MARCO GRONDONA – TUTTI PAZZI PER MARX! UNA SERA CON FRANCESCO ORLANDO (2)
[Marco Grondona ha insegnato Storia della Musica all’Università di Pisa. Ha pubblicato, tra gli altri, saggi e contributi su Rossini, Puccini, Menotti e lo stile tardo in musica: ricordiamo per tutti il recentissimo Cattiva musica e paradisi perduti (ETS 2018). La formazione di Marco Grondona, ex allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa, coniuga filologia classica e studi musicali. Allievo di Antonio La Penna e di Francesco Orlando, per entrambi avverte un debito di grande riconoscenza. La prima parte del presente contributo, di prossima pubblicazione presso l’editrice Barta di Pisa, è apparsa su Mimesis la settimana scorsa a questo link: http://www.mimesis.education/uncategorized/marco-grondona-tutti-pazzi-per-marx-una-sera-con-francesco-orlando-1/.]
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V. «The muted orchestra»: sordina e barbarie
Ma preferimmo un détour: toccammo un tema che sapevamo ci vedeva divisi eppure aveva a che fare con lo strumentale e la dinamica, Bayreuth. Lui – colla faziosità che caratterizza spesso gli intelligenti – ammetteva si potessero ascoltare solo lì gli opera omnia di Wagner, soprattutto perché la «sordina» evita ai cantanti la rissa col volume dell’orchestra; io ero rimasto delusissimo dal voyage. A dire il vero se un vantaggio potevo assegnare al «golfo mistico»:
non coinvolgeva il canto, che in Wagner è quasi sempre sulla cresta dell’onda dell’orchestra ed in fondo non se ne separa: mi sembra di cogliere nell’acutissimo De La Motte[53] che il canto viene il più delle volte fatalmente secondo. Eventualmente un punto a favore della «muted orchestra» riguardava invece il sostegno alla mira evidente in Wagner di strumentare ormai secondo l’effetto costante d’una «Verschmelzung» responsabile, appresso alla «melodia infinita» e alla «cadenza infinita», d’un «unendliche Farbe» nuovissimo rispetto al sistema della scuola classica decisa a separare nettamente le diverse famiglie dell’orchestra sinfonica. Com’è noto il progetto del 1876 prevede un’orchestra completamente nascosta alla vista del pubblico con un effetto ottico (il suono ti raggiunge ma non sai da dove provenga, il perfido Adorno suggerisce: dove si produca) e sonoro (per tutta la rappresentazione il rapporto con gli strumenti – e qui non penso all’oboe o al corno inglese ma agli otto corni, le tube, le tre trombe, i quattro tromboni, gli otto timpani etc.! – è filtrato di fatto da una gigantesca sordina). Qualcosa che a mio avviso da una parte toglie a quest’arte «tutta la sua decisiva verità»; e dall’altra rappresenta una sorta d’aporia rispetto a certi passi della partitura: penso – tanto per fare un solo esempio e per rimanere all’esito della Tetralogia – all’esplosione dinamica che apre la marcia funebre di Sigfrido.
So benissimo che come vollero annotare Mann e Nietzsche, Wagner era un maestro del dettaglio; lo stesso Richard Strauss quando nel 1904 curò l’edizione tedesca del Trattato di Berlioz integrò esempi nuovi cavandoli tutti dalla produzione wagneriana perché gli parve che il manuale riammodernato potesse nonostante tutto diventare uno strumento pratico per i giovani compositori. Ecco, nel mare magnum della pienezza orchestrale di Wagner quegli esempi aggiunti hanno una spiccata tendenza alla fine vagamente snobistica a rilevare passi in cui si copre di gloria un solo strumento; indimenticabile l’apologia d’un colpo di triangolo:
Se ancora una volta accenno all’uso avveduto che dell’arpa fece Riccardo Wagner (vedi l’esempio eclatante del Lohengrin o il second’atto del Tristano) per ricavare dal colore inconfondibile di questo bello strumento, se lo usa, effetti sempre straordinari e impressionanti, allo stesso modo devo ancora una volta raccomandare ai principianti di ricorrere colla maggior parsimonia possibile ai colori più caratteristici e penetranti della tavolozza orchestrale; prima di buttar giù le note, pensino su dieci volte se quel colore in quel punto è proprio indispensabile o non possa invece sostituirsi con uno meno impegnativo. L’abuso che si fa oggidì del ricco menu delle delicatezze orchestrali – arpe, armonici e percussioni, usate come scintille a portata di mano (e non per l’ottimo effetto ed appropriato che emerge, ad esempio, alla fine del terz’atto del Siegfried per merito d’un solo colpo di triangolo!) – è davvero terribile. Si rintrona inutilmente l’orecchio dell’ascoltatore e quanti dovevano apparire delicati colpi di luce in certi punti decisivi dell’opera, diventano scarabocchi di colore precipitati un poco ovunque senza un piano preciso[54].
Altrove una colonna intera ed indimenticabile registra tutte le più sottili possibilità del corno nella trama densa dei Meistersinger: «Di tutti gli strumenti è quello che si mescola più facilmente a tutti gli altri gruppi: per confermarlo in tutta la sua sostanza non avrei che da copiare qui l’intera partitura dei Maestri cantori; credo infatti di non esagerare se dico che solo per merito del corno a pistoni – straordinariamente evoluto ed ineffabilmente variegato – una partitura che con una terza tromba, un’arpa e una tuba in più rispecchiava nel suo profilo quella della Quinta di Beethoven, divenne qualcosa di diverso inaudito e nuovo ad ogni battuta […] tanto che quella partitura finì col recitare dello strumento il miglior canto di lode»[55]; l’aggiunta finisce col redigere un miracoloso catalogo degli «affetti» cui il corno è in grado di dar voce, quale «il giubilo traboccante dal cuore di Sigfrido», «l’immagine sconosciuta della madre che appare miracolosamente al suo desiderio infantile», «il volto luminoso d’Isotta per Tristano morente», «la gratitudine di Hans Sachs», «le onde del mare del Nord contro la costa notturna», «la gioventù di Freia», «i prodigi dell’elmo magico»[56].
Rimane il reclamo d’una dinamica sovversiva cui a mio avviso si delega l’espressione del «tremendamente serio»; e qui solo l’orchestra scoperta fra pubblico e ribalta adempie coerentemente i suoi compiti. Trovo una conferma fra le pagine di Paul Bekker che nel 1924 dette alle stampe il miglior commento a Wagner, Richard Wagner. Das Leben im Werke [57], e nel ’36 il più brillante vademecum sulle vicende dell’orchestra sinfonica, The Orchestra [58]. I cenni a Bayreuth sono prudenti: il maestro inventò «the effect of the muted orchestra» che però non va sempre bene, anche se nacque «per contentare il drammaturgo eliminando il suo fastidioso aspetto»[59]:
Osservazione acutissima! Non ne fa sulle prime una faccenda d’estetica del suono evitando questioni d’acustica, ma sperimento d’uno scorcio teatrale nuovo, la voglia che si vedesse unicamente la scena e non la schiera dei professori d’orchestra. Qualcosa che a noi non può non suggerire un anacronismo: la colonna sonora durante la proiezione cinematografica.
Quindici anni prima lo storico aveva già toccato il problema in un resoconto del 1920: il problema del Festspielhaus insigne è reale e la ritualizzazione di Bayreuth, emarginando il repertorio dell’opera tedesca, obbedisce di fatto a difficoltà insormontabili: «Si sarebbero mai potute allestire le altre opere su una scena tanto ampia, sulla superficie visiva larghissima dell’anfiteatro wagneriano, calata in basso l’orchestra senza far loro un’illecita violenza? Tutto il progetto Bayreuth pone limiti invalicabili non solo ad altri melodrammi che vi si vogliano rappresentare rendendo impossibile la rassegna di altri maestri, ma a ben vedere e tenendosi all’opera del fondatore rendono organica giustizia solo al Ring e al Parsifal. Chi ha ascoltato i Meistersinger di Richter sa che il suono dell’orchestra coperta e il formato della scena a distanza monumentale non corrisponde al carattere giocoso, mosso e realistico dell’opera. Per non parlare della produzione precedente, Olandese, Tannhäuser e Lohengrin. Anche il Tristano trova la misura giusta e gli esatti rapporti di suono nei teatri tradizionali e non nella sala di Bayreuth»[60]. Ho la sensazione che qui l’autore, per rispetto della vulgata che aveva da mezzo secolo trasformato la città e la collina in un santuario della nazione tedesca, scriva assai meno di quel che pensa[61].
La «muted orchestra» ci portò inevitabilmente a parlare d’esecuzione: Orlando aveva scelto fra tutte – dall’anno della sua comparsa: 1967 – quella di Karajan, per il riguardo che il maestro vi mostrava nei confronti delle frasi di canto toccando culmini d’assoluta eccezione, e per l’eleganza raffinata del dettaglio, quasi scontata in un direttore di cui non metto in dubbio la grandezza ma che certo aveva un fiuto immediato per le possibilità e i bisogni del disco (della «civiltà del disco» Francesco parlava spesso scegliendo l’ascolto domestico come la forma eletta dell’apprezzamento della musica, e mi trovò sempre lontano: evito i dischi con la stessa cura con cui lo faceva Fedele D’Amico ed ammetto occasionalmente solo vecchie registrazioni dal vivo, quelle dove amici meno versatili deplorano «il rumore d’un camion», Callas ventinovenni, Toscanini in prova, Furtwängler d’antan, insomma tutto ciò che non abbisogna del nitore cd)[62]. La Tetralogia può dirigersi però anche in altro modo, ed io trovo avvincenti alcune registrazioni di Solti, ad esempio il finale, con Birgitt Nilsson nei panni della migliore Brunhilde di sempre[63]:
Torniamo alle ultime battute: capita ma è rarissimo che non tutti i professori d’orchestra siano impegnati per l’ultima pagina, specie in una storia che come quella del Ring è durata dodici ore. Qui per l’ultima misura gli altri tacciono e rimane in vita solo il suono dei fiati:
Questo dettaglio sul piano dell’esperienza sensibile è tanto rapido da passare probabilmente del tutto inosservato, ma conserva un grande valore simbolico, specie in rapporto alla «sviolinata» della Redenzione. Ha osservato giustamente Bekker che con Wagner in quattro cori sono ripartiti gli ottoni[64], almeno nel Ring «che si recita sul campo della natura e dei fatti più elementari tanto da richiedere la più ampia e potente sonorità orchestrale»; e rimasero sempre la sezione dominante (ad onta, aggiungo, dei timori di Adorno: «gli ottoni dal tempo di Wagner e Bruckner vennero screditati dal chiasso», mentre «tutti i temi sparati dagli ottoni fatalmente si somigliano e mettono a repentaglio ciò che più conta nella sinfonia, l’esistenza autonoma del singolo dettaglio e perciò la plastica configurazione del percorso musicale»; perfettamente incuranti del laconico Strauss quando consegna la quarta regola al giovane direttore d’orchestra: «Non lanciare mai sguardi incoraggianti agli ottoni, se ritieni che non suonino abbastanza forte, smorzali ulteriormente di due gradi di intensità»)[65].
In vista del «field of elemental nature and events», Adorno – come ho provato a spiegare – comprese meglio di tutti quale doveva necessariamente essere il colore di Wagner. Il peso della dinamica – che tende paradossalmente ad essere l’unico parametro essenziale nello Schönberg del ’24![66] – appena scoppia in orchestra la Trauermarsch di Sigfriedo fa piazza pulita del golfo mistico con ben altra fretta di Bekker: perciò Solti e non Karajan, il teatro all’italiana e nessun golfo, le «campane» che magari puntano in alto come fra i neotedeschi e persino nei finali di Mahler e timidezza zero quanto al «processo di produzione». Del tutto eccezionalmente, ed è spia preziosa, in un passo del Dirigiren una volta tanto è il maestro stesso ad ammettere la sinonimia «Wirkung oder Effekt» assimilandoli mentre di solito degradava il secondo termine della coppia al peggiorativo «effettaccio» (come del resto già denunzia la sua non autoctona provenienza)![67]
Se non bastasse ci soccorre un’ammirevole sincronia: un anno dopo la fine del Crepuscolo degli dei Nietzsche scrive perentorio in un frammento postumo: «Instrumentation: er hat die Blasinstrumente erst zu großen Wirkungen erzogen, alle früheren sind Dilettanten, ihm gegenüber, auch Beethoven», riferendosi evidentemente a Wagner: «La strumentazione: è stato lui ad ottenere per primo effetti formidabili dai fiati; tutti quelli che erano venuti prima di lui sono al confronto dei dilettanti, Beethoven compreso»[68]. È il 1875 e credo che con «Blasinstrumente» intenda sostanzialmente gli ottoni, perché se accetti l’asserto di Adorno che «i legni rappresentino il contrappeso oggettivo alla soggettiva espressività degli archi»[69] devi ammettere che gli ottoni ne mettono in scena la realizzazione «barbara»; in ogni caso pare riassumere in due righe la trama della Story: l’assieme sinfonico che nacque con gli archi a replica delle quattro voci umane del coro, associarono dapprima i legni per disegnare il profilo dell’espressione e da ultimo gli ottoni per rafforzare il suono ogni volta che ce ne fosse bisogno; Wagner avrebbe portato, secondo il frammento del ’75, la vicenda dell’orchestra al suo teleologico approdo, quel che l’estetica classica chiamava il consummare, realizzare la perfezione del capolavoro nel tirar le somme di tutte le potenzialità presenti in un’arte. Dunque consummare gli ottoni stava scritto per certa misura nell’ordine delle cose e, come capita sovente nella vita della tradizione, la strada dell’invenzione individuale e quella storica del progresso si sovrapposero.
Ci guida all’ultima stazione uno di quei sincronismi cari ad Eusebio di Cesarea e familiari a Francesco: il 1874 è l’anno del Crepuscolo degli dei ed appena del 1881 sono le vicende scolastiche che De Amicis narrò e pubblicò per i tipi dell’editore Treves nel suo capolavoro, Cuore. Nel 1979 Carmelo Bene lo recita alla radio e per l’esordio sceglie come colonna sonora – definizione quanto povera e fiacca! – un culmine della Tetralogia al suo scioglimento come la Trauermarsch di Sigfrido: il primo episodio del romanzo prende un rilievo immenso e probabilmente tutto consiste nell’ancorarlo – a sprezzo degli imbecilli che ancor oggi risolvono con futili sarcasmi il suo contenuto – ad una realtà storica e sociale che sfiora il tema del nostro dialogo ed assimila il paletot del signor Bottini, padre del protagonista narratore Enrico, alla redingote di Wotan nell’ormai classica regia di Chéreau.
Lo choc del testo che precipita nelle note ha la forza originaria d’una «Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik» e al tempo stesso la cordialità felice della «forma drammatica ritualizzata» con cui Susan Isaacs montava il teatro per i bambini al di sotto degli otto anni[70].
Non posso assolutamente fare a meno qui di chiarire le forme del contatto di Carmelo Bene col melodramma, perché costituisce un capitolo del tutto ignorato della trattatistica fiorente sulla natura e le regole dell’opera in musica in cui, come tutti sanno, a partire dal Seicento la sciatta retorica e le intuizioni più vivaci si danno il cambio. Per amor di chiarezza mi limito a citare due contributi senza pari come Le rivoluzioni del teatro musicale italiano di Stefano Arteaga[71] e l’avveniristico Traité du melodrame di Laurent Garçin[72], un teorico che sembra produrre in alcune indimenticabili righe la definizione saussuriana del «segno linguistico» con centoquarant’anni d’anticipo. Li scelgo per confessare senza alcun timore che le riflessioni contenute sostanzialmente nelle sillogi La voce di Narciso e Sono apparso alla Madonna (1982-83) sono dopo quei due lavori fra le righe più belle ed acute che abbia mai letto in argomento[73].
Un «cartone preparatorio»: è la sera del 9 luglio 2018 e al teatro dell’Opera di Firenze Riccardo Muti dirige in forma di concerto il second’atto del Macbeth di Verdi. La storia corre abbastanza tranquilla per tutto il primo atto, ma alla festa del secondo, in una magnifica sala dalla mensa imbandita, quando il re va per sedere lo spettro di Banco ne occupa il posto, veduto solo da lui: terrore, sgomento ed imbarazzo dei convitati, il regicida pallido in un tentativo disperato canta alla sposa «La vita riprendo» e lei lo colpisce a morte colla tremenda «sticomitia»: «Vergogna, Signor!». È per me l’istante della perfetta illusione[74] grazie alla bravura di Muti che suggerisce note inaudite anche a chi di quel dramma conosce da anni a memoria la partitura. Non c’era regista quella sera, e dunque mi rimase solo da urlare «Bravo!!!» per gridargli il mio entusiasmo, accontentandomi (!) dell’esposizione fantastica della partitura da parte del suo straordinario improvvisato metteur en scéne.
Ero infatti in un modo o nell’altro a teatro.
