Archivio mensile: giugno 2019

ALESSANDRA GINZBURG – A CIASCUNO LA SUA CHIMERA?

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[Alessandra Ginzburg è psicoanalista didatta della Società Psicoanalitica Italiana e membro della International Psychoanalytic Association. Ha studiato letteratura francese con Francesco Orlando e Arnaldo Pizzorusso e si è impegnata nello studio e nella diffusione dell’opera dello psicoanalista cileno Ignacio Matte Blanco. Il contributo che riportiamo di seguito è stato pubblicato nel 2017 in un volume intitolato Il rosso e l’oro, cinque lezioni a cura di Luca Pietromarchi e Agnese Silvestri, Biblink editori, Roma.]

 

balzac

Ho volutamente ripreso in forma dubitativa il titolo del poema in prosa di Baudelaire, a cui si richiama Mariolina Bertini nella sua prefazione all’Histoire des treize per osservare che «potrebbe essere egualmente un titolo appropriato per La fille aux yeux d’or, in cui non c’è personaggio che non persegua un sogno assoluto e distruttivo»[1]. Si può aggiungere a questa considerazione che la chimera può essere intesa nel senso originario dell’animale mitico, unione di animali inconciliabili, ma anche come metafora di un sogno impossibile, quello della conquista dell’infinito. È infatti la parola infinito, carica come vedremo per Balzac di molteplici significati, a ricorrere di continuo nella Comédie, in particolare nella descrizione dei sentimenti, a sottolinearne di volta in volta l’intensità, la profondità o l’ampiezza sconfinata. Intuitivamente Balzac identifica nelle emozioni l’aspetto della esperienza cosciente che (per usare il linguaggio dello psicoanalista cileno Matte Blanco[2]) è più intriso di quella particolare logica dell’inconscio – la cosiddetta logica simmetrica – che traduce l’intensità del sentire attraverso l’infinitizzazione delle situazioni o persone che ne vengono investite. Secondo questa ipotesi, il pensiero umano, confrontato con la densità dell’indicibile, mette in opera una moltiplicazione degli attributi che la mente equipara all’idea dell’illimitato.

Questa istanza si esprime in primo luogo nella ricerca dell’assoluto, tema costante in Balzac. È un tema che dà voce all’urgenza di ogni passione estrema. Conoscitiva o amorosa, la passione estrema per Balzac si rivela votata inesorabilmente alla follia o alla morte (basti pensare, oltre a La Recherche de l’absolu, a Louis Lambert, o a Le chef d’œuvre inconnu[3]) a meno che non riesca ad oltrepassare le pulsioni più legate alla dimensione corporea come accade in Séraphita[4].

Nella Fille aux yeux d’or, invece, ed è questo lo spunto su cui intendo concentrare qui la mia attenzione, è, inaspettatamente, il corpo femminile a diventare, in modo non dissimile da quanto più tardi proporrà Proust, una possibile via di accesso all’infinito. Tuttavia, mentre per il Narratore della Recherche la dimensione corporea rappresenta l’irraggiungibilità della persona amata, per il protagonista balzachiano costituisce il tramite potenziale di una scoperta che almeno per qualche istante sembra in grado di fargli trascendere i limiti tragicamente narcisistici della propria esperienza. Seguire da vicino il percorso tracciato in questa direzione da Balzac mi porterà in un primo tempo a mettere maggiormente in evidenza fra i due protagonisti proprio quello maschile, de Marsay, per sottolinearne le caratteristiche specifiche che nel disegno generale della Comédie risultano spesso generiche. Intendo concentrarmi successivamente sul possibile significato dell’ identificazione inedita fra corpo e infinito, che ha portato Catherine Perry a parlare di “quête paradoxale”[5]. I paradossi impliciti nel concetto di infinito nell’opera complessiva di Balzac costituiranno l’ultima parte della mia riflessione.

