DIEGO PELLIZZARI – WALTER PATER, “APOLLO IN PICARDY” (1893)
[Diego Pellizzari è attaché de recherche all’università Grenoble-Alpes. Dopo una laurea in lettere classiche alla Scuola Normale Superiore, i suoi interessi si sono principalmente concentrati sulle letterature comparate e lo studio della ricezione dell’antico nella cultura europea. Il suo libro L’esilio e il ritorno degli dèi pagani nei racconti dell’Ottocento, di cui proponiamo un capitolo, ha vinto il Premio Opera Critica 2015 dell’Associazione di Letterature Comparate Sigismondo Malatesta. Le sue ricerche attuali riguardano l’uso del nudo in letteratura e le riprese del classico in Curzio Malaparte.]
I saw Eternity the other night,
like a great Ring of pure and endless light,
all calm, as it was bright.
H. Vaugham, The World
Walter Horatio Pater (1839-1894), il più raffinato e significativo teorico dell’estetismo inglese, si distingue dagli altri autori esaminati finora per la sua doppia attitudine di accademico e scrittore, una polivalenza che si riflette nel suo stile costituzionalmente intermedio tra la saggistica e la narrativa. Il fatto di essere un sensibile studioso del mondo antico ha messo Pater in condizione di interpretare il tema del ritorno degli dèi classici con particolare consapevolezza storica e profondità critica, come si riscontra nella notevole complessità e nella densa allusività dei suoi due ritratti immaginari dedicati agli dèi pagani, Denys l’Auxerrois (1886) e Apollo in Picardy (1893), che è bene decifrare attraverso le elaborazioni teoriche dei Greek Studies (1895)[1].
La riflessione sulla Grecia fu sempre centrale nell’avventura intellettuale di Pater. Uno dei suoi primi saggi, Winckelmann, uscito nel 1867 e poi ristampato come ultimo capitolo del libro sul Rinascimento, costituisce di fatto il nucleo letterario e ideologico da cui prende avvio il suo pensiero estetico[2]. Il Winckelmann di Pater è l’uomo che, venuto in contatto con scarsi frammenti di scultura greca nell’oscuro cuore della Germania, intuisce attraverso quei rimasugli un superiore modello di bellezza ed esistenza e dedica entusiasticamente e integralmente la propria vita a ricercare, comprendere e rivivificare quel modello; l’uomo che percorre il tempo all’indietro mettendo in crisi l’idea di progresso, che scende alla conquista del sud e opera una conversione «al contrario», dal cristianesimo al paganesimo – «“There had been known before him”, says Madame de Stäel, “learned men who might be consulted like books: but no one had, if I may say so, made himself a pagan for the purpose of penetrating antiquity”»[3]. L’uomo che insomma sta a testimoniare con la sua vita «the authority of the Hellenic tradition, its fitness to satisfy some vital requirement of the intellect»[4], e la cui tensione verso l’antico deve essere intesa come un processo di recupero: nel suo entusiasmo sembra esserci «rather a wistful sense of something lost to be regained, than the desire of discovering anything new»[5].
Winckelmann costituisce un modello di riferimento anche per la congiuntura storico-culturale che si trova a interpretare: l’avvio di un nuovo classicismo. Pater lo include nel libro sul Rinascimento proprio perché lo considera l’ultimo esponente di un movimento che in senso specifico si colloca nel Quattrocento e nel Cinquecento italiani, ma in senso lato costituisce un evento ciclico della cultura europea. Come ho accennato a proposito di Vernon Lee, Pater e gli altri esponenti dell’estetismo inglese guardavano volentieri all’antichità attraverso il filtro del Rinascimento italiano come in uno specchio che li aiutasse a elaborare e definire la loro analoga manovra di riscoperta e riappropriazione dei classici. L’estetismo può infatti a buon diritto essere considerato un classicismo, un classicismo progressista e antiaccademico che si costruisce e definisce in opposizione al classicismo istituzionale vittoriano, e che crea uno spazio in cui ripensare l’intera relazione tra arte, vita e individuo. Prendendo a modello l’antica Grecia, questo classicismo progressista ricostruisce la sfera etica sulla base di quella estetica, ricerca un modello individualista di self-improvement, propugna come valori cruciali libertà, edonismo e armonia tra natura e cultura, colloca in posizione privilegiata abitudini sociali sentite eccentriche come il desiderio omoerotico maschile[6].
Il Winckelmann di Pater, esteta ante litteram che avvia tutto questo e che trova in Goethe il pieno adempimento dei suoi princìpi, è però anche una figura limitata, poiché non riesce a scorgere, oltre la nobile semplicità e la quieta grandezza della statuaria greca, il lato oscuro e conflittuale della cultura antica, quella «pagan sadness»[7] o «romantic temper»[8] che Pater pone alla base di ogni sentimento religioso. L’influenza di studiosi quali F. Creuzer, K. O. Müller, G. Grote, E. Renan, R. W. Mackay munisce Pater di una particolare sensibilità nei confronti degli aspetti primitivi e violenti dei rituali antichi, della distanza tra le alte realizzazioni artistiche e i culti e le credenze spesso demoniche e barbariche del popolo[9]. Sempre sensibile alle sopravvivenze e alle analogie che si ritrovano da uno strato culturale all’altro, Pater non oppone in modo netto paganesimo e cristianesimo (così come Medioevo e Rinascimento), ma ricerca gli aspetti di continuità e somiglianza tra i culti e le figure delle due religioni. Il Dioniso convertito e sofferente di Denys l’Auxerrois è leggibile, sulla base del corrispondente studio sul mito dionisiaco che apre i Greek Studies («A Study of Dionysus», 1876), come una prefigurazione di Cristo e della vittoria attraverso la sofferenza – una suggestione che già in età tardoantica si era ampiamente affermata –, mentre in «The Myth of Demeter and Persephone» (1875) la figura della dea madre che soffre per la perdita della figlia rapita da Ade e trattenuta a forza nell’oltretomba è accostata alla Madonna Addolorata, la Mater Dolorosa della devozione medievale[10].
Tanto l’esplorazione degli aspetti conflittuali e «romantici» quanto la tensione sincretistica propugnate da Pater trovano piena espressione sul piano letterario mediante la tematica degli dèi in esilio. Una prima anticipazione si trova proprio in «Winckelmann», al termine della digressione sul dark side del mondo greco, attraverso una rielaborazione in tinte heiniane delle luminose caratteristiche statuarie esaltate dall’archeologo tedesco:
Even their still minds are troubled with thoughts of a limit to duration, of inevitabile decay, of dispossession. Again, the supreme and colourless abstraction of those divine forms, which is the secret of their repose, is also a premonition of the fleshless consumptive refinements of the pale mediaeval artists. That high indifference to the outward, that impassivity, has already a touch of the corpse in it; we see already Angelico and the «Master of the Passion» in the artistic future. The crushing of the sensuous, the shutting of the door upon it, the flesh-outstripping interest, is already traceable. Those abstracted gods, «ready to melt out their essence fine into the winds» who can fold up their flesh as a garment, and remain themselves, seem already to feel that bleak air in which, like Helen of Troy herself, they wander as the specters of the middle age[11].