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VI. Oculis subiecta fidelibus
Il teatro: quello che per Artaud si concreta solo in oggetti ed immagini, la grande tavola delle Figlie di Lot:
C’è al Louvre la tavola d’un primitivo, non so se famoso o meno, in ogni caso qualcuno che non avrà mai un nome di rilievo nella storia dell’arte. Si chiama Luca di Leida ed è in grado, a mio parere, di render poveri e inutili i quattro o cinque secoli di pittura venuti dopo di lui. S’intitola Le figlie di Lot, un soggetto biblico che in quegli anni andava di moda. Certo, la Bibbia nel medioevo non era la stessa cosa che per noi e il quadro è un esempio singolare delle conseguenze mistiche che puoi dedurne. Ma il suo pathos balza comunque agli occhi da lontano: ti colpisce per una specie d’armonia visuale fulminante che agisce tutta assieme e per un unico colpo d’occhio. Anche prima di renderti conto con precisione di quanto avviene, sai che succede qualcosa di grande, tale da colpire – diresti – non solo l’occhio ma anche l’orecchio. Un dramma di straordinario rilievo intellettuale è radunato tutto lì come una ridda di nuvole che il vento, o un destino assai più brusco portarono lì per scagliare fulmini a gara[75].
L’esordio esemplare impiega la formula per vincolare il lettore: «Il y a au Louvre une peinture de Primitif» suona come il sublime «Luogo è in inferno detto Malebolge / tutto di pietra di color ferrigno» di Dante[76] o l’umile «Now in Vienna there’s ten pretty women» di Garcia Lorca e Leonard Cohen[77]; e siccome il titolo subito sopra giurava che si sarebbe parlato di teatro, la descrizione d’un quadro non può suscitare che aspettative fervide e – nei meglio informati o in gente del mestiere – persino qualche suggestiva conclusione. Quando lessi queste righe per la prima volta il pensiero corse infatti ad una delle regie più accorte di Luca Ronconi che mettendo in scena il Nabucco verdiano lasciò scandire i diversi episodi di cui sono fatte l’opera e la trama da quadri giganti nello stile della pittura di primo Ottocento alla Hayez:
che toccarono il colmo colla scena madre del Va pensiero: le comparse alla ribalta, mietitori in un campo di grano, replicavano nella forma del tableau vivant (indimenticabile gioco di parole attorno al termine tecnico quadro che la faceva da padrone nelle didascalie di Alessandro Pepoli ed ancora nei libretti di Rossini designava quel tipo d’effetto!) quanto lì sopra le tele giganti avevano provveduto ad illustrare[78].
La reazione a Luca di Leida è «foudroyante» e riguarda l’occhio: «dans un seul regard» esibisce «une sorte d’harmonie visuelle» che raccoglie comunque in un nucleo non disordinato di senso i dettagli della storia:
Impossibile distinguere l’impegno dei sensi: «l’oreille en est émue en même temps que l’oeil»: mi sembra la rivelazione essenziale e mi rammenta lo slogan inventato e brillante che Bene mette in bocca a Verdi «Fra poco la mia musica [l’oreille] la vedrete [l’oeil] soltanto»; o – dopo il frammento aforistico di Nietzsche: «Il musicista drammatico deve avere non solo orecchi ma anche occhi negli orecchi»[79] – le righe formidabili con cui Wagner giustifica il carattere «gestuale» di molti dei suoi temi. Fu Adorno a rimproverargli la predilezione per motivi che si allontanavano dalla cantabilità tradizionale (fatta sostanzialmente – aggiungo per chiarezza – d’intervalli di seconda) a vantaggio di formule riproducenti un accordo spezzato nelle sue diverse possibilità. Nel Versuch über Wagner l’etichetta dispregiativa divenne addirittura il titolo del secondo capitolo, e prese la forma più solenne illuminata sullo scorcio degli anni Quaranta dalla speculazione d’un gigante del teatro come Bertolt Brecht: Gestus. La censura aggressiva dello storico fa sulle prime un grand’effetto perché – come in molte delle sue critiche – ha il dono di cogliere un dato di fatto vero; ma la sua forza vacilla se abbiamo la pazienza di leggere l’esegesi di questo stile nelle parole del maestro che l’aveva creato:
Ciò che dobbiamo innanzitutto prendere in considerazione – si legge già nella terza parte di Oper und Drama – è l’indicibile che l’orchestra sa esprimere colla massima precisione, e questo in rapporto ad un’altra cosa altrettanto indicibile, il gesto. […] Il gesto, nella sua comunicazione divenuta necessaria, dice agli occhi quel che la parola non è più in grado d’esprimere e da quel gesto l’occhio resta talmente colpito che adesso è l’orecchio a sentirsi privato di qualcosa. Gli manca un contrappeso adeguato nella comunicazione, necessario perché questa riesca del tutto intelligibile al sentimento: […] quel che del gesto è indicibile nel linguaggio delle parole, sarà allora il linguaggio dell’orchestra – completamente affrancato da quello delle parole – a comunicarlo all’orecchio così come i gesti si rivolgono agli occhi[80].
Trent’anni dopo nel Beethoven tutto è ancora più conciso e chiaro: «Mentre le arti figurative hanno bisogno per i gesti che fissano solo nello spazio, della supplenza d’una contemplazione riflessa, la musica esprime con tale immediatezza la natura più intima del gesto che, quando ci ha raggiunto, la nostra vista perde il suo acume e comprendiamo quei gesti pur senza guardarli»[81].
L’affermazione di Wagner va ben al di là d’una coincidenza quasi ovvia col bric-à-brac teatrale: il perentorio Non verbis sed gestibus! di Brecht[82] o il mélo che appena ho citato di Carmelo Bene «Tra non molto la mia musica la vedrete soltanto»[83]; supera addirittura la dicotomia che Orazio pose nella sua Poetica tra quel che a teatro si vede e quel che s’ascolta, convinto che l’effetto dell’azione sull’occhio dello spettatore fosse ben più rapido di quello prodotto all’orecchio dalle parole:
Aut agitur res in scaenis aut acta refertur.
Segnius irritant animos demissa per aurem
quam quae sunt oculis subiecta fidelibus[84].
(nella traduzione del Metastasio suona: «e giunge / ciò che va per l’orecchio ognor più tardi / gli animi ad agitar, di ciò ch’esposto / è allo sguardo fedel», 270-273). Lo stile nuovo in orchestra rende finalmente inattuale l’aut aut del poeta classico, perché i gesti si comprendono ormai «ohne sie selbst zu sehen». Non a torto, se diamo retta al solito Bekker eccellente e categorico nel tirare le fila del suo Wandlungen der Oper: «So ist der Oper das Hörbild das in die Sichtbarkeit hinüberwächst», cioè «l’opera non è altro che un’immagine sonora destinata a diventare visibile»[85]; o allo slogan perspicuo di Ernst Krause che esprime solo l’altra faccia dell’iperbole rassicurante: «regia è quando, nonostante tutto, si sente»[86].
Si comprende allora che «l’oreille, dirait-on, en est émue en même temps que l’oeil» è il paradosso meno ovvio e più serio del paragrafo inaugurale. Si tratta di immagini che hanno da soppiantare qualcosa conquistando, a sue spese, l’orecchio: non può trattarsi che del testo e non possiamo che concludere perentoriamente: «Wo lèxis war soll òpsis werden»!
Artaud alza così la bandiera del partito antiaristotelico ed osteggia senza mezzi termini la notissima rivendica della Poetica dove, com’è noto, ogni elemento del rito e della scena (quel che i primi traduttori resero non per caso con apparatus e conspectus)[87] viene represso a vantaggio del dramma da leggere e del suo irrinunciabile mythos, innescando da allora lo scontro perfetto dei due partiti che vive a tutt’oggi e che ebbe protagonisti illustri (mi limito ad una citazione carismatica, Pietro Metastasio, gran poeta maestro del testo costretto ad abitare in teatro ed ubriacarsi d’«apparato»: «Queste parti dell’opera, che non abbisognano che d’occhi e d’orecchi negli spettatori per farne proseliti – scrive all’Algarotti il 9 febbraio 1756 quando è costretto nel Saggio sulla Poetica ad occuparsi della «rappresentazione» e tenta di farne un semplice problema tecnico perché negata in Grecia dalle difficoltà delle «mutazioni» e colpevole al tempo suo di ridurre il poeta a scenografo – raccôrran sempre maggior numero di voti che le altre, delle quali non può misurare il merito che l’intelligenza e il raziocinio; tutti vedono, tutti odono, ma non tutti intendono, e non tutti ragionano»).
Quel che segue tira le fila d’un breve itinerario poco meno che scontato: «un drame d’una haute importance intellectuelle»: la vivacità stroboscopica delle Filles de Lot non anima un semplice quadro ma esaurisce le virtù del dramma compiuto.
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VII. Per fortuna che c’è Riccardo!
Quasi nulla di diverso in Bene, evidentemente tutto dalla parte di Artaud e d’una polemica antiaristotelica persino più spregiudicata. Ci coglie però originalissimo l’escamotage che gli permette di gloriare il teatro vanificando il testo come dettaglio intollerabile d’un dibattito di parole.
La contrapposizione fondamentale nasce contro la coppia aristotelica fra testo e spettacolo, con preventiva sfiducia nei confronti del primo: «L’afasia del linguaggio si verifica puntuale negli intervalli tra un indumento e l’altro. In siffatti incidenti, nella negligenza, in certe maldestre combinazioni del vestiario, stonature ecc. In siffatti incidenti, la balbuzie, gli spasimi… il nominare insensato signoreggiano il campo scenico»[88]. La polemica contro il dialogo – che è naturalmente l’attività della scena da Eschilo a Pirandello – è precoce all’esordio del Monologo[89] e mentre la lode delle parole riguarda solo un linguaggio visivo culmina nell’apologia di Marlowe: «Tamerlano il grande è un miracolo di segni, di là della metafora qui frantumata a mo’ di lancia-proposizione-sintassi-gioco compreso, al di là del recinto del talento, dall’eccesso in persona, disubbidiente anche al disordine (le battaglie son frasi fatte a pezzi, sanguinanti fonemi, deliranti agonie a squarciagola), trasgressione che, inaudita, trasgredisce se stessa. La forma è così urgente che il risultato è un cosmo incandescente d’audacia»[90].
Sostanzialmente dalla Voce di Narciso e Sono apparso alla Madonna si costituisce l’antologia della «poetica»: e quel che ci colpisce soprattutto è una passione insinuante che nutriva per il melodramma e per l’opera, tanto da finire col farne il tentativo di salvezza così come Van der Weiden aveva salvato Artaud dal teatro del testo.
A cominciare dallo scorcio autobiografico attorno al suo frequentare assieme alla nonna il teatro di prosa quando bambino si meravigliava già che gli attori si limitassero senza canto a parlare. Al teatro dell’opera si canta e lì no: all’opera infatti «non si parlava come nella vita»; può sembrarvi una sciocchezza, ma chi è abituato al melodramma come me avverte abbastanza presto questa nostalgia fatale, pur non essendo tanto sciocco da non capire che l’Othello di Shakespeare è grandissima cosa (caddi però dalle nuvole quando per un compleanno mi vidi regalare il 24 giugno 1967 The Tragedy of Hamlet Prince of Denmark colla dedica A Marco ventunenne, quest’opera forse, più importante del “Tristano” dal suo Francesco Orlando!) e soffre un’autentica anche se apparentemente paradossale astinenza. Gli manca la musica! Il ricordo d’infanzia è una sorta di apologo il quale testimonia non solo una vera passione per l’opera lirica (vedi altrove il makarismos destinato a Schipa e Di Stefano) ma, soprattutto, ciò che Bene pensasse del teatro.
Il che appare più chiaramente nella citazione dove fa la sua sfacciata apparizione l’«afasia del linguaggio»: si realizza in quei momenti – sono puri dati di fatto – quando ci si cambia il vestito e perciò, se Dio vuole, del testo tragico non si riproduce parola o verso alcuno. Si realizza cioè l’ideale che segnò l’esperienza infantile: smettono di raccontarsi i fatti loro sulla scena, per di più a pagamento. Una contrapposizione tra il testo e l’attore momentaneamente muto; posto il linguaggio come classe prima, la seconda ha un peso evidente e pare ne abbia persino di più del linguaggio, deprezzato ad «afasia». A voler calcare la mano siamo qui in piena teorizzazione adulta dell’esperienza infantile con la nonna. «Siffatti incidenti» finiscono col «signoreggiare»: tutto quanto appartiene all’altro piatto della bilancia sorpassa dal punto di vista della scena il coté linguistico.
«Balbuzie» e in particolare «nominare insensato» riguarda l’afasia dell’esordio. Tutto questo – il linguaggio da una parte e dall’altra qualcosa di non bene identificato (tutto quello che ne figura residuo) – non è isolata follia ma una polemica che puoi collocare a piacere nel corso della storia senza alcuna esitazione o negli anni di Artaud o in quelli di Aristotele. Che si metteva esattamente agli antipodi di Carmelo Bene: separava il testo e il residuo scartando ovviamente il secondo, il pandemonium non bene identificato della «vista», con una scelta suggestiva per l’anno in cui formulò la sua teoria (peraltro assai innovativa perché fondava il ruolo del signor lettore chiuso in camera col libro fra le mani).
Due partiti: linguaggio (contro il secondo partito: afasia, balbuzie, «tutto», spettacolo, festa), nominare, copione (altrove: partitura), regista «drammaturgo» (al suo posto: compositore o direttore d’orchestra), tennis ping-pong ring cioè dialogo e prosa (al contrario: musica), letto o riprodotto (invece che: rappresentato).
E finalmente:
E invece è tutto molto più semplice: bello o brutto che sia questo spettacolo, l’unico responsabile è comunque l’artefice della realizzazione. E il sole Shakespeare? E la stella Marlowe? E tant’altro splendente firmamento? Bruciano eternamente nell’azzurro, è chiaro. Son già grandi poeti sulla pagina. Se poi qualcuno, un giorno o l’altro (Verdi, Prokoviev, Meyerhold, Rossini, Artaud, Caikovskij, non so chi, Carmelo Bene) vorrà metterli in musica, eh beh, l’eventuale spettatore non andrà certo (o almeno non dovrebbe) all’opera o a teatro a estasiarsi del valore del libretto – che può leggere a casa. Il drammaturgo a priori è concepibile soltanto se il suo copione, lungi dal troppo sconfortante, abituale tennis di “battute” in prosa, è invece già un progetto di spettacolo, se, come nella specificità della musica, è partitura che l’esecuzione reinventerà nella sera della sua festa[91].
La memoria di Marlowe e la spezzatura della frase per frammenti che risultano «splendenti in sé»: fra le due classi della nostra vecchia partizione, la frase (veicolo del significato, testo, senso socraticamente soddisfacente vittima di irrituali psicologie) non vive di sicuro inter oves, ma splende al contrario il suo rimpicciolirsi nella parola – come capita nei grandi autori drammatici – o meglio nel fonema e, infine, nel respiro. Il saggio di Artaud nasceva da una visita al Louvre per rapire con gli occhi la storia di Lot e i lampi che l’attraversano: Bene ne venne influenzato quando descrisse il Tamerlano e righe del genere sarebbero carissime a Verdi quando cercava la parola scenica («scrittura scenica» si chiamerà più tardi in Eduardo) sfidando in spirito d’economia laconica la disinformazione a proposito del libretto e della trama: cosa toglie questo poco sapere alla potenza del «tunnel emotivo» – come lo chiamò D’Amico in una memorabile lezione contro la moda dei sottotitoli in cui, inascoltato dai mestieranti, ci ricordò che il semplice «pira» basta a illuminarci come un lampo e a scagliarci nell’esperienza di Manrico – in cui precipiti ascoltando la cabaletta del tenore infuriato? Certo sarà meglio non «si diano in frase» e risulti così quella frase scarsamente dialettica, irrispettosa del senso; le parole che traversano il cielo sono i fulmini o le meteore o le stelle cadenti che trapassano la notte di Lot.
Una gerarchia poco meno che obbligata pone il teatro in musica al di sopra del teatro di parola perché le note mediano òpsis e non lèxis; la partitura vale perciò mille volte il copione ed esonera il regista, spiegando miracolosamente cosa provai quella sera di giugno quando Riccardo Muti era solo sulla scena a guidarmi nella «perfetta illusione» della «Vita riprendo». È evidente che la supremazia della partitura (e del melodramma tout-court) come simbolo del teatro moderno ed unico tentativo di salvataggio contro il suo annegare nei marosi del teatro di prosa ha qualcosa di simile alla testardaggine con cui Artaud fa del teatro balinese la sua scialuppa: nonostante l’acribia con cui ne descrive la vitalità quella performance diviene un autentico punto di fuga, un soccorso metafisico per un’esperienza che si rischia perduta.