De Marsay, com’è noto, viene nominato spesso nell’opera complessiva di Balzac, in genere però di sfuggita, quasi a conferirgli più le sembianze di un prototipo che a farne un personaggio specifico. Di lui si conosce il proverbiale cinismo e il misterioso potere che incarna ma a cui è però assoggettato, come illustra diffusamente l’Histoire des treize. Nel Contrat de Mariage[6] del 1835 de Marsay apparentemente mette in guardia l’amico Paul de Manerville dai rischi del matrimonio , salvo ad annunciargli alla fine il proprio, basato sul più bieco interesse economico[7]. Ma è soprattutto in Autre étude de femme[8] scritta fra il 1839 e il 1842 che ci viene narrata – retrospettivamente rispetto alla Fille aux yeux d’or – la causa del suo disprezzo generalizzato per il mondo femminile: a 17 anni, innamorato di una giovane vedova di 22 anni, ha creduto di potersi lasciare andare all’adorazione della donna amata finché non ha scoperto di essere tradito, e da allora ha rinunciato all’amore per dedicarsi unicamente alla vita politica. La portata della sua disillusione fa pensare però ad una ferita dell’orgoglio più che a un trauma emotivo. In ogni caso l’incapacità di affidarsi ai sentimenti che ne consegue si traduce in una coazione ­a cercare avventure puramente sessuali, si direbbe per sostituire con l’eccitazione erotica le emozioni più vere di cui si è privato. Molto diversa è la rappresentazione di Felix de Vandenesse nel Lys dans la vallée[9]: cresciuto anch’egli in solitudine, poco amato, ha potuto salvare la sua capacità di sentire grazie alla contemplazione estatica della natura e dei i suoi fenomeni, a somiglianza di quanto avviene al protagonista de L’Enfant maudit, dove la figura materna assente è sostituita dal mare.

L’introduzione della Fille aux yeux d’or, imperniata com’è sul binomio piacere-denaro ben si presta a presentare con toni sulfurei e convulsi la quintessenza del vuoto, del cinismo e della noia che si incarna nella classe sociale superiore a tutte le altre, quella dei ricchi di cui de Marsay fa parte , individui cioè che dopo aver abusato dei propri sensi, sono divenuti simili agli oppiomani, costretti ad aumentare quotidianamente la dose di piacere fino a ridursi alla necessità di stimoli estremi, se non all’impotenza. Commenta Balzac:

N’y cherchez pas plus d’affections que d’idées. Les embrassades couvrent une profonde indifférence, et la politesse un mépris continuel (p. 1051).

  1. De Marsay, personificazione della cecità narcisistica

Nell’osservazione di Balzac si intravede già il ritratto del giovane de Marsay, introdotto di lì a breve come esemplare di una bellezza degna di Raffaello in grado di incantare le donne a prescindere dalle sue qualità umane. Sorta di Dorian Gray ante litteram, la cui vita dissoluta è nascosta dietro una facciata angelica, de Marsay viene da subito presentato come un Adone senza innocenza: figlio illegittimo di un lord inglese, è cresciuto in un grande deserto affettivo. La madre, che lo abbandona dopo la nascita, viene sposata al vecchio gentiluomo che gli darà il nome, descritto come «Ce papillon déteint et presque éteint» (p. 1054) che a sua volta lo lascerà alle cure di una vecchia sorella, l’unica a poter essere considerata una sorta di flebile surrogato della figura materna. Educato da un ecclesiastico assolutamente privo di principi morali, de Marsay a sedici anni è «pouvait jouer sous jambe un homme de quarante» (p. 1056). Cuore di bronzo e cervello da alcolizzato sotto le apparenze seducenti, il giovane Henri viene dal precettore stornato rapidamente dal suo labile affetto per la zia, abituato a vivere fra le cortigiane ed addestrato precocemente ai trucchi e agli intrighi dei salotti e della politica che in seguito diventeranno, insieme al potere, la sua unica ragione di vita.

La caratterizzazione di de Marsay, rappresentato all’inizio come un felino indolente e consapevole della propria forza ma con un volto dai tratti femminei che suggerisce una possibile ambiguità sessuale, sposta subito la scena dall’inferno dantesco della descrizione di Parigi all’universo animale: una vera e propria giungla dove sono i corpi delle donne a costituire la selvaggina, in una profusione di metafore e di analogie che richiamano più volte i colori accesi delle tigri e i loro ruggiti.

Il racconto, ambientato nel 1815, è incorniciato da una serie di dialoghi tra de Marsay e Paul de Manerville, lo sconsiderato protagonista del Contrat. Quest’ultimo, dopo una lunga digressione sulla diversa tipologia dei giovani alla moda, viene introdotto come un perfetto rappresentante del desiderio mimetico girardiano[10]:

Il vivait dans le reflet de son ami, se mettait constamment sous son parapluie, en chaussait les bottes, se dorait de ses rayons» (p. 1062).