La storia di Apollo in Picardy trova anch’essa un preludio in uno scritto che, nell’economia del pensiero pateriano, non potrebbe essere più significativo: il saggio su Pico della Mirandola (1871, divenuto poi il secondo capitolo degli Studies), personaggio che incarna per Pater il sogno della riconciliazione tra paganesimo e cristianesimo, della sintesi tra ebraismo ed ellenismo[12]. In questo caso l’influenza di Heine è dichiarata: Pater traduce uno stralcio dai Götter im Exil che si conclude con la storia di Apollo nel Medioevo, perseguitato dal tribunale ecclesiastico; una storia che per i suoi tocchi lievemente morbosi – una delicata figura maschile torturata, la malia musicale, lo struggimento criptoerotico –, come anche per la contaminazione tra immaginario gotico e classico, dovette indubbiamente colpire la fantasia di Pater:
Apollo seems to have been content to take service under graziers, and as he had once kept the cows of Admetus, so he lived now as a shepherd in Lower Austria. Here however, having become suspected on account of his beautiful singing, he was recognized by a learned monk as one of the old pagan gods, and handed over to the spiritual tribunal. On the rack he confessed that he was the god Apollo; and before his execution he begged that he might be suffered to play once more upon the lyre and to sing a song. And he played so touchingly, and sung with such a magic, and was withal so beautiful in form and feature, that all the women wept, and many of them were so deeply impressed that they shortly afterwards fell sick. And some time afterwards the people wished to drag him from the grave again, that a stake might be driven through his body, in the belief that he had been a vampire, and that the sick women would by this means recover. But they found the grave empty[13].
Ripeto, non mi pare un caso che il tema degli dèi in esilio faccia capolino in questo capitolo, e molto più che il racconto di Apollo, è la figura stessa di Pico della Mirandola ad anticipare le problematiche che Pater legherà agli dèi revenant nei due ritratti. Infatti attraverso la sua avventura spirituale – tutti gli eroi pateriani sono avventurieri del pensiero alla ricerca di senso, completezza e armonia –, è Pico stesso ad anticipare la tensione sincretistica di Denys e Apollyon – «Pico, thus lying down to rest in the Dominican habit, yet amid thoughts of the older gods, himself like a one of those comely divinities, reconciled indeed to the new religion, but still with a tenderness for the earlier life…»[14] – e a diventare contemporaneamente proiezione dello stesso Pater – «…and desirous literally to “bind the ages each to each by natural piety”»[15]. Il sogno pateriano di una coscienza onnicomprensiva in grado di contenere e conciliare tutte le esperienze dell’umanità troverà espressione canonica nella celebre rapsodia su Monna Lisa, una figura imparentata anch’essa, alla lontana, con gli dèi in esilio[16].
Nell’interpretazione di Pater, la conciliazione delle varie tradizioni culturali e religiose non è riuscita a Pico: la concezione antropocentrica del cosmo e lo schiacciamento sincronico della cultura intrinseche all’episteme rinascimentale lo hanno condotto a una sintesi illusoria, e spettava al metodo scientifico e al senso storico ottocenteschi adempiere ciò che egli aveva progettato. La conciliazione possibile per lo studioso moderno è però infinitamente più povera rispetto alle grandiose e ottimistiche certezze di Pico (l’uomo come nodus et vinculum mundi, la conoscibilità del reale, il senso di un essere immutabile e accessibile, di una verità intrinseca a tutte le filosofie): lo studioso contemporaneo deve accontentarsi di apprezzare i prodotti della mente umana come stadi successivi di uno sviluppo spirituale, fantasie e narrazioni collettive, vasti sistemi di orientamento e di interpretazione che si accostano e si succedono nel tempo:
The basis of the reconciliation of the religions of the world would thus be the inexhaustible activity and creativeness of the human mind itself, in which all religions alike have their root, and in which all alike are laid to rest; just as the fancies of childhood and the thoughts of old age meet and are reconciled in the experience of an individual[17].
L’analogia tra sviluppo psichico individuale e sviluppo storico collettivo torna qui in una veste sintetica che concentra idealmente nell’adulto l’esperienza e la convivenza di tutti gli strati della vita e della storia.
Proprio la dialettica tra questi strati e la tensione inesausta verso una sintesi inattingibile sono presentate, col focus sul loro aspetto conflittuale e irriducibile, nei due ritratti pagani. In entrambi la cornice di riferimento per l’ambientazione è quel prerinascimento francese, a cavallo tra dodicesimo e tredicesimo secolo, esplorato in «Aucassine e Nicolette», – «a Renaissance within the limits of the middle age itself, a brilliant but in part abortive effort to do for human life and the human mind what was afterwards done in the fifteenth»[18]. In Denys l’Auxerrois il ritorno di Dioniso in una comunità cittadina avvia un processo rinascimentale che viene letto e intensificato attraverso il mito dell’età dell’oro: dal ringiovanimento degli anziani all’eccezionale feracità della natura, dallo spirito di ribellione che attacca il vecchio ordine feudale all’esplosione di gaiezza generalizzata, fino alle profonde trasformazioni artistiche del gotico verso una sintesi e un equilibrio classici, il misterioso personaggio fa esplodere fermenti di liberazione nell’apparente promessa di un rinnovamento radicale, salvo poi rivelare, col sopraggiungere dell’inverno, il suo lato malinconico e oscuro[19]. In Apollo in Picardy abbiamo gli stessi ingredienti, ma la vicenda è per così dire ristretta e focalizzata su un individuo umano e la sua avventura spirituale, secondo lo schema prediletto da Pater. Qui il dio non ritorna, perché è sempre stato là, là fuori, nelle valli irredente della Piccardia, ed è un uomo ad uscire dal chiuso del suo ambiente quotidiano e a incamminarsi verso di lui, a «fare ritorno» in uno spazio regolato, almeno in parte, da norme più antiche. Sebbene dunque i due ritratti siano strutturalmente e ideologicamente simmetrici, nella nostra tipologia Denys andrebbe letto in linea con Heine e Lee, mentre Apollo si lascia meglio interpretare, mutatis mutandis, attraverso il filtro del Venusberg.
Dopo un’introduzione che tratteggia i contorni elusivi di Apollo Iperboreo, una sorta di doppio nordico del più noto dio solare, il narratore passa a descrivere il bizzarro contenuto dell’ultimo volume di un trattato di musica e astronomia reperito in un’antica biblioteca monastica: dopo undici volumi di rigorosissimo metodo matematico, nel dodicesimo diagrammi e sillogismi lasciano il posto a una sorta di delirio di linee, colori, disegni e capricci pittorici.
Viene così narrata la storia dell’autore del trattato, il priore Saint-Jean, un compassato e mansueto studioso che non ha mai messo piede fuori dal monastero in cui è cresciuto e che nutre un’istintiva diffidenza per quegli spazi aperti della Piccardia e della Normandia, visibili dalla sua torre, nei quali gli antichi pagani avevano venerato i demoni della natura e praticato la stregoneria. Un giorno però Saint-Jean viene inviato dal suo superiore proprio in una di quelle valli, in una proprietà rurale del monastero, a vantaggio della salute malferma. Il priore parte, dopo un sogno inquietante, portando con sé il novizio Giacinto.