Nel biasimo del «drammaturgo apriori», riesce ben chiaro l’«apriori»: indica un prima della messa in scena, e dunque merita le critiche perché ossesso dal copione che – letteralmente – si contrappone alla partitura. Questo detto, farsi fanatici del melodramma è inderogabile, e provare con i propri occhi un contatto quasi certamente deflagrante. Se la prende col tennis del «dialogo» e forse potrebbero contrapporsi alla «prosa» non tanto i versi d’una poesia quanto piuttosto il melodramma o la musica (come si dice «teatro di prosa» per intendere genere opposto al teatro musicale). «Spettacolo» viene da specio e corrisponde all’opsis, per cui ricordo le due traduzioni precoci che convissero a lungo con eguale dignità: conspectus ed apparatus; la seconda variante si fa evidentemente pochi scrupoli e rasenta una cordialità enfatica (fra le due corre la stessa differenza che c’è in italiano fra il neutro «spettacolo» e l’indiscreto «spettacolare») che forse, dal punto di vista di Bene («trovarobato» e cabotinage sono i suoi termini), organizza la «festa». Ahimé perfino «messinscena» prese in italiano una sfumatura peggiorativa, portando tracce del cipiglio aristotelico, per cui a teatro conta il testo e tutto il resto, in fondo, è inventato.
Qui il punto di volta: Bene s’affeziona alla partitura dopo aver stabilito l’omologia essenziale fra Teatro e melodramma perché, se all’opera il copione è la partitura, il regista «drammaturgo» finalmente scompare: sostituito egregiamente dal compositore e, di fatto, per quel che ci interessa, dal direttore d’orchestra. Che mi permetto di integrare allo schema di Bene (lui vola alto e non lo nomina) perché in musica ne hai un bisogno assolutamente fatale: senza il maestro non ci sarà mai Teatro e la sera del Trovatore, quanto a rango, finisce col diventare pari a Giuseppe Verdi.
Quando sei al Macbeth di Verdi hai davanti Shakespeare: puoi pensare tutto il male che vuoi d’un libretto d’opera, ma per merito della musica esso non altro è che il grande modello inglese sulla cresta dell’onda, il «testo» (afasico secundum Bene) che le note, Verdi o Riccardo Muti hanno provveduto a consummare[92]. A dirla tutta, non ho mai pensato che fosse improprio paragonare quella che generalmente s’intende per fonte (la tragedia di Shakespeare) e il melodramma del ’47 e non ho mai avvertito il bisogno accademico di premettere che siano «due cose diverse». Qual è il miracolo dell’impressione (stavolta la semplice «espressione» non basta)? La bravura della voce «sulle ali del canto» e – soprattutto – il «resto», l’accompagnamento, qualcosa che pare riduttivo e al contrario riesce il protagonista principale di tutto quel ch’è residuo nel confronto col testo, il magico apparatus. In tal caso sfruttiamo – paradossalmente! – qualche riga della Poetica sulla stessa pagina che censura l’òpsis e il filosofo ci dà colla destra quello che la sinistra ci tolse: intendo la straordinaria preminenza del racconto («mythos») e la primazia del plot nell’invenzione del capolavoro. In argomento, da Shakespeare a Verdi poco muta ed era ciò che Bene avrà perfettamente compreso quando metteva in scena Macbeth nell’ ’83 o Macbeth horror suite nel ’96. Ed è sacrosanta lettura anche se non può non esserci qualcosa che la «patetizzazione» caratteristica del genere produce: nel nostro caso, ad esempio, una certa tendenza a non separare del tutto i due profili di Macduff (Ah, la paterna mano, IV 1) e Macbeth (Pietà, rispetto, amore, IV 5). Da una parte chi lamenta la morte dei figli, dall’altro un personaggio che declama vicino a morte il suo disperato Vae soli! forse proprio pel fatto di non aver figli. Nel caso della Paterna mano può parlarsi meglio di tutto d’un’aria di rimorso (in parte anche di perdono), e il tema è centrale nel melodramma, come dimostra il cap. XI ad esso dedicato del brillante Trattato sul melodramma di Ader, Hugo e Malitourne (1817), colmo di punti esclamativi e di sospensione. Tutto mi sembra in Verdi il tentativo ben riuscito di spiegare la battuta shakespeariana «tu pure allora gli perdona» (per Quasimodo tanto spinosa da costringerlo a parafrasare: «MACDUFF: Se mi dovesse sfuggire sarebbe come dire che tu puoi anche perdonarlo – MALCOM: Questo significa parlare da uomo»): due arie che prese singolarmente paiono i punti deboli dell’opera (anche per la prossimità del coro, magari nella seconda versione, e dell’altissimo Sonnambulismo), scontate e melodrammatiche, si rivelano da svariati dettagli melodico-armonici saggiamente disposte, ed entrano in un sistema che illumina l’una dall’ascolto dell’altra e viceversa (in particolare se si considera dell’opera la versione 1847, fornita del numero conclusivo Mal per me che m’affidai). Si danno man forte e rifiutano qualunque accusa frettolosa di fiacchezza o, peggio, di stile «chiuso» (quell’«unvermittelt» che Wagner rimproverava indefesso a Gluck e a tutta l’opera antica prima della sua riforma). Due numeri che apparivano scarsamente mediati mostrano tutto il loro rango appena lo spettatore li organizza in un sistema: e così la Paterna mano è qualcosa di più d’un pedaggio pagato al tenore.
Nel melodramma in buona sostanza il lavoro della musica è lì, in orchestra, nonostante le gradazioni svariate e i rapporti di peso. Devi coglierne di volta in volta la consistenza, magari riflettendo su quanto la nobilissima colonna sonora partecipa all’azione: la funzione è tutta quella dell’enfasi, nel produrre – se mi passate un termine che Bene non avrebbe irriso – la non deprecabile «atmosfera». Nel capitolo esemplare degli Elementi Schönberg lo considerava il responsabile dell’enfasi a parte subiecti, del subbuglio sentimentale, quello in grado di stabilire espressione (sono proprio, a suo avviso, le due soluzioni scolasticamente raccomandate: o descrive o commuove)[93]. Proprio nella prospettiva di Bene (il testo nemico a teatro, il teatro che merita qualcos’altro) la messinscena trova nell’accompagnamento un oggetto prezioso: qui non è tempo e luogo di chiacchiere, né socratismo né linguaggio puro. Perciò se ne trovano di così singolari: prendete il Sonnambulismo verdiano, probabilmente il vertice di tutta la carriera sua buttato alla ribalta dalle deviazioni ritmiche impensabili: questo sì che è teatro come azione, note che si condensano, si diradano, si precipitano fino ad incappare sulle ultime due come la più economica e patetica delle melodie:
Nella primavera del 1880 il frammento 3.118 di Nietzsche riporta un’osservazione miliare:
Il poeta mette in gioco la nostra voglia istintiva di conoscere. Il compositore al contrario la fa riposare; potranno mai andare d’accordo poeta e compositore? Quando ci abbandoniamo completamente alla musica non abbiamo nessuna parola in testa e questo è un grande sollievo. Appena ascoltiamo di nuovo parole e chiediamo conclusioni, quando insomma capiamo il testo, la nostra reazione alla musica diviene subito superficiale, la leghiamo illico et immediate ai concetti, la paragoniamo a sentimenti, ci esercitiamo in conclusioni simboliche. Tutto questo è molto divertente, ma la profonda e singolare magia che ha dato riposo al nostro pensiero, quel benedetto crepuscolo che ha spento per una volta il lume del giorno dello spirito, quando invece non capisci più le parole e tutto si rimette in ordine, e per fortuna di solito è la regola: i testi peggiori sono sempre quelli da preferire ed è giusto perché non cercano di attirare l’attenzione, al contrario quasi pretendono di essere trascurati.
L’intollerabile tennis è il Rededuell che piaceva solo ad Aristotele a partire dalla celebre conclusione del cap. VII: «La vista è certamente irresistibile [psychagogikòn], ma è la più estranea all’arte e quella che meno ha a che fare colla poetica; l’efficacia della tragedia si misura infatti anche senza rappresentazione e senza attori; a realizzare gli elementi visivi l’opera dello scenografo conta assai più che quella del poeta».
Ad un attacco violento contro la figura del regista[94] e di seguito ad una citazione di Montale contro i registi anacronistici Bene aggiunge:
Ancora più grottesca e intollerabile è la presenza del regista nell’opera lirica. Qui il nostro nus, bacinella in (al posto della) testa, complici irresponsabili “scene e costumi”, vanifica ogni sforzo anche metafisico dei cantanti-cavie, coristi e direttori d’orchestra. Se i “costumi” son torture, vere e proprie mortificazioni da flagellanti patafisici, l’architettura è Borgia: botole, trabocchetti, inclinazioni impraticabili; una sconsiderata serie d’agguati agli interpreti e indigeni di scena, costretti spesso a gorgheggiare su un piede o appesi alla soffitta e perché no campati in aria. La situazione è regolarmente aggravata dalla “morbosità” dell’arredamento: non mi riesce ascoltare Mozart senza il castigo visivo d’un salotto “così” e perché non “così”. Le luci, sempre ignoranti della musica, servono solo a “vederci” e a colorare (quando è bel tempo) albe e tramonti già illuminate o spente nella partitura. Verdi profeta: “Tra non molto la mia musica la vedrete soltanto”. Ora, in Verdi, la musica è sempre azione, e per di più con tanto d’effetti “calibrati”, stracalcolati, che non sopportano la volgarità d’un raddoppio visivo[95].
Denunzia la morbosità degli allestimenti mozartiani, il salotto standard che fa da castigo visivo, il cattivo trattamento delle luci in situazioni «già coronate dalla musica» (dunque pleonastico). Quando Francesco Siciliani gli propose il Manfred ideò un allestimento oratoriale per sottrarre la musica «al servilismo delle scene» occupandosi solo della luce, spettacolo «non disturbato» una volta rimosse tutte le trovate registiche. La luce ha una parte ovviamente più forte che nei salotti ingombri di Zeffirelli e non posso non citare a tal punto il solito avveniristico Garçin)[96].
Il regista dunque è grottesco per l’opera lirica, e questa è una posizione per certi versi non estranea all’Adorno di Opera e disco che leggerò più avanti. Il «Verdi profeta» dev’essere un virgolettato infedele ma è ben trovato perché dimostra a teatro il trionfo della dimensione ottica («la vedrete invece di ascoltarla»); Artaud aveva usato l’espressione – vagamente ossimorica – «scrittura di scena» (le leggi e le immagini rappresentate, non parole ma figure, «la vedrete invece di leggerla»). Qualcosa di simile a quel che fa il solito aficionado di Toscanini se, ascoltando la miracolosa registrazione delle prove d’orchestra della Traviata, dà appena un’occhiata all’indice del libretto ed obbedisce così a Carmelo Bene. La musica non sopporta il «raddoppio visivo» perché quelle note sono già visive e visibili: è proprio questa la scelta, il resto appare evidentemente pleonastico! Per dimostrare che non ci vuole la regia, passa insomma in rassegna i tre grandi del melodramma italiano dell’Ottocento (omesso, non so dirvi perché, Donizetti): mille volte meglio il «Platte» che l’«Oper»?
Una posizione che ha un’eco sulla pagina, al solito elegantissima e perspicua, d’un compositore colto come Hans Werner Henze:
Può anche ammettersi che certi drammi in prosa vengano messi in scena dai registi del teatro di prosa con una certa libertà e in maniera nuova. Ma il teatro di prosa non ha nulla a che fare col teatro dell’opera se non in dettagli del tutto periferici (quale la presenza d’una scena, d’un sipario e una sala), e siccome al teatro dell’opera il regista è sempre lo stesso ed è uno solo, la partitura, il lavoro del regista alle prese col melodramma – differenza che nella prosa – consiste unicamente nel mediare il testo musicale, nel render visibili le note, la situazione culturale dell’opera, cui nulla ha da aggiungere se non illuminarla e realizzarla così come se la trova davanti. Per questo ci vuole tanta di quella cultura, dello spirito e del talento che la vita d’un uomo non basta ad impararne il mestiere[97].
La quale kat’antìphrasin ha qualcosa a che fare con l’Adorno bizzarro di Oper und Langspielplatte (1969), dove la rimozione del regista passa attraverso l’ascolto della pura registrazione discografica:
Estraneo a magie impossibili, si libera dagli accidenti delle false cerimonie operistiche. Consente di rappresentare la musica nel modo migliore possibile; le permette di riprendersi qualcosa di quella potenza ed intensità che si era consumata nei teatri. Oggettivazione dunque e concentrazione sulla musica come sulla cosa più importante [die wahre Sache] dell’opera, si legano ad una percezione paragonabile alla lettura, tuffarsi nel testo invece di quel che fa l’opera rappresentata nei casi migliori (un’opera d’arte non dovrebbe mai farlo!): persuadere l’ascoltatore[98].
*
VIII. Heinrichs Abschied
Ci accostiamo allora a due pagine di Cuore che Bene lesse legandole alla grande musica: ne fece una straordinaria spettacolarizzazione servendosi dell’episodio finale del Crepuscolo, la Marcia funebre di Sigfrido. Non v’era copione, né regista: solamente le inaudite modulazioni della sua voce e le note di Wagner in una sorta di suggestivo «melologo» (un termine tecnico che è ancora pochissimo per dire del risultato emozionante!).
La Trauermarsch fu da sempre un episodio musicalmente celebrato e pezzo forte dell’esecuzione antologica – che usava un tempo ed è inspiegabilmente uscita dall’uso per inutili vanterie di buon gusto – di brani puramente sinfonici estratti dall’Anello del nibelungo. Impossibile però non cogliere una differenza marcata con pagine altrettanto celebri ed isolate come La cavalcata delle valchirie o Il mormorio della foresta che giocano ad effetto colle vecchie norme della musica descrittiva: la marcia funebre contiene in sé un’enorme capacità di racconto, la disposizione dei temi è organizzata per una narrazione perfetta e climatica collo straordinario vantaggio – rispetto a tutti gli altri «racconti» wagneriani – d’un’economia obbligata, tanto che se c’è un luogo in tutta la Tetralogia dove i temi fanno davvero da «guida» questo è proprio la Marcia.
Una parola sul genere cui appartiene il Primo giorno di scuola quando lo legge Carmelo Bene: a rigore, nonostante l’empito dirompente dell’allestimento, è per l’appunto quello del melologo, cioè d’un opera in cui vedi e senti l’interprete parlare sopra l’esecuzione d’un brano musicale.
Riprendo ancora una volta l’«ottimo commento», cioè il Garçin del ’72 e il suo trattato che non è solo una messe di osservazioni acutissime ma si prende la briga d’ordinarle in un percorso rigorosamente teleologico, necessità quasi inderogabile perché questo tipo di trattatistica avvertì per natura come sostanzialmente urgente il bisogno di riparare ad una decadenza e proporre rimedi col vezzo talvolta giustificato, talaltra accademico, del lamentarsi de causis corruptae eloquentiae: le diverse scelte stilistiche a disposizione del compositore non sono censite – in altri termini – come neutre ed equivalenti ma devono assumersi il coraggio dell’«impegno» prendendo partito a favore dell’una o dell’altra soluzione. L’analisi del Traité inizia col canto semplice: eccellente ma pericolosamente vicino alla melodia strumentale[99] come ogni aria «di bravura» (a); ci vorrebbe qualcosa di più: «un canto che guardi alla misura delle nostre idee, complesso come la lingua delle passioni, ricco come la nostra immaginazione, un canto in contatto con l’uomo, che sovente anche quando perse la propria grandezza volle sembrare grande ai suoi occhi»[100]. L’aria italiana poi è sempre perfetta[101], ma spesso è espressivamente un «monstre»[102] per le forzature cui sottopone il testo (b), tanto che non v’ha chi non veda la superiorità drammatica del recitativo. Lo elogia nel cap. VII riscattandone la scarsa fortuna contemporanea: loda il recitativo[103] come un prodotto artistico indubbiamente superiore all’aria (c) – anche se malamente negletto al tempo suo[104]: «L’arietta parla ai nostri organi e alle nostre sensazioni, in una parola: al nostro corpo. Il recitativo, al contrario, sorpassa i sensi, non bada al nostro orecchio, vuole parlare all’anima, vuole procurarci un affetto, commuoverci e farci perder la testa. Perciò è il genere più nobile, espressivo e multiforme, il solo che davvero assicura al musicista la fama»[105]. Tocca il culmine nel recitativo obbligato (d), accompagnato cioè e fedelmente descriptus dagli strumenti che passo passo l’assecondano: se ne trovano sempre troppo pochi e ne avverti la mancanza «perché sono i muscoli e i nervi dell’imitazione musicale»[106]: «la varietà che brilla nella loro trama, l’eco e i rimandi che la fondano, le antitesi, le pause, le domande e le risposte allorché uno strumento si ferma mentre l’altro lo sorpassa, le contraddizioni apparenti salvate da un’unità invisibile, ogni specie di nessi per un semplicissimo nodo, sono questi tutti magici effetti patrimonio insuperabile dei maestri italiani»[107].