Proprio l’aspetto subalterno del suo interlocutore lo rende per De Marsay inoffensivo, e gli permette di procedere alla descrizione diffusa della sua preda senza temere rivalità alcuna: una donna fulva, di fuoco, dagli occhi di tigre, paragonata all’oro, quell’oro intorno a cui ruota convulsamente la città di Parigi. In realtà, quello che Balzac subito ci mostra fra le pieghe del testo è l’accecamento narcisistico di de Marsay, che gli fa ignorare, nelle reazioni della ragazza, il significato dei primi segnali che denotano uno stupore profondo. Non si tratta soltanto, come crede Henri, del consueto fascino magnetico che egli sa di esercitare sulle donne, ma della prima traccia di un mistero che si dipanerà incompreso da lui quasi fino alla sua tragica conclusione.

Accecato come Edipo dalle proprie false certezze, de Marsay non raccoglie neanche un altro indizio significativo, la presenza, evocata da de Manerville, di una bellissima donna che accompagna la misteriosa ragazza, e i cui tratti somatici e psicologici sono del tutto opposti:

Elle vous a des yeux noirs qui n’ont jamais pleuré, mais qui brûlent; des sourcils noirs qui se rejoignent et lui donnent un air de duvet démentie par le rose de ses lèvres… Une taille cambrée, la taille élancée d’une corvette construite pour faire la course, et qui se rue sur le vaisseau marchand avec une impétuosité française, le mord et le coule bas en deux temps (p. 1064).

Una donna di cui si preannuncia quindi l’inaudita violenza e che, stranamente, somiglia proprio ad Henri. Con un procedimento che ricorda l’ironia tragica individuata da Paduano nelle tragedie di Sofocle[11], Balzac, nel corso del racconto, continua a disseminare indizi che potrebbero portare de Marsay a porsi delle domande, se la concentrazione su se stesso non avesse la meglio su qualunque altro elemento di realtà. Il suo stesso ardente desiderio iniziale non riguarda la specifica persona della fille, ma la categoria del femminile a cui è sentita appartenere («C’est toute la femme, un abîme de plaisirs où l’on roule sans en trouver la fin», p. 1064) ed è attivato in particolare dal mistero che la circonda, in grado di suscitare una curiosità che stuzzica i sensi di Henri, assopiti perché assuefatti al piacere. L’immagine della Donna che accarezza una chimera – «La plus chaude, la plus infernale inspiration du génie antique» (p. 1065) – da lui evocata per spiegare il fascino della fille, si trasforma immediatamente in una fantasia erotica che fa di lui ambiguamente la chimera, «le monstre de la fresque» (p. 1065), ignaro del fatto che un’altra pericolosa chimera è in agguato a reclamare il possesso della donna desiderata.

Anche la seconda volta in cui si sono visti, narra de Marsay, la sconosciuta «s’est retournée, elle m’a vu, m’a de nouveau adoré» (p. 1065); anzi, nonostante la presenza di una governante sospettosa, gli ha gettato un fazzoletto. Per lui i conti tornano, soprattutto quando scopre, grazie alle informazioni del suo cameriere, che la fanciulla, Paquita Valdés, vive nel palazzo inespugnabile di un grande di Spagna, il marchese di San-Réal: «Un vieux cadavre espagnol de quatre-vingts ans est seul capable de prendre des précautions semblables» (p. 1069), commenta de Marsay. Un terzo è pur sempre un ostacolo che si frappone fra lui e la ragazza,aumentandone esplicitamente il valore, visto che la sazietà ha indebolito in lui le passioni mentre il desiderio mimetico è sempre attivato dalla presenza di quello altrui:

Il s’agissait de livrer bataille à quelque ennemi secret, qui paraissait aussi dangereux qu’habile; et pour remporter la victoire, toutes les forces dont Henri pouvait disposer n’étaient pas inutiles (pp. 1070-1).

Questa sfida non gli impedisce, da vero dandy, di dedicare due ore e mezzo alle cure del corpo, in base alla lezione di fatuità che impartisce al suo imitatore de Manerville: sono gli uomini vanesi i soli ad essere amati, in quanto hanno cura di sé. Qui il suo narcisismo estremo che nega ogni valore all’altro («Et qu’est-ce que la femme? Une petite chose, un ensemble de niaiseries», p. 1072) si declina esplicitamente, diventa una teoria quanto mai cinica: le donne amano i vanesi.

Sais-tu pourquoi les femmes aiment les fats? Mon ami, les fats sont les seules hommes qui aient soin d’eux-mêmes. Or avoir trop soin de soi, n’est-ce pas dire qu’on soigne en soi-même le bien d’autrui? (pp. 1071-2).