La permanenza nella valle procura immediati e benefici effetti. La disciplina monastica si allenta fin quasi a perdersi, la salute fisica di Saint-Jean migliora e la sua mente si fa più pronta ed elastica, in una sorta di ringiovanimento. Sia lui che Giacinto per la prima volta assaporano una vita da ragazzi, libera e spensierata, e godono di una specie di dolce musica che sembra ovunque diffusa. Il priore si domanda se la magia che promana dalla valle possa nascondere una qualche malvagità, e una certa ambivalenza caratterizza i suoi sentimenti verso un silenzioso mandriano che lavora come servo nella casa: frate Apollyon. La nobile e seducente bellezza di questo giovane lo mette a disagio, e il suo aspetto da straniero, gli oggetti preziosi che possiede – una lira e un arco, entrambi d’argento – e alcune circostanze in odore di soprannaturale che lo circondano, suscitano sospetti.
Apollyon accompagna con la sua musica i lavori di alcuni operai che sotto la guida di Saint-Jean stanno completando un monumentale granaio per il monastero. Non solo rende il lavoro magicamente rapido e quasi privo di fatica, ma influenza anche la maniera artistica degli esecutori: il carattere gotico si stempera in favore di una certa armonia classica, la struttura acquisisce leggerezza e grazia.
I benefici influssi di frate Apollyon non escludono però aspetti inquietanti e oscuri: egli sa curare le malattie con abilità, eppure è stato visto diffondere i semi della pestilenza; conosce riti di purificazione, ma lui stesso ne ha bisogno più di altri, essendo un ladro e un omicida latitante; è capace di attirare gli animali selvatici e sa mescolarsi ai loro giochi, eppure mostra una disinvolta crudeltà nei loro confronti; accudisce le sue pecore in un modo straordinario, ma in una sola notte compie un massacro di colombi nella piccionaia dei monaci.
Afflitto per il suo stesso comportamento e colto dal desiderio di espiazione, Apollyon partecipa ai riti della Natività: sente messa, tocca l’acqua santa, intona con la sua lira il Gloria in Excelsis; rimette al suo posto un’antica campana fuori uso, adorna l’altare della chiesa con alloro e fiori di inedito splendore, mette da parte le sue pelli maculate e striate per indossare l’abito logoro del penitente. Il popolo e i monaci, come al solito, reagiscono con imbarazzo: da una parte sospettano qualche diavoleria, dall’altra non sanno sottrarsi al fascino del giovane.
Gli studi del priore, a lungo trascurati, riprendono: il suo trattato di matematica deve essere completato. Apollyon decide di assistere con umiltà ai lavori di Saint-Jean e Giacinto, e anche in questa occasione i suoi prodigi non tardano a manifestarsi: mostra di conoscere alla perfezione il greco dei manoscritti faticosamente consultati dal priore e la sua memoria sembra sconfinata. Sotto il suo influsso, le teorie astratte sembrano dissolversi mentre Saint-Jean comincia a percepire sensibilmente i suoi oggetti di studio, le stelle e il loro moto, la musica dei pianeti. Nel tentativo disperato di fissare sulla pagina le sue ineffabili visioni, il priore scivola in una sorta di trance, di estatica follia. Quando Apollyon uccide accidentalmente Giacinto durante un gioco pericoloso protratto sino a notte fonda – il lancio di un disco di metallo emerso da una fossa – la responsabilità della tragedia finisce per ricadere sul priore. Processato e segregato, ridiventato semplice frate, Saint-Jean passa le ore fissando dalla finestra l’orizzonte, il cui azzurro gli ricorda sia ai fiori nati dal sangue di Giacinto, sia la veste della Vergine. Si spegne struggendosi nel vano desiderio di tornare in Piccardia.
La narrazione vera e propria è preceduta da un doppio preambolo. Il primo, in stile manualistico – la forma più semplice e netta di contaminazione tra scrittura saggistica e letteraria – fornisce la chiave di lettura del racconto, giocando a trasformare in un capitolo di storia delle religioni la fantasticheria spettrale che abbiamo letto in «Winckelmann»: viene così tracciata una linea di continuità tra l’esule divino immaginato da Heine e la figura attestata nella letteratura greca di Apollo Iperboreo, per Pater senza dubbio «romantica»[20]. La molteplicità delle storie su Apollo viene conflata nell’ambiguità caratteriale di un’unica figura postclassica, un dio nordico che costituisce una sorta di doppio, malinconico e oscuro, dell’Apollo solare e che, a causa dell’ostracismo inflittogli dalla religione cristiana, può talvolta sfogare il suo rancore sugli uomini e invertire il suo influsso benefico. «For his favours, his fallacious good-humour, which has in truth a touch of malign magic about it, he makes men pay sometimes a terrible price, and is in fact a devil!»[21], informa il trattato introducendo subito l’ormai familiare interpretatio cristiana, che funge anche da cerniera per passare al secondo preambolo. «Devilry, devil’s work» («Diavoleria, opera diabolica): così viene interpretato infatti il bizzarro ultimo volume del manoscritto di Saint-Jean, «a solecism» impossibile anche da rilegare, visto che le pagine sono tutte di formato diverso.
And whereas in the earlier volumes you found by way of illustration no more than the simplest indispensable diagrams, the scribe’s hand had strayed here into mazy borders, long spaces of hieroglyph, and as it were veritable pictures of the theoretic elements of his subject. Soft wintry auroras seemed to play behind whole pages of crabbed textual writing, line and figure bending, breathing, flaming, in, to lovely “arrangements” that were like music made visible; till writing and writer changed suddenly, to one thing constant never, after the known manner of madmen in such work[22].
Un primo modo in cui il perturbante agisce in questo racconto riguarda proprio l’aspetto dell’incomprensibile volume (che a tratti arriva ad anticipare motivi dell’immaginario surrealista: «winged flowers or stars with human limbs and faces…»[23], nonché le circostanze misteriose che hanno condotto alla follia «a cold and very reasonable spirit»[24]. Il manoscritto si attira tutta l’ambivalenza del narratore: da una parte è l’eccezionale prodotto di un’improvvisa illuminazione e sembra aprire la strada ad argomenti di una specie completamente nuova, dall’altra è una delirante maledizione che ha distrutto il suo autore[25].
La narrazione vera e propria, intesa a far luce sul mistero, prende avvio attraverso la polarità chiuso/aperto. Si definiscono due spazi, dei quali quello pertinente a Saint-Jean è doppiamente determinato dalla marca della chiusura: «The structure of a fortified medieval town barred in those who belonged to it very effectively. High monastic walls intrenched the monks still further»[26]. Una specie di riserva cristiana rispetto al quale le valli della Piccardia e della Normandia sono percepite nei termini minacciosi di una selvatichezza irredenta e di un paganesimo la cui eco demoniaca ancora persiste: una suscettibilità tipicamente medievale che si estende all’ambito della poesia contro i versi sensuali di Ovidio – «Abode of demons». Se la percorribilità dello spazio orizzontale è volontariamente rifiutata, è nella verticalità della torre da cui guarda e studia le stelle attraverso la rassicurante astrattezza della mediazione matematica che Saint-Jean si muove a suo agio, un terzo ulteriore livello di segregazione per cui il mondo viene contemplato da lontano, senza un reale contatto[27], eppure uno spazio che nella sua sublime protensione verso l’alto tradisce l’aspirazione a un sapere dai più vasti orizzonti possibili.