Ti sembra d’aver raggiunto la mèta col punto (d). Eppure proprio al termine del trattato, quando Garçin sembra aver toccato il migliore dei generi possibili da capo alla serie «canto piano – aria – recitativo secco – recitativo accompagnato», cala un asso dalla sua provvida manica per reclamizzare una scelta nuova: il melologo (e) sperimentato nello stesso anno dal Pigmalione di Rousseau (1762): «se qualcuno mi chiedesse come vedo possibile una riforma dell’opera gli direi di cominciare da quella scena lirica che l’anno passato un musicista geniale ebbe il coraggio di proporre alla ribalta d’un teatro di provincia; c’è poco da discutere e brontolare: quel semplice pezzo, se ben eseguito, sono sicuro che potrà diventare la tappa d’una grande rivoluzione per il nostro teatro»[108].
Badate al paradosso: il progresso del melodramma, genere «sintetico» che nel corso d’una storia ormai secolare aveva avuto da risolvere solo il proverbio e il problema del rapporto fra musica e parole, deve fare piuttosto i conti colla frattura fra i due sistemi espressivi e sfruttarla se vuol raggiungere il massimo dell’espressione[109]. Posizione bizzarra – direte voi – ma non dobbiamo emarginarla preventivamente proprio da spettatori di Carmelo Bene; sono convinto che nessun appassionato di melodramma, nessun amante di Verdi o nessuno che vada in cerca di «perfette illusioni» a teatro possa fare a meno di rifletterci quando assistendo al suo prodigioso Adelchi insegue incantato la voce dell’attore e sente premere intanto le bellissime note di Giani Luporini: sta assistendo ad un melologo ed in fondo le emozioni sono in tutto e per tutto quelle del ’62!
Zum Schluß: il più lucido teorico del melodramma pretende il melologo, un grande uomo di teatro pretende il melodramma e recita melologhi.
Leggiamo da De Amicis Il primo giorno di scuola, che, per merito di Wagner, diviene un commovente Heinrichs Abschied:
Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s’accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta. Vicino alla porta, mi sentii toccare una spalla: era il mio maestro della seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: – Dunque, Enrico, siamo separati per sempre? – Io lo sapevo bene; eppure mi fecero pena quelle parole. Entrammo a stento. Signore, signori, donne del popolo, operai, ufficiali, nonne, serve, tutti coi ragazzi per una mano e i libretti di promozione nell’altra, empivan la stanza d’entrata e le scale, facendo un ronzio che pareva d’entrare in un teatro. Lo rividi con piacere quel grande camerone a terreno, con le porte delle sette classi, dove passai per tre anni quasi tutti i giorni. C’era folla, le maestre andavano e venivano. La mia maestra della prima superiore mi salutò di sulla porta della classe e mi disse: – Enrico, tu vai al piano di sopra, quest’anno; non ti vedrò nemmen più passare! – e mi guardò con tristezza. Il Direttore aveva intorno delle donne tutte affannate perché non c’era più posto per i loro figliuoli, e mi parve ch’egli avesse la barba un poco più bianca che l’anno passato. Trovai dei ragazzi cresciuti, ingrassati. Al pian terreno, dove s’eran già fatte le ripartizioni, c’erano dei bambini delle prime inferiori che non volevano entrare nella classe e s’impuntavano come somarelli, bisognava che li tirassero dentro a forza; e alcuni scappavano dai banchi; altri, al veder andar via i parenti, si mettevano a piangere, e questi dovevan tornare indietro a consolarli o a ripigliarseli, e le maestre si disperavano. Il mio piccolo fratello fu messo nella classe della maestra Delcati; io dal maestro Perboni, su al primo piano. Alle dieci eravamo tutti in classe: cinquantaquattro: appena quindici o sedici dei miei compagni della seconda, fra i quali Derossi, quello che ha sempre il primo premio. Mi parve così piccola e triste la scuola pensando ai boschi, alle montagne dove passai l’estate! Anche ripensavo al mio maestro di seconda, così buono, che rideva sempre con noi, e piccolo, che pareva un nostro compagno, e mi rincresceva di non vederlo più là, coi suoi capelli rossi arruffati. Il nostro maestro è alto, senza barba coi capelli grigi e lunghi, e ha una ruga diritta sulla fronte; ha la voce grossa, e ci guarda tutti fisso, l’un dopo l’altro, come per leggerci dentro; e non ride mai. Io dicevo tra me: – Ecco il primo giorno. Ancora nove mesi. Quanti lavori, quanti esami mensili, quante fatiche! – Avevo proprio bisogno di trovar mia madre all’uscita e corsi a baciarle la mano. Essa mi disse: – Coraggio Enrico! Studieremo insieme. – E tornai a casa contento. Ma non ho più il mio maestro, con quel sorriso buono e allegro, e non mi par più bella come prima la scuola.
Una pagina tutta nostalgia: «passarono come un sogno», «siamo separati per sempre» e a lui le parole «fecero pena», «non ti vedrò nemmen più passare» e lo guardò «con tristezza», «mi parve ch’egli avesse la barba un poco più bianca», «mi parve così piccola e triste la scuola», «mi rincresceva di non vederlo più là», «quante fatiche!». «Non mi par più bella come prima la scuola» è il congedo, ma l’ultima riga e il brano per intero, sono una sorta di malinconico Addio al maestro della seconda:
Sullo sfondo d’un «quarto stato» che brulica: « Signore, signori, donne del popolo, operai, ufficiali, nonne, serve». Subito prima costituiva l’epilogo, tutto virato al color seppia della melodramatic imagination, il desiderio della madre e il bacio all’uscita, pesantemente frainteso da chi manca del genio di Bene e censura elementi che a parer suo «danno un suono d’insincerità e di disagio, una ricerca dell’effetto malamente conclusa dal bacio che suggella l’episodio»[110]. L’errore mi appare evidente anche perché quando presi in mano la prima edizione del romanzo – ristampata e riutilizzata per anni – colle illustrazioni di Ferraguti, Sartorio e Nardi ebbi immediata la sensazione d’un rimosso dal testo che in qualche modo tornava nelle immagini, in cui il rapporto fra adulti e bambini si fa tanto tenero da passar la misura. In altri termini quando leggo «corsi a baciarle la mano» sono convinto che Enrico racconti una bugia per «coprire» la meravigliosa copertina Treves:
La serie delle illustrazioni pone l’antitesi aristotelica tra lèxis ed òpsis mettendo in scena quello che Pirandello nel 1906 levò di mano agli illustratori quando nel suo Illustratori, attori e traduttori, appena riconosciuta alla serie delle figure il valore d’un mythos autonomo non necessariamente pleonastico nei confronti del testo, incappò in tali difficoltà riguardo ad attori ed allestimento da raccomandare dei propri drammi l’esclusiva privata lettura[111]. Il catalogo comprende ancora la mamma che stringe fra le dita le guance dello scolaro illudendoci di qualcosa che capita in Il Direttore: «tirandoselo fra le ginocchia e facendogli alzare il viso» perché somigliava a suo figlio morto:
e poi Convalescenza: «il mio maestro che si chinò a baciarmi».
È il primo accenno alla forza originaria del rapporto tra genitori e figli, e questo Bene avrà preso sul serio pensando al Ring, dove i gemelli Sigmund e Sieglinde generano Sigfrido, Wotan si separa dalla figlia Brunhilde con un Addio colmo di tanta passione da contentarsi solo del bacio che gli permise la regia recente di Keith Warner[112] e il tema ultimo della Redenzione per amore santifica il ricordo della generazione incestuosa di Sieglinde (Walkiria III 1)[113]:
S’è detto dunque della sincronia fra Cuore e Crepuscolo: e io avverto a dispetto d’ogni possibile incredulità una straordinaria aggressione di questa musica a quel testo. Ancora una volta le note di Wagner posseggono – per merito, direte voi, del regista – una straordinaria capacità a calarsi in una storia, in una città, in una classe sociale:
E se guardo il Wotan delle scene della Walkiria del ’76 non riesco a sentirlo tanto diverso dal padre d’Enrico, il protagonista. Certo il regista avrà avuto il merito di fare d’un racconto l’evento fermato dal mito e forse persino gravato dal mito: qualcosa di terribilmente «serio», scriveva Adorno, appunto terribilmente «attuale».
In fondo è una piccola dimostrazione dell’Attualità di Wagner: e se vuoi capire la copertina di Ferraguti ti serve – ad esempio – la convinzione che «seine Musik ist erotisch so frei wie nur ganz weniges andere»[114]. E poi la Marcia – che per Adorno evidentemente terrorizzato dal feticcio risulta, vai a capire perché, un poco «ereignislos»[115] – è la più appropriata a sostenere un’enfasi perfetta che non autorizza la reazione irritata di Giorgio Pasquali: «a me quel pezzo di eloquenza sentimentale sembra addirittura un’immoralità» dopo il «non sono degno di baciarti le mani»[116], così come gli parve «uno dei punti più melodrammaticamente stupidi del Cuore» il signore che dona l’anello alla bambina spersa[117]; secondo Tamburini poi il «siamo separati per sempre» del maestro è degno d’un racconto d’appendice,[118] come gravato da patetismo il rammarico della maestra «non ti vedrò nemmen più passare»[119]; quasi tutto gli sembra inutilmente triste, guastato da insincerità e disagio, meritevole del ridicolo[120]. La lettura di Carmelo Bene quando coglie la forza vitale del melodramma – su cui non voglio imbastire facili eppure non fittizi giochi di parole! – dimostra però quel che separa l’artista dagli intellettuali frettolosi.
E una violenza «attuale» raffigurano proprio le misure fff della Trauermarsch che si intromettono nel racconto d’Enrico:
Sarebbe bene rifarsi ad un momento estremo, il fragore in quanto tale, sottolineare la genialità del suono wagneriano proprio là dove si oppone alla mediocritas del gusto, rifiutando a proprio carico la possibilità d’un ascolto culinario. È vero che talvolta Wagner mette in moto un’intensità eccezionale: eppure non capita spesso. Chi conosce bene le sue partiture sa con quale istinto faccia economia del fortissimo. Ma quando il fortissimo arriva, è la protesta di Wagner a farsi sentire contro la piatta connivenza della «cultura» [Kultur] […] Quando tocca l’estremo, lo fa con un intento preciso: oggettivare il caotico e il non addomesticato: la violenza del suono è violenza della cosa stessa[121].
Perciò ci mette in guardia il filosofo contro ogni possibile timidezza annotando, dopo un ascolto della Gotterdämmerung diretta da Karajan all’insegna del bel suono [Wohllaut]: «nell’ultima giornata dell’Anello riescono fragorosi solo quei passi che paiono, proprio dal punto di vista compositivo, non del tutto risolti: in essi allora i fatti nella musica non corrispondono perfettamente al volume del suono. Uno di questi è il culmine smisurato e povero d’eventi della marcia funebre di Sigfrido: mi sembra nel suo complesso un brano problematico, e non a caso ricorda Liszt»[122]. Vale la pena allora accennare in conclusione al giudizio di Bloch che considera la musica della Tetralogia come fragorosa «Tierlyrik» e intenzionata a superare l’umano per coprire il dato di fatto che dei ed eroi non sono né dei né eroi: «Le note, l’abbiamo già detto, finiscono nel vuoto e passano in un ambito maledettamente animale. Non c’è alcuno sguardo che possa superare [Durchblick] la ristrettezza della persona altrimenti che mostrandoci un mondo di sciocchezze, trucchi ed eroi fasulli votati alla disfatta [heilloser]» [123].
In verità mi sembra tanto appropriata la scelta di Bene perché anche per lui vale probabilmente – seppure all’interno d’una storia infinitamente più piccola come quella di De Amicis – la reazione «anacronistica»: «Il mito dell’Anello wagneriano raffigura per Adorno – come del resto per Shaw, anche se in termini meno immediatamente comprensibili – la parabola della società borghese e non sarebbe altro che il travestimento preistorico d’un minaccioso presente: l’arcaico come cifra del moderno»[124]. E a proposito dell’appena citata «reazione anacronistica», per gettare un ultima luce sul nostro Primo giorno di scuola, considera la straordinaria pagina metodologica che nel Berg di Adorno apre il capitolo su Wozzeck, a partire dalla classica remora iniziale (che pure non conta per Cuore): «Di fronte a un testo di tal genere la musica potrebbe apparire superflua, semplice ripetizione del suo contenuto profondo, di ciò che lo rende poesia»[125]; il compositore in realtà (quanto Adorno nel suo assetto critico!) profitta del carattere di abbozzo e frammento dell’originale (a) e poi del semplice fatto che «sono trascorsi cento anni» (b) sicché «la modernità della musica dà rilievo a quella del testo proprio perché esso è antico e fu privato della vita che gli era dovuta» (col che si finisce vicini al «contenuto di verità» di Benjamin: «in tal modo il contenuto [Sachgehalt] ed il contenuto di verità [Wahrheitsgehalt], uniti nella giovinezza dell’opera, si separano nel corso della sua durata: questo rimane sempre nascosto, il primo si affaccia alla luce»)[126]. Dopo la formidabile osservazione di Hofmanstahl («la commedia per musica era al Rosenkavalier destinata per ciò che è non nei personaggi ma tra di loro») per immettere nel discorso il concetto di spazio, Adorno conclude che la musica riempie proprio le lacune vuote del testo, colma cioè le «manque» che preoccupava Ruwet: «trasforma un abbozzo realistico in un testo che scricchiola sotto il peso di ciò che vi si nasconde, in cui ogni spazio lasciato libero dalla parola cela un contenuto in più. Per rendere evidente questo contenuto ulteriore, questo spazio libero, per questo esiste la musica nel Wozzeck»[127].
E per questo Bene scelse il Crepuscolo. Sull’ultimo fff si consuma l’Abschied: «Ma non ho più il mio maestro, e non mi par più bella come prima la scuola», portando con sé la malinconia d’una folla urbana di secondo Ottocento che la musica descrive in due diverse «mutazioni» quanto le propaggini del Walhalla e la sezione Moncenisio di via Doragrossa 51, ma non divergenti.
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IX. Musica di consumo: una ballata per la «cadenzina»
Voglio concludere godendo della risoluzione musicale che entra in gioco per l’explicit nella «mutazione» del mito ed apprezzare la scelta singolare di Wagner. Una volta tanto prendo come testimone autentico l’entusiasmo dello spettatore contemporaneo:
Solo alla fine compare, nei violini primi e secondi rinforzati dalla coppia dei flauti, il tema, splendente quanto una meravigliosa apoteosi della Redenzione per amore, così grande, così sublime in questa estrema metamorfosi, che ci si sente trasportati nelle sfere dell’inconscio[128]. Si ritrova poi – nei frammenti precipitosi del basso – il tema della Potenza divina. Intanto brucia e crolla il palazzo degli dei, per l’ultima volta risuona brillante il tema del Guardiano della spada, mentre ancora più in alto plana ormai negli spazi del cielo come un’ultima e suprema benedizione la dolce frase che ci consola, improntata ad una così nobile serenità, in cui tutto l’immenso dramma si riassume: la Redenzione per amore. Episodio di ampiezza inaudita dove tutto si muove con tale agio che non hai mai l’impressione della complicazione reale in cui di fatto ti trovi. Tutti i motivi risaltano nettamente e le eventuali dissonanze che generano al loro contatto, scompaiono grazie alla diversità precisa dei timbri. Nessuna asprezza, nessuna confusione: navighi beato nel mare acceso dell’armonia e vorresti prolungare all’infinito questa sensazione deliziosa. Per quanto lentamente possano calare il sipario, hai la sensazione che troppo presto t’abbiano strappato a questo sogno incantevole per riportarti al mondo[129].
E confesso che la docilità apparente dell’ascoltatore contemporaneo è quella cui rimarrò più legato. Perché Orlando scrive da una parte che quel tema «lo aveva intonato Sieglinde nella Valchiria, appresa la sua maternità: ritorno alla natura; annientamento d’un mondo; e infine dunque (come nel Faust) eterno femminino»[130]; una definizione – a mio avviso – dalle misure troppo grandi: in una pagina del diario del 23 giugno 1872 Cosima annota che Richard le rivela essere quel tema semplicemente «un inno per l’eroina» («Ich bin froh, daß ich Sieglinden’s Lob-Thema auf Brunhilde mir reserviert habe, gleichsam als Chorgesang auf die Helden»; bada al verbo essenziale «reserviert», una parola-guida delle analisi di De La Motte!)[131]. Franco Serpa dall’altra è convinto d’un’«estatica celebrazione della pace e della morte nella beatitudine del nulla»[132]: a partire da scarsa simpatia nei riguardi del cupio dissolvi, rifletto del tutto istintivamente che la parola «morte» è impropria anche solo a pensare come il maestro abbia scrupolosamente evitato il titolo Isoldes Liebestod pel finale del Tristano (etichetta maldestra perfino nella meravigliosa parafrasi di Liszt!) riservandolo al preludio e destinando a quella morte la definizione lucente di Verklärung[133]. Giorgio Pestelli raccomanda infine di «non cercare con troppa avidità nei nostri sentimenti»[134] ed è invito che leggo a contraggenio.