Un ulteriore incontro all’aperto con la ragazza riattiva in De Marsay come una scossa elettrica, le antiche emozioni della sua giovinezza, ma un altro indizio gli passa inosservato, cioè che la ragazza osserva con attenzione i suoi piedi e la sua figura. Allo stesso modo lo guarda «avec une attention magnétique» (p. 1077) il fedele balio mulatto che fa da intermediario fra lui e Paquita, così come l’orribile madre di lei seduta sul divano rosso nell’appartamento malfamato dove avviene il primo contatto ravvicinato fra i due, lo contempla « avec une inexprimable curiosité» (p. 1083). Solo la gelosia che si è attivata quando Henri sente Paquita «occupée de quelque chose qui n’était pas lui, Peut-être avait-elle dans le cœur un autre amour qu’elle oubliait et se rappelait tour à tour» (p. 1082) gli suscita progressivamente un dubbio e una rabbia feroce che si traduce in una prima minaccia di morte. Ma neppure quando Paquita mormora: «C’est la même voix… et la même ardeur» (p. 1083), de Marsay è in grado di decifrare l’enigma, così come, stranamente, non lo mette nella giusta direzione la richiesta che la fanciulla gli fa di vestirsi da donna, anche se a questo punto il dandy comincia a intuire la presenza di un rivale «l’être inconnu qui planait comme une ombre au-dessus d’eux» (p. 1089). Soltanto dopo molte ore dal primo possesso della ragazza, trascorse senza emozioni e senza pensieri, Henri, di cui Balzac osserva che «sa perspicacité n’était pas spontanée» (p. 1096), ha l’illuminazione che fa di lui una tigre: in realtà ha posato per qualcun altro. È Paquita stessa, nell’estasi amorosa, a pronunciare il nome rivelatore che trasforma la passione in odio feroce: Mariquita. La rivale si chiama in realtà Marguerite, mentre Mariquita, propone nel suo saggio la Perry, rimanda ambiguamente all’evocazione della sodomia passiva[12].

Pur se Balzac non lo esplicita, la rivalità nei confronti di una donna appare intollerabile ad Henri come lo sarà al Narratore proustiano. Ma, a differenza di Marcel, de Marsay, invece di attivare la passione attraverso la gelosia, immediatamente la trasforma in odio perché lo fa sentire in una condizione intollerabile di impotenza che può essere cancellata unicamente dalla vendetta. Non sembra infatti un caso se Henri fin da giovanissimo risulta entrato in rapporto con Ronquerolles, membro dell’organizzazione segreta dei Treize, simbolo di onnipotenza e riparo sicuro dalle sofferenze e dalle umiliazioni che la sua condizione infantile di sostanziale abbandono avrebbe altrimenti comportato. Significativo del binomio inscindibile che lega l’onnipotenza al suo contrario è del resto il dichiarato fallimento di tutte e tre le imprese dell’organizzazione criminale narrate nella Histoire des treize, in cui eventi inattesi o addirittura banali contrattempi ostacolano l’azione, in genere vittoriosa, dei suoi temibili membri[13].

È infatti apparentemente il caso a far dilazionare ad Henri l’attuazione del progetto di vendetta e quindi a farlo arrivare troppo tardi nel boudoir dove Paquita giace morta. Un ritardo che tradisce però l’indifferenza subitanea che è seguita alla consapevolezza del tradimento:

Henri ne savait pas pardonner. Le savoir-revenir, qui certes est une des grâces de l’âme. Était un non-sens pour lui… Il était inébranlable dans ses bons comme dans ses mauvais sentiments. L’exclamation de Paquita fût d’autant plus horrible pour lui qu’il avait été détrôné du plus doux triomphe qui eût jamais agrandi sa vanité d’homme (p. 1104).

Dunque, ancora una volta proprio come nell’adolescenza, è la vanità offesa ad essere l’emozione dominante su tutte le altre, ed è sempre il narcisismo a spiegare ­­­la reazione imprevista che coglie Henri di fronte alla sorella quando la intravede, in preda alla furia come una belva avida di sangue, massacrare Paquita. Ogni rivalità si dilegua davanti al proprio doppio, anzi è stata più volte sottolineata una immediata attrazione erotica nei suoi confronti. In questo caso, a differenza di tanti altri esempi letterari citati da Massimo Fusillo non si tratta di un doppio persecutorio quanto di un doppio gemellare, vero trionfo della fantasia di Narciso[14]. «Elle était aussi peu coupable qu’il est possible» (p. 1108) commenta straziata la marchesa, mentre risuona invariabilmente cinica la frase di de Marsay: «Elle était fidèle au sang» (p. 1108).