Una prima comparsa dell’antagonismo tra represso e repressione si articola così proprio intorno all’opposizione chiuso/aperto: i prodotti e i profumi che provengono dalle valli lontane ispirano un malcelato desiderio di uscire ad esplorarle, e quando giunge un preciso ordine dal superiore, è alla figura censoria di un frate amico, erede delle funzioni del fido Eckart, che viene delegato il compito di demonizzare un simbolo apollineo percepito da Saint-Jean come «harmless, beautiful», un cerchietto di fuoco sospeso sull’orizzonte che prelude all’incontro col dio, interpretato dall’istanza repressiva come «hell-fire».
L’uscita dal luogo chiuso del monastero e l’ingresso notturno nel luogo aperto isomorfico al Venusberg – la vallis monachorum dove si trova la fattoria – è un’esperienza sensoriale segnata dalla percezione di elementi che anticipano l’influenza del suo genius loci: una sorta di luce nell’oscurità – la «summer-in-winter» iperborea – e una modulazione di rumori e luci in una sorta di armonia musicale[28]. La valle, paragonata all’isola incantata di Prospero, pur integrata nell’ampio respiro della natura circostante, è descritta come un luogo separato e delimitato, dai margini ripidi e dalla base profonda, «as of an immense oval cup sunken in the grassy upland»[29]. La stessa notte dell’ingresso nella valle, Saint-Jean ha l’occasione inaspettata d’imbattersi nell’ospite divino:
A flood of moonlight now fell through the unshuttered dormer-windows; and, under the glow of a lamp hanging from the low rafters, Prior Saint-Jean seemed to be looking for the first time on the human form, on the old Adam fresh from his Maker’s hand. A servant of the house, or farm-labourer, perhaps! – fallen asleep there by chance on the fleeces heaped like golden stuff high in all the corners of the place. A serf! But what unserflike ease, how lordly, or godlike rather, in the posture! Could one fancy a single curve bettered in the rich, warm, white limbs; in the haughty features of the face, with the golden hair, tied in a mystic knot, fallen down across the inspired brow? And yet what gentle sweetness also in the natural movement of the bosom, the throat, the lips, of the sleeper! Could that be diabolical, and really spotted with unseen evil, which was so spotless to the eye?[30]
La visio dei è modellata sul mito di Endimione visitato da Diana, e nello stesso tempo il dettaglio della lampada richiama la storia di Amore e Psiche. In entrambi i casi la connotazione che si ricava per via intertestuale è erotica, così come latentemente erotizzata è la descrizione morbida e attenta del corpo nudo di Apollo. La divinità di questo Venusberg non è Venere, eppure il desiderio scorre sotterraneo, nella fattispecie il desiderio omoerotico maschile, ed esso, soprattutto nel rapporto tra Apollo e Giacinto, va ad arricchire di una componente cruciale lo spettro valoriale del ritorno del represso[31].
Se sono dei riferimenti mitologici a codificare «l’epifania passiva» del dio, la sua figura è invece mediata attraverso la statuaria: il «mystic knot» dei capelli rimanda senza dubbio alla scultura principe del classicismo winckelmaniano, l’Apollo del Belvedere[32] (anche se la posizione del dio potrebbe piuttosto evocare l’Ermafrodito del Louvre). Il riferimento a questa scultura, se da una parte evoca il massimo della bellezza e della maestà divine, dall’altra si lega alla tavolozza heiniana che in «Winckelmann» aveva traslato le caratteristiche statuarie nell’orbita dello spettrale; peraltro nel ritratto la ripresa delle tinte cadaveriche è lievissima, perché in concorrenza con la bellezza di Apollo, che il testo è maggiormente interessato a sottolineare; così, oltre alla bianchezza esaltata dalla luce lunare – la luna è di per sé un riflettore di luce gotica – sarà più avanti «the mere touch of that ice-cold hand» a impensierire Saint-Jean: «Was there magic in it, not wholly natural? The hand might have been a dead one»[33].
Al di là delle mediazioni classiche, particolarmente interessante è il riferimento ad Adamo per indicare la nudità di Apollo: esso crea una prima sovrapposizione sincretistica, ripetuta da Saint-Jean poche righe dopo a proposito della valle – «a veritable paradise, still unspoiled»[34] – e investita di una parallela, dubbiosa ambivalenza – «”Could there be unnatural magic,” he asked himself again, “any secret evil, lurking in these tranquil vale-sides, in their sweet low pastures, in the belt of scattered woodland above them, in the rills of pure water which lisped from the open down beyond?”»[35]. È la domanda cruciale di Saint-Jean, portata avanti per tutto il testo senza ottenere una risposta, ed è significativo che sia formulata in questi termini: il priore si chiede spesso se la valle e il suo misterioso guardiano, il nome del quale «came nearest to a malignant one in Scripture»[36], siano demoniaci, ma altrettanto spesso, partendo dal presupposto che lo siano, si chiede invece se i suoi pregiudizi vadano rivisti – quel «wistful sense of something lost to be regained» attribuito a Winckelmann –, se demonizzazione e condanna non siano il frutto di un errore. Ed è la domanda cruciale di Pater, come anche un topos del pensiero occidentale: lo sguardo che fruga nel passato in cerca di un’originarietà incorrotta, di un’Arcadia o un’età dell’oro, soccombe all’inganno di un fenomeno di proiezione idealizzante oppure può davvero trovare qualcosa in grado di restituire all’uomo una felicità ingiustamente perduta? Possibilità di redenzione o inganno demonico?[37]
L’ingresso nella valle, questa terra iperborea medievale pervasa dalla musica apollinea, determina sui suoi ospiti una serie di effetti positivi. La dimensione del tempo è la prima ad essere alterata: la scandita regolarità monastica, il tempo misurato e vincolato a determinati doveri, cede il passo a un tempo libero, fruito a piacere, dedicato ad attività spensierate. Col miracoloso ringiovanimento di Saint-Jean si arriva a sfiorare la reversibilità, e in generale la perdita del controllo sul tempo è simmetrica a una perdità di sé che conduce al ritrovamento di sé. Su Giacinto, che è già un ragazzo, l’influsso della valle si esplica infatti in una sorta di autenticazione della giovinezza – «the boy Hyacinth especially, who forgot himself, or rather found his true self for the first time»; «Hyacinth became really a boy at last, with immense gaiety»[38]. Messa da parte la pesante tonaca monacale, è il corpo, la gioia vitale vissuta attraverso l’espressione fisica, a stare al centro di questo processo di autenticazione, il gioco, l’attività atletica (lotta, corsa), la caccia, tutte attività svolte col suo compagno Apollyon e che rimandano a uno stile di vita da giovane aristocratico greco[39]. L’espressione del corpo si porta dietro, fino a inglobarla, l’espressione dell’anima, che diventa armonico epifenomeno del corpo, secondo un caposaldo dell’estetica winckelmaniana ampiamente recepito e propugnato da Pater. A questo proposito risultano eloquenti alcune pagine dei Greek Studies sul Discobolo di Mirone, indispensabili anche per interpretare l’episodio della morte di Giacinto: allo scultore greco viene assegnata la palma della perfezione nella rappresentazione della gioventù perché seppe esprimere il piacere del libero movimento naturale evitando «to give expression to mind, in any antagonism to, or invasion of, the body; to mind as anything more than a function of the body»[40]. L’anima razionale, anzi, «is for the most part adverse to the proper expression of youth, to the beauty of youth, by causing it to be no longer youthful»[41]. Il Discobolo sarebbe incarnazione «of the unspoiled body of youth, thus delighting itself and others, at that perfect, because unconscious, point of good-fortune, as it moves or rests just for a moment, between the animal and spiritual worlds»[42]. Rispetto alla dicotomia cristiana di anima e corpo, una scissione per di più gravata dalla polarizzazione dei valori positivi proiettati sulla prima, e negativi sul secondo, la concezione greca rappresenta uno dei tesori perduti dallo spirito moderno. Nello stesso tempo, però, quest’anima animale, inconsapevole, epidermica, è sentita da Pater come una sorta di regresso rispetto alla profondità e alla serietà dell’anima cristiana, un primo stadio, arcaico e puerile, nello sviluppo dell’individuo come della civiltà. Il modo in cui Giacinto versa il sangue degli animali, «with a boy’s delight, with a boy’s remorse»[43], ne è un segno, ed è solo un riflesso della crudele innocenza del suo compagno: «Friend Apollyon seemed able to draw the wild animals too, to share their sport, yet not altogether kindly. Tired, surfeited, he destroys them when his game with them is at an end; breaks the toy, deftly snaps asunder the fragile back»[44]. Giacinto è autenticato nella sua giovinezza, ma anche spinto indietro, verso una dimensione spirituale d’incoscienza sentita come regressiva.