È affascinante tutta la battuta di Wagner e devo per un momento riprenderla:
A ben vedere non esiste mai per la musica una vera e propria chiusa: la musica è per così dire la genesi delle cose e può perciò ricominciare sempre da capo o divenire il proprio contrario, ma in verità non è mai “pronta”[135]. Ti ricordi quant’ero incerto per la chiusa del prim’atto dei Maestri cantori? Sono felice d’aver riservato a Brunhilde il tema di lode di Sieglinde: nient’altro che un inno per l’eroina.
Non ho alcuna passione per i giochi di parole, ma la conversazione serale della coppia illustre è segnata in corpore vili da «keinen Schluß» e persino dall’eminente «unschlüssig» (in tedesco «cadenza» si dice «Schluß»!), due parole che non possono non definire negli opera omnia la scelta generale a favore della melodia, la cadenza, l’organico tutti infiniti (altrove parlai dell’«officina gluckiana» come banco di prova dal 1847). Il Wolzogen 90, il Lob-Thema, che Wagner presenta a Cosima come un’idea nuova, dunque col profilo dell’Einfall, è per sua natura straordinariamente aperto e può replicarsi a piacere come la ninna-nanna di Brunhilde nel cerchio di fuoco. Così proprio l’aspetto dell’ultima misura della Tetralogia diviene sintomo e conferma di questo carattere: quando dopo un dramma di dodici ore il suono dei fiati permane a testimoniare che la storia non si interrompe e ne viviamo l’effetto – se posso accennare alla vita del teatro e di noi spettatori – ancora quando dal teatro usciamo. È il grande risultato non metafisico del racconto di Wagner e perciò riprendo l’emozione di Bekker dopo l’Ariadne di Strauss, pronto com’era a scrivere righe memorabili sui finali del suo musicista-mito: «È calata la tela. Il pubblico lascia lentamente il teatro con un misto singolare di rapimento artistico e stranezza interiore. Vanno avanti, respirano l’aria fresca d’una sera d’autunno, guardano – al di là degli alberi del parco – le luci e la vita della città, e non può non divenire sempre più chiara la scissione che provano: l ‘arte e la vita si negano a vicenda. Li separa un abisso e noi abbiamo paura che ci spinga a crearci delle ali per andare in cerca della terra di sogno che la fantasia dell’artista, guidata da un intelletto sensibile, ha poco prima suggerito e scoperto»[136]. Mi viene incontro un esempio paradigmatico e riguarda ancora una volta le scelte artistiche infallibili di Riccardo Muti: il suo rigore nell’eseguire le partiture di Verdi secondo le condizioni dell’autografo è generalmente nota ed irrevocabile, all’insegna d’una «filologia» che ha la meglio su tutto incurante di qualsivoglia teatrale vicissitudine. Ma c’è un’eccezione che torna con voluta tenacia in anni diversi della sua attività d’interprete ed è la fine del coro degli Ebrei prigionieri sulle sponde dell’Eufrate, il celebre Va pensiero: «O simìle di Sòlima ai fati / traggi un suono di crudo lamento, / o t’ispiri il Signore un concento / che ne infonda al patire virtù». Verdi ha scritto:
Il coro guidato da Muti non termina prima del triplice accordo dell’orchestra perché il direttore lo lascia al contrario impercettibilmente svanire, del tutto «unendlich». Finisce come se non dovesse mai finire:
Questo non avvenne nelle avvisaglie fiorentine del 1977 (regista Luca Ronconi) ma fu la scelta costante per le esecuzioni «mature» della Scala di Milano e del Costanzi di Roma[137]. Se io scrivessi adesso nero su bianco un cartellino semantico saboterei lo splendido effetto: l’èthos che propone deve conservare il suo vago e impreciso disegno, qualcosa che abbraccia forse «patire virtù» per farne la propria parola scenica, o accenna ad una lucida speranza col barlume della terra promessa.
Wagner ha eliminato dal libretto come accennai poco sopra la battuta di Brunhilde del 1852 sulla vanità dell’oro e il dono dell’amore, e sceglie d’illustrare la lacuna con un tema d’inaudita semplicità proprio nel momento in cui una selva d’altri Leitmotive hanno appena provveduto a tirar le fila del racconto:
Come se si trattasse d’un colpo di spugna, nasce il motivo della Liebeserlösung[138], un breve frammento melodico tanto diverso ed opposto ai «gesti» che ci hanno raccontato l’Anello eppure degno di cullarci come «la frase dolcissima in così nobile serenità»:
attorno ad una sola nota RE la diastematica elementare disegna per l’ennesima volta un gruppetto, il melisma che era da sempre carissimo a Wagner e che non per caso col no. 90 del Wolzogen chiude l’ultimo dramma saldandosi in una spontanea cornice col primo, il motivo di Brunhilde no. 78[139]:
Ho la sensazione di cogliere nella lettura di Pestelli remore che non condivido: «È singolare quanto questo tema, così carico di responsabilità, sia poco “wagneriano”. Specialmente non wagneriana è la separazione netta di canto e accompagnamento, con quel salto di settima discendente che nelle insistite ripetizioni produce una melodiosità sovrabbondante, lontana dalla tematica wagneriana. In altre parole, c’è qualcosa di troppo “semplice”, comunque sia di diverso, di troppo vicino a un finale angelicato di opera lirica»[140].
In realtà a ben guardare il tema apparteneva da tempo al repertorio “wagneriano”. Nel 1841, scrivendo Über die Ouvertüre, il primo d’una lunghissima ed importante serie di saggi teorici per cui la carriera dell’operista comincia al tempo stesso di una riflessione teorica sorprendentemente e – sono tentato di pensare – eccezionalmente ricca, rileva a proposito dell’adorato preludio dell’Ifigenia in Aulide di Gluck:
Come nel caso del Don Giovanni ci troviamo difronte alla lotta o almeno alla contrapposizione di due elementi ostili, che il brano porta incessantemente alla luce. L’intreccio stesso della tragedia contiene in sé questi due elementi: la schiera degli eroi greci è raccolta in vista di una grande impresa comune, e, dominata dal solo pensiero di portarla a termine, ogni umano interesse arretra dinanzi a quello di una massa invasata. Gli si contrappone un interesse particolare che vorrebbe salvare un essere umano e serbare in vita una tenera vergine. Gluck è riuscito a personificare e caratterizzare musicalmente queste due forze opposte con una chiarezza ed una verosimiglianza davvero indicibili. […] Dal peso terribile del motivo principale – che procede prevalentemente unisono – si riconosce la massa aggregata attorno] ad un unico interesse, mentre nel secondo tema ci parla l’altro interesse contrapposto, quello di un tenero individuo che soffre e suscita tutta la nostra compassione[141].
Prezioso per noi quel saggio perché il secondo tema, quello destinato ad illustrare la vittima Ifigenia, è proprio un gruppetto:
come è nello stesso anno il primo tema cantabile, subito dopo l’inizio, dell’ouverture del Rienzi (1841):
La distanza degli anni è enorme, ma la forma è identica: una nota, un gruppetto, una sesta ed infine una catabasi. Per giunta l’esempio è speciale perché la lunga ed emozionante ouverture è segnata da un LA unisono della tromba che torna collo scrupolo d’un ritornello di rondò (A-B-A-C-A-D-A etc.): nota sola e melisma, il contrasto tra quel suono, cui dobbiamo essere sensibilissimi, e il contiguo dolcissimo gruppetto si fa luminescente e porta con sé un «affetto» che non t’aspetti da un compositore agli esordi.
Soccorre ancora una volta la previsione di Benjamin: da «traduttore», come lo è ogni spettatore che interpreta a modo suo quel che sta ascoltando, devo far tesoro della mia competenza postuma e tirar fuori da quel suono esordiente della tromba e quel ritornello tutto il suo «contenuto di verità»[142]. Il vademecum stavolta è Giacinto Scelsi, un compositore che divenne famoso per un solo brano, Quattro pezzi su una nota sola (1959), e nel corso d’un’intervista affermò:
Quando si entra in un suono ne si è avvolti, si diventa parte del suono, poco a poco si è inghiottiti da esso e non si ha bisogno di un altro suono. Oggi la musica è diventata un piacere intellettuale – combinare un suono con un altro ecc. – inutile. Tutto è là dentro, l’intero universo riempie lo spazio, tutti i suoni possibili sono contenuti in esso. La concezione odierna della musica è futile – rapporti fra i suoni, lavoro contrappuntistico: così la musica diventa un gioco.[143]
Nutriva una vera passione pel suono unico della campana e soffrì di tutte quelle che a guerra finita vedeva guaste in terra per il danno dei bombardamenti: «sabato sera – appuntò su un diario – invece dei tre per tre abituali rintocchi dell’Angelus, le due vecchie campane si mettono a suonare un vero gamelan, dei ritmi straordinari, avvolti di pulsazioni profonde che riempivano la valle; la domenica mattina, ricominciano, con tale gioiosa potenza di persuasione che non possiamo fare a meno di correre alla messa»[144]. Nell’ouverture dopo l’esposizione affidata agli archi unisoni, torna la figura nei fiati:
replicato il suono e il mèlos, ricompare in una versione stretta prima della marcia.
Mi chiedo se la predilezione wagneriana del gruppetto fosse simile a quella che spinse Nietzsche ad amare le fioriture dell’opera italiana nella pagina fantastica sulla Sentimentalità nella musica: «Proprio se si è ancora tanto affezionati al grande repertorio della musica seria, ci sono momenti in cui ci si sente vinti, stregati e mollemente sedotti dal suo contrario; penso a quegli abbellimenti [jenen allereinfachsten italienischen Opern-Melismen] che, nel melodramma italiano, formano la melodia più semplice eppure – ad onta della loro uniformità ritmica e d’un’armonia quasi puerile – sembrano parlarci come il vero e proprio spirito della musica. Quand’eravamo ancora bambini, abbiamo assaggiato per la prima volta il miele vergine di molte cose, e mai il miele ci apparve più dolce d’allora, quando ci chiamava alla vita, sotto le forme della primavera, dei primi fiori, delle prime farfalle e delle prime amicizie»[145].
Per Wagner rimase comunque una formula melodica d’elezione, a partire almeno da quanto dichiara del suo contatto colla Quinta di Beethoven:
La mia guida migliore quanto a tempo ed esecuzione della musica di Beethoven, l’ho trovata un giorno nel canto pieno d’anima e tanto sicuro negli accenti della grande Guglielmina Schröder-Devrient; da quel giorno mi fu impossibile, ad esempio, lasciar malamente abbozzare [herunterblasen] l’indimenticabile cadenza dell’oboe nella Quinta come, ahimé, avevo sempre sentito fare. Fu proprio così: a partire dall’esecuzione di questa cadenza come ormai mi si era rivelata, io compresi quale significato ed espressione meritasse il SOL del primo violino colla corona nell’Allegro iniziale, e l’emozione profonda che trassi da questi due punti apparentemente irrilevanti produsse in me una comprensione vivace e nuova dell’intero movimento[146].
È la cosiddetta «cadenzina dell’oboe», che a Toscanini parve eseguita sempre troppo adagio (e questo la dice lunga su qualche difetto del celebre direttore)[147]:
Che lo visitasse come un’inconscia melodia ossessiva lo dimostra un ulteriore commento a proposito dell’Ifigenia: «namentlich aber begriff ich nun erst die Bedeutung der zarter Stelle mit der rührend anmuthigen zweiten Hälfte» («e – soprattutto – compresi per la prima volta il significato d’un passo tenero come quello alle bb. 40 sgg. con la soave e commovente seconda metà»)[148]. L’incantevole esagerazione metonimica reagisce di certo all’abbellimento e fa il paio col giudizio di Riccardo Muti quando una sera lo sentii dire che In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum, il VII fra i Sieben Worte unseres Erlösers di Haydn, era il più bello: non ebbi alcun dubbio che fosse proprio il gruppetto ad aver avviato lo «Zirkel im Verstehen» nel cuore del maestro:
Strappare l’invenzione al suo indicibile: una nota che avrebbe potuto rimanere tale e quale ma sarebbe stata difficile da «cantare»; per non ribatterla sempre la stessa o tenerla tanto a lungo – qualcosa a mezzo fra il difficile ed il monotono – la troviamo arricchita delle note più prossime. Il lato più sensibile è il suo carattere «naturale»: pare infatti scalpitare contro il pentagramma ed imitare la voce che parlando cerca una libertà d’inflessioni impossibile in musica; né deve stupirci: pensate all’imbarazzo d’un brano intitolato Le sette parole che di parole non ne contiene neppure mezza!
E intanto badate non tanto all’esordio esuberante del Crepuscolo nell’istante in cui sorge il sole:
quanto al culmine della Trasfigurazione nel finale del Tristano (1859):
mentre il grande Liszt, attore con Wagner d’un sodalizio di cui spesso non riesci a decidere chi fosse lo sprone, quando nell’evocazione Á la chapelle Sixtine (1862) si dette a «riscrivere» il mozartiano Ave verum, lasciò scrupolosamente intatto il canto carismatico del 1791 ed aggiunse semplicemente un gruppetto:
Una predilezione – ed una pratica: la fioritura precipita frequentissima nelle partiture quasi con azzardata spontaneità – che aveva meritato il § 7 del lungo Von dem Doppelschlage di Emmanuel Bach nel Versuch: «Questa bella fioritura è del resto perfino troppo naturale, si adatta quasi ovunque, e per tale motivo si presta all’abuso, tanto che molti pensano consumarsi tutto il lustro e il prestigio del pianista nell’inserire un gruppetto ad ogni pie’ sospinto. Perciò è necessario osservarne l’impiego un po’ più da vicino, perché v’è un mucchio di seducenti circostanze cui invece questo abbellimento non è appropriato»[149]. Poco importa: questo è per noi il fascino che negli ultimi minuti cala dal cielo:
Nelle regie meno ordinate il precipizio degli dei scompone l’assemblea delle comparse persino quando a dirigerle è un maestro come Kupfer, mentre nell’eccellente Chéreau dinanzi al tema che «riempie il luogo» tutti si dispongono rivolti al pubblico in preda ad un serio stupore, brillantemente memori – io credo – del Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo (1901):
La parvenza che ho già confessato è per me quella della voluta semplicità attorno ad un disegno che ebbe fortuna e perfetto adempimento settant’anni dopo il Rienzi[150] per l’obbligo a consummare prescritto dall’estetica classica: nei primi anni del Novecento infatti quel disegno melodico attraversa il Canto della terra (1909) di Mahler e, con un’immensa inesauribile variazione, approda quale sostanza musicale nell’ultimo tempo della nona sinfonia (1910):
Wagner sceglie un organico che faccia ben intendere dietro agli strumenti la presenza della vox humana, gli archi all’unisono come in tutti quei casi di Puccini che da noi prendono l’etichetta un poco superficiale eppure affettuosa di «sviolinata», qualcosa che in terra tedesca mi ricorda certi slanci melodici di Weber. È evidente che alla fine del Crepuscolo ciò che conta come significativo è l’antitesi semantica – passatemi una volta tanto l’impoetica parola – al generale predominio degli ottoni e perfino al loro tenace aggrapparsi nell’ultima battuta.
In altri termini torna in gioco la timida micrologia con cui la mia sera con Francesco Orlando ebbe inizio.
Riprendiamo dunque un Walhalla di minor dimensione, la rocca della Sunnydunes Development dove Lee Allen progetta campagne pubblicitarie, per riflettere sul suo sparire nel fuoco. Chi montò il film d’Antonioni deve aver scelto in musica, a mio avviso con successo, la stessa voluta semplicità si parva licet componere magnis presente nella Tetralogia perché impose decisamente una sensibile svolta alla colonna sonora. Tutto questo non poteva essere un’intenzione debole visto il valore modellizzante che Lotman ci obbliga da sempre ad annettere al concetto di «fine»: inserì una ballata che sapeva di musica di consumo dopo una colonna sonora assai ricca in cui si erano prodotti raffinati artisti alla moda, i Pink Floyd, i Grateful Dead ed i Kaleidoscope, per non parlare d’un chitarrista come Jerry Garcia.
Il «commento» di Orbison, che non viene annoverato nei titoli di testa, fu inserito per volontà della Metro-Goldwyn-Mayer all’insaputa del regista (e divenne il contenuto d’un 45 giri dal sottotitolo eloquente di Love Theme from Zabriskie Point) mentre la copia originale del film conservava ed ebbe ancora a lungo Come in Number, Your Time Is Up dei Pink Floyd. Qualcuno parlò d’un detour esclusivamente commerciale (Orbison era un artista MGM) e considerò «inappropriata la scelta di Orbison, che da gran cantante melodrammatico, scrisse, assieme al suo collaboratore abituale Bill Dees, seguendo in tutto e per tutto quello che era il suo standard, una ballata piuttosto trita che nulla aveva a che fare col suono, la natura e l’intento di Zabriskie Point»[151].