  1. Il corpo di Paquita e l’infinito

Sappiamo tuttavia, dallo svolgimento del racconto, che Paquita ha saputo fin dal primo incontro evocare in Henri l’immagine di un infinito assimilato ad «un abîme de plaisirs où l’on roule sans en trouver la fin» (p. 1065). In lui, così alieno ai sentimenti d’amore, l’attrazione per Paquita nasce in un primo momento parte dalla gratificazione narcisistica suscitata dall’evidente ammirazione della fanciulla, un’ammirazione che de Marsay immagina formulata in questi termini: «Te voilà, mon idéal, l’être des mes pensées, de mes rêves du soir et du matin» (p. 1064). Successivamente il giovane dandy viene affascinato dagli occhi gialli da tigre, dall’andatura indolente di Paquita, dall’associazione con il dipinto (peraltro immaginario) della Donna che accarezza una chimera. Immediato è anche il collegamento con «une fille qui réalisait si bien les idées les plus lumineuses exprimées sur les femmes par la poésie orientale» (p. 1066): un Oriente di cui è stata sottolineata la vasta eco simbolica più volte accennata nella Comédie e che ritorna qui come immagine di voluttà estrema, di soggezione femminile e di dedizione totale[15]. Eppure neanche questi elementi sarebbero stati sufficienti a mobilitare in de Marsay un interesse duraturo senza la presenza degli ostacoli che lo sollecitano e senza il primo contatto fisico con la mano di Paquita da cui si sprigiona quasi una scossa elettrica: «en un instant toutes ses émotions de jeunesse lui sourdirent au cœur» (p. 1073). L’emozione tangibile della ragazza si è dunque irradiata ad Henri, scongelandone il cuore. Secondo l’ipotesi di Matte Blanco è proprio la capacità di irradiarsi una delle caratteristiche del funzionamento dell’emozione, insieme all’ingrandimento e alla generalizzazione delle proprietà attribuite all’altro da sé. Si spiega così anche la visione di Paquita come categoria rappresentativa del femminile, se si presuppone che l’emozione, proprio come l’inconscio, non conosca individui ma soltanto classi tanto ampie quanto potenzialmente indefinite. Mentre il vero amore, sostiene a più riprese Balzac nella Comédie, è quello in grado di incarnare in una sola donna tutte quelle possibili, la coazione a ripetere nasce là dove si instaura una ricerca inappagabile messa in evidenza dalla serialità[16].

Il disgelo dei sentimenti in De Marsay è la prima scossa tellurica che ci viene indicata quale movimento imprevisto della sua strutturazione interna apparentemente anaffettiva, ma certo non sarebbe in grado di produrre effetti tangibili senza una serie successiva di avvenimenti. Il primo in ordine di tempo è l’incontro di de Marsay e Paquita nella abitazione malfamata, piena di desolazione e di oggetti desueti di orlandiana memoria[17], della madre di Paquita, la vecchia orribile col turbante, rappresentata qui come un presagio di sciagura:

Cette femme décrépite figurait l’horrible queue de poisson par laquelle les symboliques génies de la Grèce ont terminé les Chimères et les Sirènes, si séduisantes, si décevantes par le corsage, comme le sont toutes les passions au début (p. 1080).

Se la vecchia, un tempo bellissima, è assimilata ad una creatura con caratteristiche mostruose e che porta alla morte, per proprietà transitiva l’elemento potenzialmente pericoloso ricade sulla figlia, ma di nuovo l’infinita adorazione di Paquita ha la meglio sull’orrore dell’ambiente e sulle paure superstiziose di Henri. Questi

reconnaissait dans Paquita la plus riche organisation que la nature se fût complu à composer. Le jeu présumé de cette machine, l’âme mise à part, eût effrayé tout autre homme que de Marsay (p. 1082).

Colpisce ovviamente il termine macchina che fa di Paquita unicamente un corpo separato dall’anima. Si evidenzia qui la differenza, segnalata da Matte Blanco e si direbbe presente anche in Balzac, che intercorre fra un corpo limitato dalla propria tridimensionalità e un’anima in grado di concepire la multidimensionalità dell’esperienza emotiva, e tuttavia proprio questa concezione limitativa di de Marsay pare concentrare su Paquita una potenzialità che attraverso il piacere è in grado di oltrepassare tutti i limiti imposti dalla natura. L’attrazione per la chimera attribuita ad Henri sembra contenere anche quella di Balzac, spesso sottintesa nella sua idea mitica dell’androgino in grado di rispondere a tutti i desideri possibili:

Il fut affolé par l’infini rendu palpable et transporté dans les plus excessives jouissances dela créature (p. 1082).