Apollyon stesso sembra comprendere le proprie limitazioni. In base a quanto esposto dal preambolo manualistico, il dio alterna ai benefici alcune azioni scellerate, degli improvvisi scoppi d’ira – «a divine or titanic regret, a titanic revolt»[45] – che seminano morte e distruzione. Dopo questi momenti, subentra un desiderio di espiazione che spinge Apollyon a partecipare ai riti cristiani come supplice e penitente, a toccare contrito l’acqua santa e sentire messa, ad addobbare d’alloro l’altare della chiesa e intonare con la sua lira il Gloria in Excelsis[46]. Anche questa geniale trovata di vestire un dio pagano con abiti monacali risale a Heine, come sappiamo, ma nei Götter si trattava di un travestimento, nient’altro che uno scaltro espediente per sottrarsi alla persecuzione, mantenere un certo potere e burlarsi in modo sardonico della religione rivale, senza lasciarsene minimamente scalfire. È invece un’innovazione squisitamente pateriana quella che ci mostra il dio sinceramente pentito e proteso verso il cristianesimo, in un sincretismo che supera d’un balzo le irriducibili opposizioni operative in tutti gli altri racconti analizzati. Apollo tende spontaneamente al sacro – sin dall’inizio porta «una tonsura appena riconoscibile» – e l’unico sacro per lui disponibile è quello cristiano; in alcune sue caratteristiche sembra anticiparlo, come ad esempio nel preludere al simbolo del buon pastore, e per tutto il resto si sforza di entrare nella nuova religione, di aggiornarsi e migliorarsi attraverso un processo di evoluzione. Il dio cerca forse di guadagnarsi un’anima come il Donatello di Hawthorne. E nella sua doppiezza, che ora si complica ulteriormente – Apollo benefico/malefico, Apollo pagano/cristiano – egli rimane oggetto di un investimento emotivo estremamente ambivalente, tanto più che riesce ad avere perfino sul cristianesimo un’azione, per così dire, reattiva e contraria: proprio il cortocircuito sincretistico del buon pastore, se da un lato anticipa un simbolo cristiano, dall’altro rivendica tale simbolo al paganesimo, facendone elemento mediatore di una visione del mondo più arcaica, e dunque medium – tentazione per Saint-Jean – per una conversione al contrario, verso leggi e strati culturali anteriori:
But say, think, what you might against him, the pagan outlaw was worth his hire as a herdsman; seemingly loved his sheep; was an “affectionate shepherd”; cured their diseases; brought them easily to the birth, and if they strayed afar would bring them back tenderly upon his shoulders. Monastic persons would have seen that image many times before. Yet if Apollyon looked like the great carved figure over the low doorway of their place of penitence at home, that could be but an accident, or perhaps a deceit; so closely akin to those soulless creatures did he still seem to the wondering Prior—immersed in, or actually a part of, that irredeemable natural world he had dreaded so greatly ere he came hither[47].
La stessa attrazione retroattiva o paganizzazione di un simbolo cristiano si ritrova nella figura di suonatore d’arpa scolpita su una cuspide del granaio genialmente completato da Saint-Jean grazie all’influenza di Apollo[48]. Ciò nonostante, la tendenza prevalente nel racconto è quella opposta, ed è Apollo, in particolare nella seconda parte del ritratto, che tende verso la cristianizzazione. È perciò significativo che la morte di Giacinto arrivi in un contesto in cui invece prevale di nuovo, nettamente, l’atmosfera pagana, come se il dio avesse rinunciato al suo progetto di conversione, in una sorta di improvviso regresso[49]. Il phònos akoùsios del ritratto riproduce un famoso episodio mitico[50], e lo riproduce nella maniera più pregnante possibile: l’uccisione di Giacinto accade di nuovo, accade nel Medioevo e accade con un nuovo significato. Il rapporto intertestuale con le fonti, in primis quell’Ovidio che Saint-Jean non vuole toccare, ma è costretto a vivere, va inteso non come una semplice relazione genetica, tra modello e riscrittura, ma come la continuazione della storia, il ritorno spiraliforme di uno stesso evento, in condizioni mutate ma con il medesimo protagonista.
La disgrazia si consuma dentro un quadro descrittivo latentemente erotizzato (non serve ricordare che Apollo e Giacinto erano amanti) e in un momento di espressione fisica, corporea e «naturale» massima. L’atmosfera pagana da ginnasio evocata attraverso la nudità e il gioco atletico, nonché la trasparente allusione al Discobolo mironiano, che qui interviene a mediare l’immagine di Apollo, viene però affiancata da una cupa ombra goticizzante, in un suggestivo intreccio contrastivo: sul gioco dei due giovani scende una notte oscura, un vento gelido soffia mentre i rintocchi a morto di una campana accompagnano un funerale[51]. La connotazione demonizzante che grava sul disco di metallo – «their devil’s penny-piece»[52] – si ritorce ironicamente contro il dio, così come il senso nefasto tradizionalmente attribuito al suo nome: una nota stridula che lo rende a un tempo una maledizione e vittima inerme di una maledizione. Con la morte di Giacinto è il sogno di restaurare un intero modello di vita che viene dolorosamente negato. Una naturalità pagana ormai impossibile, e forse non del tutto raccomandabile[53]. L’intriseca inadeguatezza del dio, il suo essere totalmente decontestualizzato, si evidenzia tra l’altro nel suo comportamento dopo l’incidente. Nell’episodio ovidiano – quando Apollo uccise Giacinto una prima volta – un appassionato lamento cullava il corpo del ragazzo, e l’assunzione di responsabilità era un tutt’uno con la promessa d’immortalità sancita con la nascita dei fiori dal suo sangue[54]. Qui invece Apollyon scappa, si sottrae intimorito senza una parola e lascia che la colpa ricada su altri. I fiori nasceranno spontaneamente, e la speranza d’immortalità – solo speranza – si realizzerà nella mente confusa di Saint-Jean ancora una volta sincretisticamente e in favore del cristianesimo, associando il colore blu al manto della Vergine[55].