Come sempre a teatro, chi deve giudicare è però il pubblico: a me la cordiale utopia di Roy Orbison che ci indica Zabriskie Point come un approdo alla felicità sembra la circostanza giusta mentre il sole tramonta e Daria, che fissa il cielo rosso tenendosi accanto la maglietta di Mark, pensa quanto ciascuno «selig in Lust und Leid / lässt die Liebe nur sein». È quello che volevamo sentirci dire, due canti semplici in una forma semplice, ed infischiandocene dei Soloni non abbiamo alcun timore a ricordarci della Liebeserlösung mentre la chitarra del cantastorie strappa gli accordi del suo giro armonico.
Ormai è sera: non vediamo quasi più il fiume. Io esco sul pianerottolo, entro nell’ascensore che scuote i suoi poveri specchi, i legni graffiati e le moquettes come nei grandi «palazzi» senza nome degli anni Sessanta. Apro la porta di vetro e il fresco della notte accoglie sul Lungarno la mia bicicletta: «Dawn comes up so young, dreams begin so young»!
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Note.
[53] D. DE LA MOTTE, Harmonielehre (1976), Kassel, Bärenreiter, 19803, p. 212.
[54] H. BERLIOZ, Instrumentationslehre ergänzt und revidierte von R. Strauss, Peters, Leipzig 1905, p. 155. NIETZSCHE scrive al cap. VII del Caso Wagner: «Dobbiamo ammirarlo ed amarlo tutte le volte che scopre il particolare più piccolo, là dove si occupa dei dettagli. In questo è un maestro di prim’ordine, il più grande miniaturista in musica, in grado di portarti nello spazio più esiguo ad un inifinito d’intenzioni e di autentiche sottigliezze».
[55] Ivi, p. 279. Lo stesso riguardo, con più pallido entusiasmo, al cap. VI del Caso Wagner di Nietzsche: «Fate caso agli strumenti. Qualcuno ci commuove fin dentro di noi (aprono le porte, per dirla con Händel), altri ci colpiscono alla schiena. Il colore del suoni qui è quel che conta, cosa di fatto risuona poco importa. Su questo punto dobbiamo essere delicati! Perché badare ad altro? Dobbiamo essere caratteristici nel suono sino alla follia!».
[56] Ibidem.
[57] BEKKER P., RichardWagner. Das Leben im Werke, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart Berlin Leipzig 1924.
[58] BEKKER P., The Orchestra (1936), Norton, New York 1963.
[59] Ivi, pp. 196 sg.
[60] P. BEKKER, Bayreuth (1920), in Kritische Zeitbilder, Schuster & Loeffler, Berlin 1921, p. 61.
[61] Un esempio che può servire a chiarire assai bene il problema Bayreuth, anche se il paragone sembra sulle prime singolare, è quello con uno strumento relativamente moderno come la fisarmonica cosiddetta «classica» nata nei primi anni Sessante e caratterizzata dal fatto che alcune file di ance (registri) non sono «libere» di suonare all’aperto ma vengono montate entro una custodia chiamata cassotto la quale svolge in tutto e per tutto il compito del golfo mistico; così se scelgo un registro di ance libere ottengo una sonorità diversa rispetto alla fila di ance coperte, lo ripeto, suggestiva ma «chiusa». Al problema dettero – come nella predilezione di Orlando – una soluzione integralista: in uno strumento del genere almeno un registro, quello da 16 piedi, esiste solo al riparo del cassotto (i registri sono in tutto quattro: uno da 16′ in cassotto, uno da 8′ fuori, uno da 8′ dentro, uno da 4′ fuori). Da parte mia ho un enorme difficoltà ad ammetterlo perchè si perde oltre tutto la magica combinazione 16’+8′ un poco tagliente e dal sapore di organo. Mi sembra davvero ingiusto non poter ascoltare il 16′ nel suo squillo pieno. Io suono addirittura un esemplare carismatico Victoria-Titano di quarant’anni or sono che non ammette tout court il principale da 8′ fuori cassotto come registro singolo – quello che dovrebbe essere la base d’ogni esecuzione – obbligandolo a suonare sempre accoppiato all’8′ in cassotto. Tutto ciò premesso, mi ha felicemente colpito il fatto che nel primo straordinario manuale dedicato allo strumento, redatto da un sacerdote lombardo della prima metà dell’Ottocento, il Metodo per l’armonica a mantice di Giuseppe Greggiati (1842), l’autore insista a lungo sulla necessità indispensabile di privilegiare un colore marcatamente flautato e non nasale: «Due specie ben distinte vi sono di armoniche. Alcune hanno nel coperchio dei fori pe’ quali escono i suoni; altre in vece de’ fori hanno una piccola apertura sotto alla tastiera lunga quanto la tastiera stessa. Il suono di voce delle prime è più forte, nasale ed alquanto aspro, e si assomiglia a quello della tromba e dell’oboe; il suono di voce delle seconde è più temperato, rotondo e dolce, ed imita quello del flauto, onde siffatte armoniche sogliono dirsi flautate» (La Grafica, Trento 2012, p. 133). Evidentemente il corpo più chiuso di alcune fisarmoniche ottocentesche costituiva una sorta di naturale cassotto (anche oggi la fessura del suono nella sordina è una «piccola apertura lunga»). Comprendo perfettamente che paragonare Bayreuth ad una fisarmonica possa apparire fuorviante ma le necessità espressive che animarono la scelta monumentale di Wagner e le notturne meditazioni di Greggiati erano assolutamente le stesse.
[62] Su tutto questo vedi il saggio D’AMICO: «Giulini è l’inverso: suono, dinamica etc. partoriti dal fraseggio; e un fraseggio più intimo che vistoso, ma penetrantissimo e onnipotente», perciò, rifiutando i dischi dell’adorato Furtwängler, «tenetevi i vostri dischi, io preferisco soccorrere la mia memoria con le sue reincarnazioni, e vado a sentire Giulini» (Stasera dirige Dominiddio, in Tutte le cronache cit., pp. 1655 e 1505 sg. La fantasia di Furtwängler mescolava alla precisione di Toscanini, secondo ADORNO, Herbert von Karajan di cui parla a lungo e con l’acume di sempre (in Oper: Provinz oder Monopol, 1968, in Ges. Schr., Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984, XIX, pp. 425-430) senza nulla dire contro la sua bravura ma censurando ad ogni costo la sua inaudita confidenza con la riproduzione meccanica della musica all’insegna d’un’impressionante dimestichezza col disco e la televisione, un elemento tecnocratico inseparabile dalla funzione sociale, un monopolio stile Wagner a Bayreuth, mentre coltivava la tendenza a «trasformare le note nella più bella e armonica delle maniere»: per lui evidentemente, si trattasse pure dell’Elektra, la perfezione stava nel «bel suono [Wohllaut], senza elementi di rottura, bilanciato ed equanime. Ma spesso le opere hanno bisogno di qualcos’altro che quest’idea, del tutto tradizionale, di bellezza”» (pp. 427 sg.). In qualche pagina dello stesso anno trova la celebre aria della Suite in Re maggiore di Bach «insuperabile quanto al suono gradevole senza affettazione, ma melodicamente poco disegnata, tanto che quell’ineffabilmente grande linea melodica, per solito resistente a qualunque usura non raggiunge tutta la sua potenza»; mentre non ammette la lettura acritica della beethoveniana Missa sollemnis: quello di chi dice «le plus accompli» è il classico caso di ascolto «obbediente [autoritätsgebundenes Hören]», e si capisce, perché «Karajan oscura gli enigmi col bel suono, mentre la preoccupazione per il lucido specchio sonoro [Klangspiegel] sorpassa tutto il resto, un primato che vela, al di là d’ogni maestria, profilo e fraseggio»; il Toningenieur fa il resto (Orpheus in der Unterwelt, 1968, in Ges. Schr., XIX, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984, pp. 545-554, qui pp. 549 e 553 sg.).
[63] https://www.youtube.com/watch?v=H59o70HP9HI
[64] BEKKER, The Orchestra, Norton, New York, 1936, p. 185.
[65] T. W. ADORNO, Mahler. Eine musikalische Physiognomik, in Ges. Schr., Suhrkamp, Frankfurt am Main 1971, pp. 149-319, qui p. 161, e STRAUSS, in BERLIOZ, Instrumentationslehre cit., p. 75.
[66] A. SCHÖNBERG, Die Zukunft der Orchesterinstrumente, in Stil und Gedanke. Aufsätze zur Musik, Fischer, Frankfurt am Main 1976, pp. 194 sg. Se si ha la pazienza di leggere con cura le due paginette si è costretti ad ammettere da una parte la sostanziale indifferenza al timbro e alla mediazione materiale del suono (una sorta di partito preso a favore dell’idea del dilemma Stile e idea), dall’altra una generale censura del compositore contro i timbri dei vecchi strumenti, forse con una lieve eccezione per il corno. In fondo scopri che quel che a lui interessava era che ciascuno potesse raggiungere in qualche modo un suono nitido chiaro e versatile senza compromettere l’intonazione, e questo si traduceva quasi sempre in un risultato dinamico limpido ed immediato.
[67] WAGNER, Über das Dirigiren, 1869, Ges. Schr. und Dicht., X, Fritzsch, Leipzig 1898, p. 316.
[68] F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente, 11.16 del 1875.
[69] ADORNO, Versuch cit., pp. 69 sg.
[70] S. ISAACS, Lo sviluppo intellettuale nei bambini, La nuova Italia, Firenze 1968, p. 352.
[71] S. ARTEAGA, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fino al presente, Venezia, Palese, 1785; la prima volta uscito nel 1783; la ristampa di Forni proviene da Bologna, Trenti, 1783 (I), 1785 (II), 1788 (III).
[72] L. GARÇIN (ca. 1734-1788), Traité du mélodrame ou réflexions sur la musique dramatique, Paris, Vallat-La-Chapelle, 1772.
[73] C. BENE, La voce di Narciso (1982), in Opere, Bompiani, Milano 1996, pp. 991-1047 e Sono apparso alla Madonna (1983), pp. 1049-1200.
[74] STENDHAL, Racine et Shakespeare, Le Divan, Paris 1928, pp. 15 sg.: «Quella che noi andiamo a cercare a teatro non è mai una perfetta illusione: gli spettatori sanno d’essere a teatro e di assistere alla messinscena d’un’opera d’arte e non d’un fatto vero». «Sono momenti più frequenti di quanto non si creda, ma durano infinitamente poco, mezzo secondo, o forse ancora meno. Ci vuol poco a dimenticare che hai davanti Manlio per tornare a vederci solo Talma. Sono istanti deliziosi che non provi durante un cambio di scena, né quando passano quindici giorni, né quando il poeta – per raccontarti un indispensabile antefatto – deve mettere in bocca ad un attore una tirata infinita, né quando arrivano quattro versi magari splendidi, ma ammirevoli solo in quanto versi. No, tali istanti di perfetta illusione capitano solo nel bel mezzo d’una scena animata, quando le battute dei personaggi si rincorrono, per esempio quando Ermione grida ad Oreste reduce dall’assassinio di Pirro – era stata pur lei a volerlo! – “Di qual sangue, giusto Ciel, quel ferro hai tinto?”. Tutto il resto è fatto solo per portare alla scena in cui lo spettatore proverà quel fantastico mezzo secondo; sono momenti brevi e, devo ammetterlo, in Shakespeare assai più frequenti che in Racine. Dalla frequenza di questi piccoli momenti dipende però tutto il piacere che proviamo a teatro, e dallo stato emotivo in cui, nel frattempo, lasciano il cuore dello spettatore».
[75] A. ARTAUD, La mise en scène et la métaphisique, in Le théâtre et son double, Gallimard, Paris 1938, p. 34.
[76] Inferno, XVIII, 1-3.
[77] È l’incipit della canzone che Cohen scrisse nel 1986 sulla traduzione inglese del Pequeño vals vienés di Federico Garcia Lorca.
[78] Firenze, teatro Comunale, 5 maggio 1977; le scene erano di Pierluigi Pizzi.
[79] NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente, ott.-nov. 1876, 19.20.
[80] WAGNER, Oper und Drama, in Ges. Schr. und Dicht., IV, Fritzsch, Leipzig 1898, pp. 174, 175 e 176. Può riuscire istruttivo vedere quanto la parola essenziale a designare il gesto, «Gebärde», fosse in un testo d’appena due anni prima ancora usata in modo generico ad indicare poco più che i moti suggeriti dal ritmo della danza: Das Kunstwerk der Zukunft, in Ges. Schr. und Dicht., III, Fritzsch Leipzig 1897, pp. 42-177, qui pp. 73 e 112.
[81] R. WAGNER, Beethoven, in Ges. Schr. und Dicht., IX, Fritzsch, Leipzig 1898, pp. 76 sg.
[82] B. BRECHT, in Neue Technik der Schauspielkunst, in Ges. Werke cit., XV, pp. 375 sg.
[83] C. BENE, Il monologo, in Opere cit., pp. 1000-1016, qui p. 1011.
[84] ORAZIO, De arte poetica, 179-181. Il divario fra agitur e refertur mette in gioco evidentemente la distanza della rappresentazione mimetica dalla scrittura diegetica, ma res acta refertur accenna anche a quel che Orazio raccomanda subito sotto, l’opportunità di narrare e non esibire in scena eventi cruenti quae mox narret facundia praesens, cioè «che renda poi presenti fecondo narrator». Episodi del genere fanno parte in termini del tutto legittimi del dramma classico: un caso per tutti l’arrivo del Nuncius alla fine dell’Edipo di Seneca che racconta ciò che non abbiamo visto, il terribile accecamento del protagonista, secondo quella che era la qualità abituale del reportage, con l’uso d’un lessico singolarmente pittorico (facundia) fatto tutto per Artaud quando perse la testa in pinacoteca. Raffigurare Edipo qualis per arva Lybicus insanit leo / fulvam minaci fronte concutiens iubam; / vultus furore torvus atque oculi truces etc. significa praticare il vero stile per questa sorta di racconti. Un’esperienza apparentemente stravagante mi servì a comprenderne l’intima natura quando ascoltai alla radio – non per caso Eliot considerava Seneca tragico il perfetto poeta del radiodramma (The character, virtues and vices of Seneca’s tragedies in Selected Essays, London2, Faber & Faber, 1934, pp.66-76; qui p. 74)! – l’arrivo d’una tappa del giro d’Italia. Era organizzata in tal modo: un cronista in studio coordinava il primo nuncius che sulla motocicletta numero uno seguiva i corridori all’avanguardia, metti Nibali e Carapaz, mentre sulla numero due il secondo nuncius controllava il gruppo e lo descriveva percorrendolo. Tutto questo ti tocca per la sua sorprendente vivacità e riesce davvero a fornire un’immagine tanto tattile dell’avvenimento che appena dopo l’arrivo della terz’ultima decisiva e durissima tappa del 2019 (31 maggio) un ascoltatore certamente ignaro del nome di Dioniso proruppe con un sms cogliendo una verità davvero inoppugnabile: «Il giro d’Italia per radio si vede».
[85] P. BEKKER, Wandlungen der Oper, Füssli, Zürich e Leipzig 1934, p. 175.
[86] E. KRAUSE, Regia e musica, in Oper 1985. Scritti sui mezzi di comunicazione di massa e l’opera, «Quad. dell’I.R.T.E.M.», II (1985), pp. 45-48, qui p. 48.
[87] F. DONADI, Opsis e lexis: per una interpretazione aristotelica del dramma, in AA. VV., Poetica e stile, Padova, Liviana, 1976, pp. 1-21.
[88] BENE, Opere cit., p. 997.
[89] Ivi, p. 1000.
[90] Ivi, p. 1007; quanto alle agonie a squarciagola bada a tutti i monologhi alfieriani in camera charitatis e ad un caso paradigmatico come il Mal per me che m’affidai nel primo Macbeth verdiano (1847).
[91] Ivi, p. 1006.
[92] Ho provato a spiegare tutto questo in Il duolo e la bell’anima, postfazione a R. MUTI, Prima la musica poi le parole. Autobiografia, Rizzoli, Milano 2010.
[93] A. SCHONBERG: «L’accompagnamento non è una semplice aggiunta. Deve risultare il più possibile funzionale e valere al meglio come il complemento del soggetto che si trova a servire: tonalità , ritmo, fraseggio, profilo, carattere e “affetto”» (Fundamentals of Musical Composition, Faber, London 1970, cap. IX, The Accompaniment, p. 82).
[94] BENE, Opere cit., p. 1010.