Il godimento eccessivo pare in questo caso sinonimo di incommensurabile, ed è sufficiente un bacio fra i due a confermare la promessa di una voluttà infinita, in cui si esprimono con effetto inebriante «Un accouplement de l’horrible et du céleste, du paradis et de l’enfer» (p. 1084). Sono sensazioni che si riflettono anche nei sogni di Henri, dove immagini mostruose si alternano a bizzarie piene di luce e che corrispondono alla percezione oscura che si affaccia in de Marsay a partire dal momento in cui Paquita gli chiede di vestirsi da donna. In questo gioco estremo di contrasti risiede il potere che esercita su di lui la fanciulla, vergine ma non innocente e che di nuovo nell’opposizione dei contrari evoca l’immagine della chimera:

L’union si bizarre du mystérieux et du réel, de l’ombre et de la lumière, de l’horrible et du beau, du plaisir et du danger (p. 1091).

In realtà mentre per Paquita la relazione sessuale con de Marsay costituisce una rivelazione sconvolgente dell’universo maschile che fin qui le è sempre stato celato, Henri non ama veramente, e la sua sazietà comporta distanza, smemoratezza, disprezzo fino ad un ritorno alle vecchie abitudini, almeno finché la chiave del mistero non gli si affaccia improvvisa alla mente. Non è il vizio altrui a turbarlo, ma il fatto di essere trattato come un strumento, un’esperienza inedita che lo rende oggetto invece che soggetto e lo colloca nella categoria più screditata fra tutte le categorie del triangolo mimetico, quella dell’intermediario.

Eppure, nonostante la diffidenza crescente che lo porta a giudicarla, Paquita ancora una volta mette l’aspetto faustiano presente in Henri in contatto con la passione,

cette passion que sentent tous les hommes vraiment grands pour l’infini, passion mystérieuse si dramatiquement exprimée dans Faust, si poétiquement traduite dans Manfred, et qui poussait Don Juan a fouiller le cœur des femmes, en espérant y trouver cette pensée sans bornes a la recherche de laquelle se mettent tant de chasseurs de spectres, que les savants croient entrevoir dans la science, et que les mystiques trouvent en dieu seul (p. 1101).

Una considerazione analoga si trova anche ne La Peau de chagrin: « la débauche est sans doute au corps ce que sont à l’âme les plaisirs mystiques»[18].

Nella misura in cui Paquita incarna, nella descrizione di Balzac, un intero harem, per de Marsay rappresenta una possibilità illimitata di contatto con il mondo femminile nella sua globalità, ivi inclusa la madre di cui non ha mai potuto sperimentare la tenerezza. È in questa esperienza di abbandono che Henri perde finalmente tutto il suo controllo e diventa «tendre, bon et communicatif» (p. 1101). È un momento cruciale, che sembra sancire una svolta nella sua personalità di un tempo richiamata alla vita , se l’appellativo involontario di Paquita non lo pugnalasse al cuore, umiliandolo nel profondo. Da quel momento la ragazza dagli occhi d’oro è morta per lui ancora prima di essere uccisa. Non c’ è perdono, lo sappiamo ormai, quando per de Marsay entra in gioco la ferita narcisistica. C’è più amore inconsolabile nella terribile Mariquita a cui non resta che affidarsi a Dio, di quanto trovi posto nella mente del fratello il ricordo di quella chimera che pure aveva rappresentato per ambedue l’infinito.

