Dream che Gianni Iotti mette in epigrafe a Il gioco del comico e del serio. Saggio sul teatro di Musset, Napoli, ESI, 1990.
[7] G. Iotti, «Le metamorfosi di Triboulet», in Il senso del nonsenso. Scritti in memoria di Lynn Salkin Sbiroli, Napoli, ESI, 1995, pp. 295-312, p. 295.
[8] E. Auerbach, Mimesis, p. 238.
[9] G. Iotti, Il gioco del comico e del serio, p. 39.
[10] Id., Il comico e il patetico, Seminario del 25-26 giugno 2012.
[11] E. Auerbach, Mimesis, p. 254.
[12] G. Iotti, Il comico e il patetico, Seminario del 25-26 giugno 2012.
[13] In questo modo sarà anche possibile fare qualche considerazione sui vincoli imposti dalla transcodificazione che impone il passaggio d’un tema da un genere a un altro.
[14] Prosper Mérimée, Carmen, in: Lokis et autres contes, Paris, Julliard, 1964, pp. 179-248, p. 181.
[15] Ivi, pp. 181-182
[16] «Après avoir compté les cigares du paquet que j’avais mis entre ses mains, il en choisit un certain nombre et me rendit le reste, observant qu’il n’avait pas besoin d’en prendre davantage». Ivi, p. 202.
[17] Ivi, p. 181.
[18] «Bah ! mon garçon, crois-moi, tu en es quitte à bon compte. Tu as rencontré le diable, oui, le diable ; il n’est pas toujours noir et il ne t’a pas tordu le cou. Je suis habillée de laine, mais je ne suis pas mouton». Ivi, p. 216.
[19] Francesco Fiorentino, Introduzione a Carmen, a cura di S. Lorusso, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 9-29, p. 11.
[20] P. Mérimée, Carmen, p. 183.
[21] Ivi, p. 188.
[22] Ivi, p. 195.
[23] Ivi, pp. 182-183.
[24] vi, p. 184.
[25] C’è da notare che qui Mérimée fa riferimento anche al dibattito contemporaneo sulla revoca del diritto d’ospitalità, avvenuta a inizio secolo. Cfr. F. Fiorentino, Introduzione a Carmen, p. 13.
[26] P. Mérimée, Carmen, p. 189.
[27] Ivi, pp. 192-193.
[28] Ivi, p. 196.
[29] «Bon! me dis-je; la semaine passée, j’ai soupé avec un voleur de grands chemins, allons aujourd’hui prendre des glaces avec une servante du diable. En voyage il faut tout voir». Ibidem.
[30] F. Fiorentino, Introduzione a Carmen, p. 11. Qui, si sottolinea anche l’influenza su Mérimée di un antecedente letterario importante come quello di Chateaubriand (cfr. Itinéraire de Paris à Jérusalem, e Le Génie du Christianisme).
[31] Ivi, pp. 12-13.
[32] E’ l’idea che sta alla base anche della intelligente riflessione di Stefano Brugnolo sul tema del going native, ossia sulla metamorfosi che il soggetto subisce nell’universo dell’Altro: Andare oltre la linea: su alcuni motivi della letteratura tardo coloniale, in L’eroe e l’ostacolo: forme dell’avventura nella narrativa occidentale, a cura di Sergio Zatti, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 191-222.
[33] F. Fiorentino, I gendarmi e la macchia. L’esotismo nella narrativa di Mérimée, Padova, Liviana, 1978, p. 103.
[34] Francesco Orlando, L’Altro che è in noi. Arte e nazionalità, Torino, Bollati Boringhieri, 1996, p. 31.
[35] G. Iotti, Il gioco del comico e del serio, p. 66.
[36] F. Fiorentino, Introduzione a Carmen, p. 10.
[37] P. Mérimée, Carmen, p. 184.
[38] Ivi, p. 186.
[39] Sigmund Freud, Il perturbante, in Opere, Torino, Boringhieri, 1977, t. IX, pp. 109-110.
[40] P. Mérimée, Carmen, p. 197.
[41] Ivi, p. 185.
[42] Ivi, p. 188.
[43] Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, Torino, Einaudi, 1981, p. 43.
[44] P. Mérimée, Carmen, p. 187.
[45] Ivi, p. 193.
[46] Ivi, p. 188.
[47] Al secondo atto dell’opera di Mozart (Deh, vieni alla finestra).
[48] A. de Musset, Poésies complètes, p. 242.
[49] P. Mérimée, Carmen, p. 194.