Tutt’altra avventura è quella che vive il priore Saint-Jean. Su di lui l’influsso apollineo colpisce soprattutto la mente, un processo di illuminazione che va compreso come una riproduzione in miniatura di quel pre-Rinascimento di cui abbiamo parlato sopra. Da un punto di vista storico, il monaco che nel suo scriptorium cerca di avvantaggiarsi della dottrina greca percorrendo faticosamente i manoscritti allude senz’altro a quel momento cruciale per la cultura europea in cui in Occidente si ricominciò a leggere e comprendere la lingua greca. Ciò accadde intorno alla seconda metà del Quattrocento, e dunque Saint-Jean rappresenta un palese anacronismo, nello stile di Pater che volentieri sacrifica l’esattezza storica per creare una determinata atmosfera culturale[56]. L’obiettivo era trasmettere il senso di una cultura rinnovata dalla fecondazione di un’altra cultura, più antica e piena di stimoli – l’impulso ritmico del classicismo – e in effetti quella del ritratto è un’atmosfera ben più che rinascimentale, allorché il priore arriva a comprendere, grazie ad Apollo, l’infondatezza del sistema geocentrico. L’intuizione di un universo infinito ripropone su scala cosmica l’opposizione chiuso/aperto che connota molte valenze del testo, e opera una destabilizzazione del paradigma di realtà medievale che apre le porte ad un altro aspetto del perturbante: lo spaesamento causato dal progresso improvviso, l’angoscia per «l’eccesso di progresso»[57]. Oltre a ciò, la tempesta solare che colpisce Saint-Jean realizza, centuplicato, un dogma dell’estetismo pateriano: quel passaggio da un tipo di conoscenza teoretica e astratta alla percezione sensibile e concreta delle cose – in particolare delle cose belle, tra le quali il kòsmos del cielo è la massima[58] – propugnata nella Preface degli Studies; nello stesso tempo, la dolce follia del priore sembra dar corpo al rischio più forte, alla tentazione più attraente che grava su questo dogma: quel solipsismo contemplativo delineato nella celebre Conclusion.
The hard and abstract laws, or theory of the laws, of music, of the stars, of mechanical structure, in hard and abstract formulae, adding to the abstract austerity of the man, seemed to have deserted him; to be revived in him again however, at the contact of this extraordinary pupil or fellow-inquirer, though in a very different guise or attitude towards himself, as matters no longer to be reasoned upon and understood, but to be seen rather, to be looked at and heard. Did not he see the angle of the earth’s axis with the ecliptic, the deflexions of the stars from their proper orbits with fatal results here below, and the earth – wicked, unscriptural truth! – moving round the sun, and those flashes of the eternal and unorbed light such as bring water, flowers, living things, out of the rocks, the dust? The singing of the planets: he could hear it, and might in time effect its notation. Having seen and heard, he might erelong speak also, truly and with authority, on such matters. Could one but arrest it for one’s self, for final transference to others, on the written or printed page – this beam of insight, or of inspiration![59]
L’esperienza estetico-estatica di Saint-Jean diviene quel fine in sé che Pater assegnava audacemente alla vita stessa, la sua coscienza è trasformata in un ricettacolo di sensazioni inebrianti, «the focus where the greatest number of vital forces unite in their purest energy»[60]. L’ambivalenza affettiva che il testo mobilita nei confronti della trance del priore eredita e riflette tutto il nodo di tensioni irrisolte presenti nel sistema filosofico pateriano. Innanzitutto l’oscillazione tra soggettività fenomenologica in senso kantiano e soggettività del temperamento individuale, solispsistica, un’oscillazione percepibile già confrontando la Preface (fenomenologica) con la Conclusion (solipsistica): Saint-Jean vorrebbe rendere comunicabile agli altri le sue intuizioni, ma si accorge che non può, esse sono incommensurabilmente soggettive, chiuse in «the innermost walls of one’s own miserable brain»[61]. Il passaggio dall’astrattezza della teoria al primato dei sensi e della concretezza, dal canto suo, si realizza di fatto nel piacere di una contemplazione mentale, nella stimolazione della «imaginative reason»[62] a cui l’arte e tutti i fenomeni capaci di attuare una «special impression» si rivolgono: è una sensualità spirituale, un edonismo della psiche[63]. Infine, la contraddizione, ereditata dallo Schiller interprete di Kant, tra la dimensione estetica in quanto regno della libertà, condizione e mezzo di tutte le altre determinazioni che permette all’uomo di procedere dalla bellezza alla moralità, e dimensione estetica come fine in se stessa, esperienza più alta e profonda possibile. La tensione verso la completezza dello sviluppo delle facoltà in Pater si risolve nella completezza autosufficiente della contemplazione[64].
Nell’ambito della conflittualità non ricomposta tra questi elementi tutti interni alle premesse filosofiche pateriane, abbiamo con Saint-Jean una specie di ritorno del represso idiosincratico che valorizza gli aspetti più isolanti e regressivi dell’estetismo. Perché mai Pater abbia legato tutto ciò all’influsso apollineo non è facile da dire. Probabilmente è la musica, costantemente evocata a connotare le visioni del priore così come tutta l’atmosfera della vallis monachorum, che può guidarci verso una risposta, la musica e l’arte in generale che, secondo Pater, nella sua realizzazione perfetta aspira sempre alla forma della musica[65]. Apollo, come dio della natura e della musica, è anche dio dell’armonia cosmica, di quella immensa lira che, secondo un’immagine pitagorica di lunga durata, è l’universo. Forse l’esperienza della percezione individuale nella sua forma più pura è qui intesa anch’essa come tensione verso la forma musicale, immersione così intensa nell’oggetto da far vacillare i confini tra quest’ultimo e il soggetto.
Saint-Jean riesce a comunicare un barlume delle sue visioni interiori solo facendosi, non a caso, artista, abbandonando i diagrammi e i calcoli per lasciar posto a disegni e colori. La «strangeness» del volume è la declinazione squisitamente pateriana del perturbante, quel senso di estraneità di fronte a certe realizzazioni artistiche o a certe personalità fascinose che mettono a contatto col mistero, la distanza, l’alterità geniale[66]. L’unica sintesi possibile tra spirito medievale e influenza pagana ha luogo nell’arte, ed è nell’architettura – «an art, held at its best (as we know) to be a sort of music made visible»[67] – che il priore riesce a dare a questa sintesi una forma compiuta e duratura. Il grande granaio che porta a compimento, che ricorda ora una chiesa sconsacrata ora un tempio antico, viene costruito sotto la diretta influenza musicale del dio, che tiene gli operai sincronizzati, ispirandoli e velocizzandone il lavoro, sul modello del mito di Amfione o della costruzione delle mura di Troia[68].