  1. Balzac e l’infinito

La Delattre nel bel saggio dove esamina congiuntamente Séraphita e La Fille aux yeux d’or, afferma che la ricerca dell’ infinito nel finito da parte di de Marsay e di Margarita è solo un’illusione, e non una parte cospicua dell’umana ricerca che Balzac non ha mai abbandonato[19]. In realtà, al termine di questo percorso viene da chiedersi se sia possibile ricavare un’idea unitaria di infinito dall’insieme della Comédie. Se togliamo di mezzo la moltitudine di aggettivi e pronomi che ne derivano, il concetto appare multiforme e a volte persino ondivago. Ma proprio perché lo declina in modo in apparenza contraddittorio, Balzac propone alcuni dei paradossi dell’infinito che hanno reso questo concetto così difficile da maneggiare fino alle scoperte del matematico Cantor[20]. Se infatti si utilizza unicamente la logica aristotelica basata sul principio di non contraddizione, diventa impossibile accettare il presupposto rivoluzionario indicato da Cantor secondo cui un insieme è infinito solo quando può essere messo in relazione termine a termine (come le dita delle mani) con il suo sottoinsieme, ossia quando la parte è trattata come identica al tutto. È stato Matte Blanco ad applicare questo assunto al funzionamento dell’inconscio e dell’emozione, considerandoli appunto degli insiemi infiniti[21]. Da questo punto di vista si potrebbe sostenere che in una dimensione non estranea alla rappresentazione balzachiana del rapporto fra corpo e mente, il corpo – nella realtà contenitore della mente – venga da questa ad essere considerato una parte propria che ne assume transitoriamente le qualità multidimensionali. Sostiene in proposito Balzac in Splendeurs et Misères des courtisanes: «Le corps touche à l’infini par le système nerveux, comme l’esprit y pénètre par la pensée»[22].

Tuttavia è la concezione stessa del pensiero in Balzac a portare con sé elementi che risultano in contraddizione soltanto nella logica della coscienza. Ne Les martyres ignorés[23] il pensiero viene presentato come un agente della distruzione, un vero e proprio angelo sterminatore ma che in realtà si confonde con l’infinito delle emozioni:

La pensée est plus puissante que ne l’est le corps, elle le mange, l’absorbe et le détruit; la pensée est le plus violent de tous agents de destruction, elle est le veritable ange exterminateur de l’humanité, qu’elle tue et qu’elle vivifie, car elle vivifie et tue.

Poco oltre, infatti, la nozione di pensiero si amplifica a dismisura fino a contenere le emozioni tutte: «les passions, les vices, les occupations extrêmes, les douleurs, les plaisirs sont des torrents de pensées»[24]. Si direbbe quasi che Balzac intuisca qui la peculiarità che possiedono i pensieri peculiari delle emozioni, la cui violenza sospinge all’azione ed amplifica a dismisura la realtà, invece di individuarne i limiti e i confini grazie all’azione regolatrice del pensiero comunemente inteso.

Per Balzac, che si riferisce alla scienza appellandosi fra gli altri a Swedeenborg, a Saint-Martin e alla natura, l’uomo ha una propensione innata per l’infinito che esplora nei sentimenti più accesi. Del funzionamento infinitizzante dei sentimenti egli propone, come si è detto, una visione molto efficace: sono i sentimenti ad essere infiniti, là dove gli organi sono limitati, spiega in Un épisode sous la terreur[25]. Eppure anche i sensi possiedono qualche attributo dell’infinito secondo il magnetismo che contraddice l’idea di incompatibilità di Spinoza: il finito e l’infinito si trovano in essi l’uno dentro l’altro, viene proposto in Ursule Mirouet[26].

A volte è l’ignoto (quell’inconnu spesso nominato in modo ambivalente anche da Proust) a rappresentare un infinito oscuro quanto attraente , ma che diventa doloroso, quando l’infelicità è indefinita , come è sottolineato in Modeste Mignon[27]. Altre volte Balzac si chiede se proprio l’assoluto non sia un modo di essere dell’infinito come ad esempio, esplicitamente, in Pierrette[28].

L’infinito è visto come ambito del cuore, contrapposto alla sensualità in Le Lys dans la vallée. Eppure il mondo degli affetti pur essendo immenso non è comunque infinito rispetto alle pulsioni conoscitive estreme rappresentate ne La recherche de l’absolu. Vi è in ogni caso uno sforzo dell’uomo di cogliere una dimensione che gli sfugge continuamente e che appartiene soltanto alla divinità perché non vi possono essere più infiniti.

Il fatto è che l’uomo concepisce questa dimensione con la propria intelligenza ma non è però in grado di maneggiarla per intero, tanto più che Tempo e Spazio non esistono più nell’infinito, proprio come accade secondo Matte Blanco nell’inconscio e nell’emozione.