[50] Ivi, p. 205.
[51] G. Iotti, Il comico e il patetico, Seminario del 25-26 giugno 2012.
[52] P. Mérimée, Carmen, p. 229.
[53] Ivi, p. 215.
[54] Ivi, p. 221.
[55] Ivi, pp. 229-230.
[56] Ivi, pp. 204-205.
[57] Ivi, p. 208.
[58] Ibidem.
[59] F. Fiorentino, Introduzione a Carmen, p. 17.
[60] P. Mérimée, Carmen, p. 215.
[61] Ivi, p. 204.
[62] Ibidem.
[63] Ivi, p. 209.
[64] «– Il faut que j’aille au quartier pour l’appel, lui dis-je.
– Au quartier? dit-elle d’un air de mépris; tu es donc un nègre, pour te laisser mener à la baguette? Tu es un vrai canari, d’habit et de caractère. Va, tu es un cœur de poulet». Ivi, p. 215.
[65] Ivi, p. 199.
[66] Ivi, p. 241. Il corsivo è mio.
[67] F. Fiorentino sintetizza in modo molto chiaro i problemi nella ricezione di questo ultimo capitoletto: «La terza parte della novella viene messa a carico di una voce narrativa extradiegetica, dell’autore stesso. In effetti potrebbe anche essere considerata scritta dall’archeologo. In ogni caso, per lo più non è stata apprezzata dai critici: Ch. du Bos, in Notes sur Mérimée, Paris, 1920, pp. 58-64, l’ha interpretata come una presa di distanza ironica da parte dell’autore sia verso la passione del lettore per la storia, sia verso la possibilità di scrivere seriamente. Ancora J. Freustié, in Prosper Mérimée (1803-1870): le nerveux hautain, Paris, 1982, p. 126, nega la sua importanza per la comprensione dell’opera. La sottovalutazione di questa parte saggistica mi sembra anche dettata da una insofferenza tipica del gusto francese novecentesco per la commistione tra letterario e saggistico». Introduzione a Carmen, p. 28, nota 1.
[68] Cfr. G. Paduano, Libertà, dominio e destino, in Carmen, «Melusina», Pisa, ETS, 2004, pp. 7-34, p. 16.
[69] Cito il libretto dall’appendice a G. Paduano (a cura di), Carmen, p. 167.
[70] Vincenzo Raffaele Segreto, La storia di un capolavoro non compreso, in Programma di sala del Teatro Regio di Parma – stagione lirica 1983-1984, pp. 3-20, p. 11.
[71] Ibidem.
[72] Ibidem.
[73] Ibidem.
[74] G. Paduano (a cura di), Carmen, pp. 165-166.
[75] «L’oiseau s’envole…». Ivi, p. 162.
[76] Ivi, pp. 185-186.
[77] Ivi, p.173.
[78] Ivi, p. 170.
[79] Ivi, p. 172.
[80] Ivi, p. 174.
[81] F. Orlando, «Se fuggi inseguo, se insegui fuggo», in Donne in rivolta. Tra arte e memoria, a cura di S. Sebastiani, Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 187-205, p. 194.
[82] G. Paduano (a cura di), Carmen, pp. 161-162.
[83] Per le mie considerazioni, faccio riferimento alla versione della Carmen diretta da Claudio Abbado, eseguita dalla London Symphony Orchestra, e incisa nel 1978 per Deutsche Grammophon. Le lunghe vicessitudini filologiche dell’opera sono note: alcuni brevi episodi che compaiono nel libretto in appendice all’edizione di Paduano (come qui la scena del biglietto amoroso), sono state – giustamente, io trovo – tagliate da Abbado.
[84] G. Paduano (a cura di), Carmen, p. 163.
[85] F. Orlando, «Se fuggi inseguo, se insegui fuggo», p. 199.
[86] G. Paduano (a cura di), Carmen, p. 165.
[87] Ibidem.
[88] F. Orlando, «Se fuggi inseguo, se insegui fuggo», p. 187.
[89] Ivi, p. 205.
[90] G. Paduano (a cura di), Carmen, p. 33.
[91] Ivi, pp. 193-195.
[92] Ivi, p. 198.
[93] Ibidem.
[94] Ibidem.
[95] Ivi, p. 204.
[96] F. Orlando, «Se fuggi inseguo, se insegui fuggo», p. 190.
[97] G. Iotti, «Le metamorfosi di Triboulet», p. 299.
[98] A. de Musset, La Confession d’un enfant du siècle, Garnier, 1968, p. 8.