Nel saggio su Pico si dice espressamente che per quel periodo storico «the only possible reconciliation was an imaginative one», e che «It remained for a later age to conceive the true method of effecting a scientific reconciliation of Christian sentiment with the imagery, the legends, the theories about the world, of pagan poetry and philosophy»[69]. Come abbiamo detto, questo metodo è il metodo storico hegeliano, filtrato e rielaborato dall’empirismo britannico. In Apollo in Picardy Pater si serve del linguaggio letterario, continua a tessere la tela del mito, la via scelta è «an imaginative one», eppure è la concezione della storia derivante da quel metodo che articola la materia narrativa: la dialettica tra gli strati culturali del paganesimo e del cristianesimo, colti nel travaglio di un’aspirazione continua ma inattingibile verso la sintesi. In quanto rappresentanti emblematici dello strato pagano nella sua dirompente capacità di ispirazione, Denys e Apollyon riescono sì a produrre oggettivamente fermenti intellettuali e realizzazioni artistiche di straordinaria pregnanza, ma soggettivamente finiscono il primo per essere ucciso, il secondo per uccidere. Come mitologia per la modernità, i due ritratti mettono in crisi sia l’idea ingenua di un recupero semplice e diretto della vita antica, sia il sogno di un’accumulazione progressiva ed evolutiva della cultura nella storia. Non si possono santificare i demoni, conciliare le facce ambivalenti del progresso e della regressione, mettere d’accordo infanzia e maturità, ciascuna con i suoi buoni diritti.
Inutile ribadire che al paganesimo va tutta l’indulgenza possibile, in termini di identificazione emotiva. Saint-Jean, chiuso nella sua cella e nel suo dolce delirio, non fa che ripetere «I will return to the house whence I came out»[70] pensando alla Piccardia, e dunque alla Grecia «iperborea», ma con un’espressione che ineludibilmente richiama un regressus ad uterum. Origini culturali e origini biologiche si saldano intimamente nell’evocazione di una patria – un Venusberg uterino – che suscita desideri di simbiosi e protezione, che promette, nonostante tutto, la felicità.
Ma la dolce frase di Saint-Jean è anche gravata, e autorevolmente gravata, dall’ipoteca della demonizzazione: revertar in domum meam unde exivi sono le stesse parole che nei Vangeli pronunciano i demoni esorcizzati quando, dopo aver vagabondato per squallidi deserti, decidono di assalire gli uomini di nuovo e con moltiplicata energia[71]. Eppure, nell’immagine della fioritura di giacinti con cui termina il racconto, che attraverso la sincresi con la veste della Vergine esprime uno struggente senso di panteismo e di speranza, si cela forse una luminosa controallusione. Vale la pena ricordare che la leggenda di Tannhäuser si concludeva con la prodigiosa fioritura del bastone papale, un messaggio di misericordia che sanciva solennemente il perdono divino dei «peccati pagani» condannati senza appello dagli uomini.
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Note.
[1] Sulle caratteristiche del genere ibrido dell’imaginary portrait, che nello stesso tempo aspira a incrociare due diverse arti (letteratura e pittura, in particolare la ritrattistica) e varie modalità di scrittura (saggistica, biografia e autobiografia, short story), cfr. E. Bizzotto, La mano e l’anima. Il ritratto immaginario fin de siècle, Cisalpino, Milano 2001, e Id., The Imaginary Portrait: Pater’s Contribution to a Literary Genre, in L. Brake, L. Higgins, C. Williams (a cura di), Walter Pater, Transparencies of Desire, ELT Press, Greensboro, NC 2002, pp. 213-223.
[2] Cfr. S. Evangelista, British Aestheticism and Ancient Greece. Hellenism, Reception, Gods in Exile, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2009, pp. 23-54.
[3] «“Ci sono stati, prima di lui”, dice Madame de Stäel, “uomini dotti che si potevano consultare come libri: ma nessuno, se posso dir così, si era fatto pagano al fine di penetrare l’antichità”», W. H. Pater, Studies in the History of the Renaissance, a cura di M. Beaumont, Oxford University Press, Oxford 2010, p. 93. Sarà questa l’edizione di riferimento per gli Studies in the History of the Renaissance.
[4] «l’autorità della tradizione ellenica, la sua capacità di soddisfare alcune vitali necessità dell’intelletto» (ivi, p. 98).
[5] «un malinconico senso di qualcosa che si è perso e che dev’essere riconquistato, piuttosto che il desiderio di scoprire delle novità» (ivi, p. 87).
[6] Ivi, pp. 1-22.
[7] «tristezza pagana» (ivi, p. 100).
[8] «temperamento romantico» (ivi, p. 112).
[9] Per la ricostruzione del contesto degli studi mitografici nell’arco dell’Ottocento, con una particolare attenzione all’influenza dei poeti sugli accademici, cfr. M. K. Louis, Gods and Mysteries: the Revival of Paganism and the Remaking of Mythography through the Nineteenth Century, in «Victorian Studies», 47, 3, 2005, pp. 329-361, che evidenzia come alcuni atteggiamenti dell’approccio romantico ai miti rimangano costanti, pur con significative variazioni, per tutto il secolo. «Di questi elementi, i più importanti erano 1) il presupposto che il cristianesimo e l’antica religione greca si sviluppassero dagli stessi impulse psicologici; 2) l’idea che il mito sia la risposta religiosa dell’immaginazione poetica alla natura; 3) la tendenza ricorrente a mettere in contrasto il culto degli olimpii coi Misteri». Relativamente a quest’ultimo punto, la predilezione per i Misteri come sede di una più autentica religiosità, accostabile per certi aspetti al cristianesimo per le sue figure divine sofferenti e vicine agli uomini, si focalizza verso l’ultimo quarto del secolo sugli elementi orgiastici ed estatici e sugli aspetti regressivi e destabilizzanti dell’identità.
[10] Cfr. S. Malley, Disturbing Hellenism: Walter Pater, Charles Newton, and the Myth of Demeter and Persephone, in L. Brake, L. Higgins, C. Williams (a cura di), Walter Pater, Transparencies of Desire, ELT Press, Greensboro, NC 2002, pp. 90-106, S. Evangelista, British Aestheticism…, cit., pp. 40-41: «Tracciando una tradizione che mette insieme il culto di Demetra e Dioniso, gli dèi rispettivamente del grano e del vino, Pater trova un precedente pagano per il simbolismo della comunione cristiana. Demetra e Dioniso formano una sacra famiglia che precede l’unità costitutiva del culto cristiano, nel suo sentiment religioso, per usare l’espressione di Arnold, e nel suo significato estetico e morale».