Se la dicotomia fra Materia e Spirito – identificati con finito ed infinito – in Séraphita potrebbe far concepire erroneamente un mondo puramente spirituale, nel mito balzachiano dell’androgino, le due nature inconciliabili dell’essere umano si dovrebbero fondere armoniosamente. Ma se questa meta tanto desiderata è irraggiungibile, forse allora l’infinito delle emozioni diventa l’unica vera chimera che la mente può cercare di raggiungere e che può realizzarsi come appannaggio specifico della creazione artistica e del sogno. La formulazione di Balzac, che mette insieme l’atemporalità dell’inconscio e la rappresentazione onirica ci arriva dalla prima prefazione alla Peau de chagrin[29]:

Les hommes ont-ils le pouvoir de faire venir l’univers dans leur cerveau, ou leur cerveau est-il un talisman avec lequel ils abolissent les lois du temps et de l’espace? La science hésitera longtemps à choisir entre ces deux mystères également inexplicables. Toujours est-il constant que l’inspiration déroule au poète des transfigurations sans nombre et semblables aux magiques fantasmagories de nos rêves.

 

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Note.

[1] Cfr. Mariolina Bongiovanni Bertini, Introduzione alla storia dei tredici, Mondadori, Milano 1994, vol. I, p. 1170. Balzac, La Fille aux yeux d’or, a cura di R. Fortassier, in La Comédie humaine, edizione diretta da P. Castex, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 1977, V, pp. 987-9. Nelle successive citazioni de La fille la paginazione fra parentesi rinvia a questa edizione.
[2] I. Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, Einaudi, Torino 2000.
[3] Rispettivamente ne la Comédie humaine, cit.: La Recherche de l’absolu, X; Louis Lambert, XI ; Le Chef-d’œuvre inconnu, X.
[4] Balzac, Séraphita, in La Comédie humaine, cit., XI.
[5] C. Perry, “La fille aux yeux d’or” et la quête paradoxale de l’infini, in «L’Année Balzacienne», 1993.
[6] Balzac, Le contrat de mariage in La Comédie humaine, cit., III.
[7] P. Citron sottolinea  il parallelismo fra la vita immaginaria di De Manerville e quella reale del fratello di Balzac, Henry, cfr. Dans Balzac, Seuil, Paris 1986, pp. 189-191.
[8] Balzac, Autre étude de femme, in La Comédie humaine, cit., III.
[9] Balzac, Le Lys dans la vallée, cit., IX.
[10] Cfr. R. Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Grasset, Parigi 1961.
[11] G. Paduano, Lunga storia di Edipo re, Einaudi, Torino 1994.
[12] C. Perry, La  quête, cit., p. 272.
[13] A. Silvestri mette giustamente l’accento sul versante autocratico di questo binomio, in Quand le “rêve asiatique” de l’amour rencontre le rêve autocratique. Le creuset de La fille aux yeux d’or, in «Romantisme» 172 (2/2016), pp. 106-117.
[14] Cfr. M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, la Nuova Italia, Firenze 1998.
[15] Sul tema cfr. P. Citron, Le rêve  asiatique de Balzac, L’année balzacienne 1968 e A. Perry, La quête,  cit., i quali riguardo all’oriente e ai suoi piaceri sottolineano entrambi le allusioni a rapporti omosessuali.
[16] Cfr. S. Freud, Contributi alla psicologia della vita amorosa (1910-17) in Opere, Boringhieri, Torino, VI, dove si parla di una serialità nella scelta dell’oggetto d’amore indotta dalla ripetizione inconscia della relazione edipica con la figura materna.
[17] È d’obbligo qui il riferimento a F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della Letteratura, Einaudi, Torino 1993.
[18] Balzac, La Peau du chagrin, in La Comédie humaine, cit., X, p. 197.
[19] G. Delattre, De Séraphita à La Fille aux Yeux d’or, in «L’Année Balzacienne» 1970, p. 225.
[20] Citato da Matte Blanco ne L’Inconscio come insiemi infiniti, cit.
[21] Ivi.
[22] Balzac, Splendeur et misèrese des courtisanes, in La Comédie humaine, cit., VI, p. 849.
[23] Balzac, Les martyrs ignorés, in La Comédie humaine, cit., XII, p. 744.
[24] Ibidem.
[25] Balzac, Un épisode sous la Terreur, in La Comèdie humaine, cit., VIII, p. 437.
[26] Balzac, Ursule Mirouet in La Comédie humaine, cit., III, p. 437.
[27] Balzac, Modeste Mignon, in Comédie humaine, cit., I, p. 540.
[28] Balzac, Pierrette, in La Comédie humaine, cit., IV, p. 108.
[29] Balzac, Avant-propos a La Peau de Chagrin in La Comédie humaine, cit., X, p. 53.