[95] Ivi, p. 1011. Solo in nota riprendo il tema della presenza «grottesca e intollerabile» del regista nell’opera lirica, tanto più perspicua mi sembra al contrario la scelta intransigente di Bene nel suo generale disegno. Eppure qualcosa non posso non aggiungere proprio a partire dalla realizzazione della Traviata di Decker di cui ci siamo poco sopra occupati. È un dramma che non solo va diritto al cuore, com’era convinto Proust, ma corre verso l’epilogo con un’efficacia che diremmo priva d’inciampi: devo comunque «rileggere» quattro situazioni critiche. Un episodio come il secondo «preludio» che preludio non era aveva tratto in inganno persino Felsenstein (A). Prendete poi II 8: all’aria di Germont Di Provenza il mare, il suol segue la cabaletta No, non udrai rimproveri, che parve evidentemente per decenni tanto poco motivata da incidenti esterni da venir tradizionalmente tagliata (B). In Decker uno schiaffo del babbo dopo «t’avrò» basta per motivarla semplicemente e perfettamente, assieme al rimorso di Germont; l’aria del baritono infatti non mancava già da sola di presentare problemi in quanto «all’antica» in un dramma d’argomento contemporaneo, anche se «è certamente intenzionale: «un’evocazione nostalgica mediante l’eco dello stile di vent’anni prima», cioè Donizetti e Bellini (J. BUDDEN, Le opere di Verdi, II, 1978, Edt, Torino 1986, pp.127-182, qui p. 161); e quanto alla cabaletta «è difficile biasimare del tutto direttori d’orchestra e registi che saltano direttamente al punto in cui Alfredo vede la lettera di Flora», perché «Germont ha detto tutto ciò che vi era da dire, ed è sviluppata sullo stesso principio ritmico dell’andante, sfiorando sgradevolmente la monotonia» (ivi, 162); già per l’ esegeta eccellente della primissima ora «l’aria del baritono si svolge a guisa di romanza che si ripete, il ritmo è forse troppo uniforme; la cabaletta è poca cosa» (A. BASEVI, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Tofani, Firenze 1859, p. 294). Alla recita del grande monologo Ah, fors’è lui che l’anima di I 5 un effetto impareggiabile produce la replica fuori scena da parte di Alfredo del lamento di Violetta A quell’amor nel comparire dopo l’esposizione della cabaletta (C): il regista sceglie invece di far «uscire» in scena il principe azzurro, personaggio visibile e non semplice allucinazione interiore; e per miracolo quel che era monologo si fa duetto guardando evidentemente al teatro di prosa e scansando il dubbio non ovvio sulla «drammaticità» ambigua dell’aria; nella ripresa della cabaletta Violetta (una formidabile Anna Netrebko) esprime così visibilmente un malinconicissimo ed autentico dubbio attorno al «folleggiare» recitando quel che era tranquillamente assente persino in un gigante come la Callas che esegue ahimé il Da capo identico all’eposizione senza batter ciglio (un dettaglio che non possiamo non segnalare: agli applausi del pubblico che seguono l’esposizione, Violetta col volto segnato dal dolore si passa una mano sulla fronte!). Infine la scelta, ancora una volta, del duetto al posto del monologo per II 1 (D). Decker ne andava fiero ed in un’intervista disse: «Quello che faccio in questo punto è una cosa che non si fa mai: a cominciare dal fatto che Alfredo, nella prima scena, non è da solo ma si trova accanto Violetta. Questo è strano, rovescia completamente la situazione. Anche oggi ne ho avuto l’ennesima riprova: funziona meravigliosamente e lascia intendere molte cose che la scena, presa da sola, non riuscirebbe a comunicare: se fosse da solo, sarebbe un monologo. Rolando [Villazon] e Anna [Netrebko] l’hanno capito a volo e sono stati volentieri al gioco. È stato veramente un piacere. Quando tutto va così, sono momenti meravigliosi». Innanzitutto è cogente l’opzione uguale due volte a vantaggio del duetto perché imprime alla scelta una lodevole coerenza. Merita considerazione: si può dire ciò che si vuole, ma è sicuro che qui l’errore – incompetente – del cantante che fa ad apertura d’atto il tenore viene in qualche modo sanata da Decker; ho sentito spesso ripetere a Muti il suo disappunto per chi gonfia il petto contando sui «bollenti spiriti» senza riguardo al «temprò col placido sorriso» che segue: tutto vero, ma deve ammettersi che la sproporzione era forse già in Piave, e la licenza di Decker l’ammorbidì con un ammirevole istinto teatrale. «È permesso di credere – ha scritto da par suo D’AMICO – che regìa d’opera abbia invece una ragion d’essere, e soprattutto il compito d’additare allo spettatore i salienti della musica: un compito al quale chi si fermi alla legalità delle didascalie è spesso fatalmente costretto a rinunciare» (Tutte le cronache cit., I vestiti che cantano, p. 59). Dopo di che la cabaletta sub iudice – presente Violetta – diviene il semplice episodio di due innamorati che litigano e non le obbligatorie bollicine della sezione b di cui lo spettatore stenta sovente a comprendere la ragione: è come se Decker, consapevole dell’antinomia («Dove sta effettivamente il dramma?», vedi C. DAHLHAUS, What is musical drama?, «Cambridge Op. Journ.», I, 1989, pp. 95-111, qui p. 96), si sforzasse di iscenare un dialogo a svantaggio del monologo (l’aria) del quale paradossalmente non sai se porti seco del «teatro» la massima o la minima parte.
[96] Per GARÇIN le luci andrebbero manovrate tendendo al chiaroscuro e sfruttando un mezzo prezioso proibito ai classici da circostanze di fatto: «Non potremmo trarre maggior vantaggio dall’uso delle luci? Perché diffonderle sempre in maniera uniforme, intendo con una massa sempre uguale? La scienza del chiaroscuro, al contrario, sta lì ad indicarci l’effetto che una distribuzione della luce meno monotona [régulière] sarebbe in grado di produrre. Se gettassimo più luce da una parte della scena e più ombra dall’altra, l’illusione non ne riuscirebbe forse accresciuta? Perché i nostri scenografi non cercano d’imitare Giorgione, Tiziano e Rembrandt? Perché non cercano di copiar l’opera loro proprio nell’abbassare grado a grado i colori? Mettere al primo piano tinte forti e compatte, usarne poi di men vive e riservarne al fondo solo di tenere e vaporose, non servirebbe forse a seguire più da vicino le leggi della prospettiva favorendo di conseguenza l’illusione? Gli antichi rappresentavano le loro tragedie di giorno, noi chiamando la notte sui nostri teatri abbiamo il vantaggio incomparabile di mettere persino le ombre al servizio del nostro piacere» (Traité cit., pp. 355-378). Sul tema della luce BENE scrive: «Le luci, sempre ignoranti della musica, servono solo a “vederci” e a colorare (quando è bel tempo) albe e tramonti già illuminati o spenti nella partitura» (op. cit., p. 1011); in occasione del Manfred suggerì la forma di concerto e lui narratore unico «per consentire alla stupenda musica di Schumann (sottratta al servilismo delle “scene”) di occupare l’intiero tempo della serata»: «Sorretta da un acuto intervento di luce sagomata e sparsa, una siffatta realizzazione avrebbe guadagnato uno spettacolo sul semplice rapporto Byron-Schumann, non disturbato finalmente da costumi, décor, trovarobato, fumi infernali e stolto arredamento. Elegantissima stregoneria. Questa formula era più d’una trovata, era semmai la fine delle trovate registiche che affliggono la musica al teatro d’opera» (ivi, p. 1100).
[97] H. W. HENZE, Essays, Mainz, Schott, 1964, p. 67.
[98] T. W. ADORNO, Oper und Langspielplatte (1969), in Ges. Schr., XIX, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1984, pp. 555-558, qui pp. 557 sg.
[99] GARÇIN, Traité cit., p. 89.
[100] Ivi, p. 92.
[101] Ivi, p. 135.
[102] Ivi, p. 137.
[103] Ivi, p. 241.
[104] Ivi, pp. 349 sg.
[105] Ivi, p. 242.
[106] Ivi, p. 254.
[107] Ivi, p. 281.
[108] Ivi, pp. 373 sg.
[109] Mi ha sempre molto colpito che l’altro grande teorico settecentesco sull’opera, Stefano Arteaga, percorrendo un itinerario assai simile a quello di Garçin arrivi alla stessa soluzione colla medesima e finissima pulsione teleologica che ne fa il difensore d’una «Rhetorik des Schweigens» ante litteram: «Né il terribile silenzio di Didone e di Othello, né le sublimi risposte di Macbetto, di Medea e di Orazio, né mille altri esempi di questo genere si posson rendere nella nostra musica troppo loquaci senza stemperarli in una insipida cantilena» (op. cit., p. 112). Non posso non citare qualche riga d’una lettera di Mozart al padre del 12 novembre 1778 dopo aver ascoltato a Mannheim la Medea di Benda: ««Nessun’altro espediente mi ha sorpreso in tal modo, perché pensavo finora che una cosa del genere fosse destinata a non fare alcun effetto. Come sapete nulla viene cantato, ma solo declamato e la musica ha l’aspetto d’un recitativo obbligato: si parla sopra la musica, il che fa un effetto davvero straordinario. Mettevano in scena la Medea di Benda (ha scritto anche un’Arianna a Nasso, eccellenti entrambi). Volete sapere come la penso? Nell’opera tutti i recitativi andrebbero trattati in questo modo e bisognerebbe farli cantare solo nei casi in cui le parole possano effettivamente esprimersi bene di pari passo colla musica» («ich habe damals hier ein solch stück 2 mahl mit den grösten vergnügen auführen gesehen! – in der that – mich hat noch niemal etwas so surprenirt! – denn, ich bildete mir immer ein so was würde keinen Effect machen! – sie wissen wohl, daß da nicht gesungen, sondern Declamirt wird – und die Musique wie ein obligirtes Recitativ ist – bisweilen wird auch unter der Musique gesprochen, welches alsdann die herrlichste wirckung thut»). Una scelta del genere percepii nella tarda registrazione discografica del Don Giovanni da parte di Karajan nel 1986. Ma ancora una volta chi, probabilmente all’oscuro di questa lettera, coll’istinto teatrale del «Riccardo che da solo gioca al biliardo» lasciando in saletta tutti gli altri «tirò le somme» di quanto Wofgang Amadeus raccomandava al padre, fu Muti la sera del 5 luglio 1999, non nella grande sala scaligera (che qualche mese dopo gli impose nonostante tutto la sua ortodossia) ma nel piccolo teatro Alighieri di Ravenna alla testa dei Wiener Philarmoniker per il Don Giovanni: i recitativi spettacolosi seguirono i desiderata di Mozart e fu indicibile esperienza.
[110] Così L. TAMBURINI nel suo peraltro locupletissimo commento senza cuore a E. DE AMICIS, Cuore, Einaudi, Torino 1974, p. 12.
[111] L. PIRANDELLO, Saggi, Mondadori, Milano 1939, pp. 229-246. La contraddizione nel saggio è affascinante trattandosi d’un autore che, come ognun sa, è stato sempre rappresentato con successo. Esiste un testo – esordisce Pirandello – ed esiste per un verso l’illustrazione, che adempie il ruolo della musica nel melodramma (sic! p. 230) «col desiderio vivo d’un’altra parte»: «nell’arte drammatica che cos’è la scena se non la vignetta viva in azione? che cosa sono i comici se non illustratori anche loro? ma illustratori necessarii, qui, purtroppo» (p. 234), ferma restando da parte dell’autore la necessità della parola scritta, l’«unica che non può esser che quella» (p. 235; qualcosa di simile alla verdiana «parola scenica» o allo choc verbale che incantava Eliot nelle tragedie di Seneca) la quale, sul palcoscenico, viene purtroppo intercettata dall’attore, quasi sempre un ostacolo anche solo colla sua figura: non sarà mai quella parola e vivrà tutte le difficoltà d’un brano sottoposto alle cure del traduttore (p. 237) dando «consistenza artefatta ad azioni che hanno già avuto una espressione di vita superiore alle contingenze materiali» (p. 239). Possiamo allora farlo noi da soli nell’atto di «leggere e ripensare l’opera letta» (p. 242), mentre «l’attore, vivendo nel teatro e del teatro, cioè fra quanto vi è di posticcio e di convenzionale in un palcoscenico, è spesso indotto a veder nell’opera d’arte principalmente quanto vi è di teatrale» (p. 244) sicché alla fine «altro è il dramma, opera d’arte già espressa vivente nella sua idealità essenziale e caratteristica; altro è la rappresentazione scenica, traduzione o interpretazione di essa più o meno somigliante che vive in una realtà materiale e pur fittizia e illusoria» (p. 246; i corsivi sono miei). Il drammaturgo di successo, che raccoglieva gloria e fama proprio nell’aula del teatro, finisce coll’aderire all’invito di Aristotele: prendi in mano il libro e goditi Sei personaggi in cerca d’autore nella penombra del tuo studio!
[112] Nell’allestimento del 26 settembre 2018 al londinese Covent Garden per la direzione di Antonio Pappano.
[113] La figura che segue è tratta dall’allestimento di Chéreau e riguarda il culmine del Wotans Abschied.
[114] ADORNO, Wagners Aktualität cit., p. 547.
[115] Ivi, p. 556.
[116] G. PASQUALI, Il «Cuore» di De Amicis, intr. nell’ed. BUR, Milano 1978, p. 9].
[117] Ivi, p. 13, a proposito dell’Ultimo giorno di Carnevale.
[118] DE AMICIS, Cuore cit., p. 8.
[119] Ivi, p. 9.
[120] Ivi, p. 12.
[121] ADORNO, Wagners Aktualität cit., p. 556.
[122] Ibidem.
[123] Un’idea approfondita da Dahlaus e tutta nel solco dell’Adorno maturo.
[124] C. DAHLHAUS, Soziologische Dechiffrierung von Musik zu Theodor W. Adornos Wagnerkritik, in «Intern. Rev. of Mus Aesth. and Soc.», I (1970), pp. 137-147, qui p. 137.
[125] T. W. ADORNO, Berg der Meister des kleinesten Übergangen, in Ges. Schr., XIII, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1971, pp. 321-494, qui p. 428.
[126] Si tratta dell’emozionante prima pagina del saggio sulle Affinità elettive di Goethe: W. BENJAMIN, Gesammelte Schriften, I-1, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, pp. 123-201, qui pp. 125 sg.: «Proprio qui si presenta al critico un criterio prezioso di giudizio: poiché ora per la prima volta riesce a porre la questione fondamentale, se la parvenza d’un contenuto di verità si debba al contenuto, o al contrario se la vita del contenuto sia dovuta al contenuto di verità. Nel momento in cui si separano nell’opera, essi decidono della sua immortalità. In tal senso la storia delle opere prepara la loro critica e la distanza storica aumenta il suo potere».
[127] ADORNO, Berg cit., p. 429.
[128] È un tema abbastanza «risparmiato», apparso l’ultima volta gettandosi Brunilde sul rogo di Sigfrido e la prima quando, in DieWalküre III.1 quando Sieglinde fugge all’arrivo di Wotan nella foresta e saluta Brunilde: «O meraviglia, o vergine sublime! Per colui che amammo salvo la cosa più cara: il compenso della mia riconoscenza ti sorrida un giorno».
[129] LAVIGNAC, Le voyage artistique à Bayreuth (1897), Delagrave, Paris 1903, pp. 469 sg.
[130] F. ORLANDO, Un elmo magico fra mito e modernità, nel progr. di sala per l’esecuzione della Götterdämmerung al teatro alla Scala di Milano nel dicembre1991, pp. 182-193, qui p. 193.
[131] La nota di Cosima è riportata ovviamente da DARCY, The Metaphisics cit., p. 8. Un affascinante articolo di W. STEINBECK, che muove i primi passi sulla scia – anche letterale – di Wagner, non si occupa in realtà della Tetralogia: vale comunque la pena, pel problema, leggerne le due pagine d’esordio: «Das eine nur will ich noch – das Ende»: Prolegomena zu einer Kompositionsgeschichte des Schließens, in «Archiv für Musikw.», LXIX (2012), pp. 274-290, qui pp. 274-277. A proposito della necessità del «risparmio», essa è manifesta in musica, dove il ventaglio dei «segni» non è così ampio come quello che il vocabolario porge al poeta: vedi per questo ad esempio D. DE LA MOTTE, Melodie. Ein Lese- und Arbeitsbuch, Deutscher Taschenbuch-Bärenreiter, Münche-Kassel, 1993, pp. 182 e 187; C. KÜHN, Formenlehre der Musik, Kassel e München, Bärenreiter e DTV, 19892, p. 155; C. KÜHN, Analyse lernen, Kassel, Bärenreiter, 1994, p. 104.
[132] F. SERPA, Il significato della fine, in Richard Wagner, Götterdämmerung (Crepuscolo degli dei), giornata terza della sagra scenica “L’anello del Nibelungo”, progr. di sala per l’esecuzione all’Auditorio di via della Conciliazione il 22 giugno 1991, pp. 129-141, qui p. 141.
[133] R. WAGNER, Programmatische Erläuterungen, I, Tristan und Isolde, in Ges. Schr. und Dicht, XII, Fritzsch, Leipzig 1898, pp. 344sg.: «[a] Tristano porta al re Marco, suo zio, la promessa sposa Isotta. Si amano vicendevolmente. Dal più timido lamento d’un desiderio insaziabile, dal più dolce tremore fino all’erompere pericoloso della consapevolezza d’un amore senza speranza, il sentimento attraversa tutte le fasi della perduta battaglia contro un intimo ardore, fin tanto che, piombando spossato in sé stesso, sembra come spento nella morte. [b] Eppure quel che il destino ha separato in vita, rivive adesso trasfigurato nella morte. Si schiudono le porte dell’unione. Sul corpo senza vita di Tristano, Isotta morente avverte l’adempimento felice del proprio ardente desiderio, l’unione per sempre, in spazi smisurati, senza limite o divieto, ormai inseparabili».
[134] PESTELLI, L’anello cit., p. 262.
[135] Alla lettera: «non ha mai finito il proprio lavoro». Un’eco spettacolosa e casuale alla riflessione di Wagner che contrappone come se ne avesse copiato la lettera la scrittura del maestro alla compiutezza, si legge all’esordio del Caso Wagner di NIETZSCHE in occasione della celebre apologia di Bizet: «Sie baut, organisirt, wird fertig: damit macht sie den Gegensatze zum Polypen in der Musik, zur “unendlichen Melodie”» («La sua musica costruisce, organizza, fa il proprio lavoro: è l’esatto contrario della malattia in musica, la “melodia infinita”», in Der Fall Wagner. Turiner Brief vom Mai 1888, cap. I). La coincidenza colla coppia antitetica registrata dai Diari di Cosima (per cui vedi n. 131) è segno di quanto il filosofo avesse intuitivamente compreso l’ideale del maestro; ma il percorso fu contrario a quello d’Adorno e passò dall’adesione incondizionata all’ostilità profonda, nata del resto – e questo mi rammenta alla rovescia la parabola di Adorno – da ragioni ingenuamente obiettive: Nietzsche prese ad odiare nella scrittura di Wagner la presenza della parola come supporto necessario, lo sdegno del «mare», la rinuncia alla «musica assoluta» fondata sulla simmetria della frase (la Quadratur che il maestro aveva sempre cercato d’evitare: ad un antecedente fatto di due metà omogenee segue un conseguente montato con due battute lievemente eccentriche e due per un epilogo che somiglia all’inizio); il tutto finisce in proverbio al cap. VIII: «Quando un musicista non sa più contare fino a tre, diventa “drammatico”, diventa “wagneriano”». Dalla parte di Wagner però era nato un altro miglior proverbio che ebbe la sfortuna d’una lettura standard – un poco come era stato del «sonoro silenzio» – e segnalava al contrario una mèta precisa della storia della musica: «l’apoteosi della danza». Giudizio com’è noto destinato alla Settima di Beethoven, ma non da generica dichiarazione d’entusiasmo, piuttosto significando una tecnica presa d’atto che in quel capolavoro giungeva al colmo (consummatum est!) la vicenda della musica classica organizzata secondo le regole d’un ritmo e d’un tempo simmetrici (per l’appunto la «danza»):«l’altro genere d’arte in cui la danza aspira necessariamente a riconoscersi, ritrovarsi e confondersi, è la musica che ricava proprio nel ritmo dalla danza la sua ossatura. […] Se la danza porta alla musica la legge del proprio movimento, essa glielo restituisce come ritmo spirituale e sensibile nelle forme d’un moto assai più nobile e comprensibile» (Tanzkunst, cap. III di Das Kunstwerk der Zukunft, 1849, in Ges. Schr. und Dicht., III, Fritzsch, Leipzig 1897, pp. 74 e 82); fu Beethoven a completare il percorso fino al suo compimento (ivi, p. 95). Una volta tanto, mentre è HENZE a fornirci la cordiale conferma («Mi piace quando la musica si mette a danzare: lo fa così bene, lo fa meglio di chiunque altro: un danzatore diviene qualcosa di simile alla musica; mi piace proprio il balletto in cui la musica danza e i danzatori fanno musica», Reiselieder cit. p. 237) l’ennesima e sorprendente incomprensione dello slogan leggo nel grande BEKKER: «che l’orchestra di Haydn danzasse – come sostenne Wagner – è vero al massimo per gli esordi del primo tempo, i lenti sono tutti nella forma del Lied e nelle introduzioni lente, che rimangono pur sempre un’eco dell’ouverture francese» (The Orchestra cit., p. 61). Lo scrupolo «moderno» di Wagner torna invece tutto in una considerazione di JANACEK, cui la combinazione colla danza pare per certi versi – come a chi non intese cedere incondizionatamente al walzer – toglier fiato alla musica strumentale: «I ritmi sono mobili come è mobile la nostra coscienza. La misura del tempo è il lavoro d’un angolo della nostra coscienza, che alla luce di questa va spiegato. Ma tali schemi s’irrigidiscono e s’induriscono quanto più diventiamo macchine di misurazione, metronomi, e quanto più pervengono per sottrazione ad un suono acusticamente liscio, in musica. […] L’anima creatrice s’oppone ad ambedue le cose. Già Beethoven nelle sue ultime sonate si è scrollato di dosso il meccanicismo, la rigida catena delle battute» (F. PULCINI, Janacek. Vita, opere, scritti, Passigli, Firenze 1993, p. 306).
[136] P. BEKKER, Ariadne auf Naxos. Uraufführung im Stuttgarter Hoftheater am 25. Oktober 1912, in Kritische Zeitbilder, Schuster & Loeffler, Berlin 1921, pp. 91-98, qui p. 91.
[137] Probabilmente esisteva una tradizione scaligera: mi assicurano che Roberto Benaglio faceva così ed ho sempre sentito il coro superare l’orchestra e le pause nella pratica del grandissimo Romano Gandolfi, maestro del coro alla Scala dal 1971 all’ ’83 e poi, fino al 2006, del coro dell’orchestra Verdi residente all’auditorium milanese di via San Gottardo. Qualcosa di simile mi capitò colla Grande di Schubert: nella sinfonia, come sanno tutti, la coppia dei corni da soli espone la prima frase con l’effetto un poco insolito d’un’autentica introduzione; ci volle il genio di Giulini la sera del 4 gennaio 1992, una sera più bella delle altre nel romano auditorio Pio al no. 1 di via della Conciliazione, per farci sentire nell’ultima misura della sinfonia il suono del corno durare e svanire naturalmente nel silenzio dell’orchestra dopo l’ultimo accordo! Nessun altro direttore avrebbe avuto il coraggio di farlo, per la sciocca fedeltà del fariseo alla partitura, e avrebbe perso la splendida glossa che Schumann dedica proprio alla Grande nel suo celebre saggio fornendo l’ottimo commento all’invenzione di Dominiddio (così D’Amico chiamava il nostro direttore): «è una sorta di romanzo che non può mai finire, e proprio per la migliore ragione di questo mondo: lasciare al lettore la possibilità di continuare a creare qualcosa dopo l’ultima pagina [hinterher nachschaffen zu lassen]» (Die C Dur-Symphonie von Franz Scubert, in Ges. Schr. über Musik und Musiker, Wigand, Leipzig 1854, III, pp. 1905-203).
[138] H. VON WOLZOGEN, Thematische Leitfaden durch die Musik zu Richard Wagners Der Ring des Nibelungen, Schloemp, Leipzig 1876, p. 116. È del tutto lecito chiedersi perché sia caduto dal libretto un «poema» destinato a diventare oggetto di culto da parte di chi ha studiato la Götterdämmerung (Lavignac, Bekker, et cet.) e continua a citarlo come se lo trovasse nella versione definitiva. Credo che l’invito di Brunhilde apparisse troppo estroverso agli occhi di Wagner, saldamente intenzionato a non dire una cosa due volte (colle parole e colla musica) e soprattutto convinto che cose vere vanno dette sostanzialmente colla musica. Questo aveva scritto con insuperabile fermezza nel 1857 nell’esordio del saggio fondamentale sui poemi sinfonici di Liszt per giustificare il suo essere così a lungo rimasto in silenzio: «Devo confessarvi che il silenzio in me è anche in certa misura una questione di coscienza, determinato dalla convinzione sempre più profonda che il contenuto più essenziale e caratteristico delle nostre opinioni finisce col risultare incomunicabile proprio nella misura in cui esse guadagnano spessore ed ampiezza e si sottraggono in tal modo al linguaggio. Come non ammettere che il linguaggio non ci appartiene e ci viene anzi dato già pronto dall’esterno per permetterci d’entrare in rapporto con un mondo in grado di comprenderci solo nella misura in cui ci poniamo sul terreno dei puri e semplici bisogni vitali?» (Über Franz Liszt’s symphonische Dichtungen, in Ges. Schr. und Dicht., V, Fritzsch, Leipzig 1898, pp. 182-198, qui p. 183); un inizio enfatico e solenne su temi lacaniani – compreso l’accenno al «Bedürfniß» se si può contrapporre all’inattingibilità linguistica del desiderio – verso un «manque» alla Ruwet che Wagner, per mestiere, era impegnato a colmare impiegando la musica e la parola ad un tempo. Il tema è poi meglio miracolosamente condensato in uno slogan destinato a frettolose incomprensioni: il celeberrimo «sonoro silenzio» (entrato vergognosamente nella Umgangsprache politica come beffardo ossimòro). «Il poeta – scrive in Oper und Drama – può sperare di realizzare la sua intenzione solo a partire dal momento in cui la tace e la tiene segreta dentro di sé, quasi non volesse più esprimerla in una lingua in cui può solo essere comunicata come puro e semplice oggetto d’intendimento. La sua opera, seria e vittoriosa, comincia solo quando può parlare in una nuova lingua seria e vittoriosa nella quale in modo davvero convincente annunziare finalmente il contenuto profondo di quella sua intenzione, cioè da quando inizia l’opera d’arte, dal primo ingresso del dramma» (Oper und Drama, II, Das Schauspiel und das Wesen der dramatische Dichtkunst, cap. VI, in Ges. Schr. und Dicht., IV, Fritzsch, Leipzig 1898, p. 100); e continua poco più avanti: «In verità la grandezza del poeta si misura proprio nella misura in cui egli tace perché l’indicibile possa parlarci col suo stesso tacere: è allora il compositore che porta a risuonare luminosamente questo tacere e la forma infallibile del suo sonoro silenzio [laut erklingenden schweigens] si chiama melodia infinita»; riprende brevemente il tema qualche anno appresso: «“colla melodia – seguita il poeta – puoi dire allora ciò che io taccio, perché solo tu puoi dirlo, ed io tacendo dirò tutto perché ti porto per mano”. In verità la grandezza del poeta si misura etc.» (Zukunftsmusik, 1860, in Ges. Schr. und Dicht., VII, Fritzsch, Leipzig 1898, pp. 129 sg.). In realtà il «sonoro silenzio» sembra indicare semplicemente la massima capacità d’espressione [laut erklingendes] proprio nel momento in cui alla musica vengon meno le parole [Schweigens], a tacere quindi sembra essere propriamente – e com’è intuitivamente ovvio! – il linguaggio e non la musica. È quello che Wagner aveva definito il «tönende Schweigen»: «Torno ora al Tristano: così in quelle note quando verranno verso di te parlerà al posto mio l’arte profonda d’un sonoro silenzio» (in una lettera del 12 ottobre 1858 a Matilde Wesendonk, in Richard Wagner an Mathilde Wesendonk. Tagebuchblätter und Briefe 1853-1871, Duncker, Berlin 1904, p. 68) cioè, ancora una volta non è lui a parlare solo perché le parole cedono il posto alla musica, la quale però si fa avanti e non ammutolisce; a Matilde scrisse ancora il 29 ottobre del ’59 nella lettera celebre sull’arte della transizione: «Dai miei libri tirai giù ieri il mio adorato Schiller. Lessi la storia della vergine d’Orléans ed ero talmente in preda alla musica che, non potei fare a meno di riempire di note il silenzio di Giovanna che tace quando viene pubblicamente accusata: la sua colpa, ecco il vero miracolo» (ivi, p. 193). Di questo silenzio del testo Wagner si serve costantemente ogni volta che deve spiegare situazioni tanto profonde da riuscire precluse alla parola e votate all’orchestra: un esempio su tutte la lunga pantomima in cui alla fine della Walkiria Brunhilde, che il padre ha appena baciato, cade ad occhi chiusi teneramente spossata nelle sue braccia.
[139] Ivi, p. 98.
[140] PESTELLI, L’anello cit., p. 262; il tema è splendidamente analizzato per i cenni armonici da W. J. DARCY, The Metaphysics of Annihilation: Wagner, Schopenhauer, and the Ending of the «Ring», in «Music Theory Spectrum», XVI (1994), pp. 1-40, qui pp. 7-10.
[141] R. WAGNER, Über die Ouvertüre (1841), in Ges. Schr. und Dicht., I, Fritzsch, Leipzig 1897, pp. 202 sg.
[142] Vedi supra, par. VIII.
[143] F. MALLET, Il suono lontano. Conversazione con Gacinto Scelsi, in: Giacinto Scelsi Viaggio al centro del suono, a cura di P. A. Castanete e N. Cisternino, La Spezia, Luna Ed., 2001; il corsivo è mio.
[144] L. MARTINIS, «Le bon carillon des cloches», in «I suoni, le onde», XIX-XX (2007-08), p. 24.
[145] NIETZSCHE, Menschliches, Allzumenschliches, II, Der Wanderer und sein Schatten, no. 168. Il cenno al melodramma italiano è al tempo stesso entusiasmante e scontato: Teddy bambino avrà ascoltato il suggestivo melisma dalla bocca della madre, il soprano Maria Calvelli Adorno della Piana, e per ciascuno di noi nulla quanto il minuscolo «sipario» in Trovatore II 1 – il gruppetto ed una sesta minore – poteva meglio introdurre il racconto malinconico di Azucena Stride la vampa o introdurre nella Norma il Casta diva che inargenti. Quando una figura del genere si canta si pensa immediatamente a Bellini.
[146] R. WAGNER, Dirigiren cit., pp. 268 sg.
[147] Non possiamo trascurare un aneddoto che ci viene raccontato da Anita Colombo a proposito del passo in questione della quinta sinfonia, testimonianza piccante perché scredita per l’ennesima volta la mitizzata Meisterschaft del maestro: «Mi ricordo di questa frase di Toscanini molti anni fa, quando provò la Quinta sinfonia di Beethoven al Conservatorio, la cadenzina dell’oboe nel primo tempo. L’oboe era Leandro Serafin. Toscanini mi disse: “L’ha fatta tutta diversa da come la farei io, ma l’ha fatta così bene che ha ragione lui!” e aggiunse “Perché in musica non c’è niente di assoluto”. Si legge alle pp. 270 sg, della Lezione di Toscanini, atti del convegno fiorentino del 1967 (Vallecchi, Firenze 1970); fu una «lezione» attorno alla quale i posteri e perfino i contemporanei s’accapigliavano, sorgendo quasi spontaneo il partitico schieramento a vantaggio del direttore italiano o del grande Furtwängler (come trovo ben dimostrato nel contributo di Hermann Danuser sulla Werktreue, la «fedeltà» più o meno garantita dall’interprete all’opera, e la scontata «fedeltà»: Werktreue und Texttreue in der musikalischen Interpretation, in Europäische Musikgeschichte, Bärenreiter-Metzler, cap. XXVII, pp. 1115-1165, qui pp. 1155-1160); per chi abbia un poco di pratica dei dischi di Toscanini – documento ristretto e limitato per natura, dicono i saccenti, ma l’unico che sia ancora a nostra disposizione – ci vuol poco ad immaginare che rispetto al tempo del maestro, rigido e terrorizzato da qualsivoglia espressione romantica, l’onesto Serafin abbia allargato a piacere restituendo a quella battuta tutto il peso ed il significato che Wagner – dicesi: Wagner – le attribuiva.
[148] Gluck’s Ouvertüre zu «Iphigenia in Aulis» (1854), Ges. Schr. und Dicht.,V, Fritzsch, Leipzig 1898, p. 115.
[149] C. Ph. E. BACH, Versuch über die wahre Art das Klavier zu spielen, Henning, Berlin 1753, II, §7, p. 86.
[150] Per cui vedi supra, in questo stesso paragrafo.
[151] Così nel dettagliato e corretto http://www.phinnweb.org/links/cinema/directors/antonioni/zabriskie/; che riporta il parere di Don Hall, coordinatore ufficiale della colonna sonora: «Alla fine del film la musica quando commenta l’esplosione ha un buon effetto. Poi all’improvviso un fermo immagine: che diavolo succede? Il ronzio se ne va. A me Orbison piace, ma, Dio santo, quella è una canzone orribile».
luglio 8, 2019 Musica, cinema, arte, Teoria e letteratura 0 Leggi tutto >