[11] «Anche le loro menti calme sono turbate dal pensiero del limite della loro durata, dell’inevitabile decadenza, dello spodestamento. D’altra parte, la suprema e incolore astrazione di quelle forme divine, che è il segreto della loro quiete, è anche una premonizione dei raffinamenti consunti e disincarnati dei pallidi artisti medievali. Quell’alta indifferenza al mondo esterno, quell’aria impassibile, ha già in sé un tocco cadaverico; vediamo già Angelico e il “Maestro della Passione” nel futuro dell’arte. La disfatta del sensuale, la porta sbattuta su di lui, l’interesse per il superamento della carne, è già rintracciabile. Quegli dèi astratti, “pronti a dissolvere la loro fine essenza nel vento”, che possono ripiegare la loro carne come un vestito e restare se stessi, sembrano già presentire quella tetra aria in cui, come la stessa Elena di Troia, vagano come gli spettri medievali» (W. Pater, Studies…, cit., pp. 112-113).
[12] Cfr. E. Bizzotto, La mano e l’anima…, cit., p. 74. Un altro ritratto apollineo è Duke Carl of Rosemond (1887), vedi ivi, pp. 83-86, in cui il dio si reincarna in un duca tedesco del primo Settecento e, anticipando l’impresa intellettuale di Goethe, cerca di sintetizzare spirito mediterraneo e spirito nordico.
[13] «Sembra che Apollo si fosse accontentato di prendere servizio presso degli allevatori, e come una volta aveva badato le vacche di Admeto, così ora lavorava come pastore nella Bassa Austria. Qui tuttavia, divenuto sospetto a causa del suo bel canto, fu riconosciuto da un monaco dotto come uno degli antichi dèi pagani, e consegnato al tribunale ecclesiastico. Torturato, confessò di essere il dio Apollo, e prima dell’esecuzione supplicò che gli si lasciasse suonare ancora una volta la lira e cantare una canzone. E suonò in modo così toccante, e cantò con tale malia, ed era in più così bello d’aspetto e di lineamenti, che tutte le donne piansero, e molte di loro rimasero così impressionate che, poco dopo, caddero malate. Passato qualche tempo la gente voleva riportaro fuori dalla tomba per infilargli un paletto nel corpo, nella credenza che fosse divenuto un vampiro, e che le donne malate sarebbero guarite con questo mezzo. Ma trovarono la tomba vuota» (W. Pater, Studies…, cit., p. 19). Come nota D. L. Hill in W. Pater, The Renaissance. Studies in Art and Poetry. The 1893 Text, a cura di D. L. Hill, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1980, pp. 321-322, Pater traduce dalla versione tedesca dei Götter pubblicata nel 1853 e confluita poi nell’edizione amburghese (1861-1869). Rispetto al testo heiniano, nel brano in analisi Pater omette un aggettivo dal sapore fiabesco («as one of the old pagan gods» : «als ein alter zauberischer Heindengott») ed elimina una nota ironica («would by this means recover» : «würden durch solches probate Hausmittel genesen»).
[14] «Pico, composto per il riposo eterno nell’abito domenicano, eppure in mezzo ai pensieri degli antichi dèi, lui stesso simile a una di quelle piacenti divinità, riconciliato con la nuova religione ma ancora teneramente attaccato alla vita precedente…» (W. Pater, Studies…, cit., pp. 25-26).
[15] «…e desideroso letteralmente di “fasciare le epoche l’una con l’altra attraverso la pietà naturale”» (ibid.).
[16] L’aria di famiglia tra questa eccezionale figura e gli dèi in esilio non viene solitamente notata. Tuttavia, anche a un livello banalmente testuale, il riferimento al vampiro e al tornare dalla tomba («come un vampiro, è morta molte volte e ha appreso i segreti della tomba»; W. Pater, Studies…, cit., p. 70) si lascia facilmente accostare alla storia heiniana di Apollo tradotta da Pater nel saggio su Pico; allo stesso modo, il riferimento al commercio di oggetti bizzarri con l’Oriente (ibid.) lo ritroveremo espanso in un passo riguardante Denys («Nel grande porto di Marsiglia ha trafficato con marinai provenienti da ogni parte del mondo, dall’Arabia e dall’India, e acquistato le loro merci, esposte ora in vendita, con meraviglia di tutti, alla fiera di Pasqua»; Denys l’Auxerrois, in W. Pater, Imaginary Portraits, Macmillan, London and New York 1890, p. 73). Il ritorno del mondo pagano è posto tra gli avvenimenti esperiti da Monna Lisa nella sua lunga vita, e pochissime pagine prima il tema degli dèi in esilio era stato esplicitamente evocato con un riferimento al Bacco del Louvre, lo stesso quadro leonardiano commentato da Gautier.
[17] «La base per la riconciliazione delle religioni del mondo sarebbe l’inesauribile attività e creatività della mente umana in sé, nella quale ogni religione ha le sue radici e nella quale tutte si armonizzano, così come le fantasie dell’infanzia e i pensieri dell’età adulta si incontrano e riconciliano nell’esperienza di un individuo» (W. Pater, Studies…, cit., p. 20).
[18] «un Rinascimento dentro ai confini del Medioevo stesso, uno sforzo brillante, ma in parte fallito, di fare per la vita e la mente umane ciò che fu fatto più tardi, nel Cinquecento» (ivi, p. 9).
[19] Per una concisa analisi del ritratto cfr. M. Fusillo, Il dio ibrido. Dioniso e le «Baccanti» nel Novecento, Il Mulino, Bologna 2006, pp. 170-181.
[20] Sul popolo beato degli Iperborei e il suo stretto legame con Apollo, si veda ad esempio Pindaro, Pitica X, e il commento a cura di P. Angeli Bernardini, E. Cingano, B. Gentili e P. Giannini, in Id., Le Pitiche, introduzione, traduzione e testo critico di B. Gentili, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1995, pp. 630 sgg.
[21] «Per i suoi favori, per il fallace buonumore che dispensa, e che ha in verità un sentore di magia sinistra, egli fa talvolta pagare agli uomini un prezzo terribile, e di fatto è un diavolo!» (W. Pater, Apollo in Picardy, in Id., Miscellaneous Studies, prepared by C. L. Shadwell, Macmillan, London and New York 1895, p. 122). Per la traduzione italiana sia di Apollo in Picardy che Denys l’Auxerrois mi sono servito di Id., Ritratti immaginari, a cura di M. Praz, Adelphi, 1994 (1980), con minime modifiche.
[22] «E mentre nei volumi precedenti si trovavano come illustrazioni nient’altro che i più semplici diagrammi indispensabili, la mano dell’amanuense si era sbizzarrita qui in margini labirintini, ampi spazi di geroglifici, e come vere e proprie traduzioni pittoriche degli elementi teoretici del soggetto. Tenere aurore invernali parevano palpitare dietro intere pagine d’indecifrabile scrittura, righe e figure curvandosi, animandosi, divampando in leggiadre disposizioni che erano come musica fatta visibile; finché scrittura e scrittore si cambiavano d’un tratto, “mai costanti a una sola cosa”, secondo il ben noto modo dei pazzi in opere di tal genere» (W. Pater, Apollo in Picardy, in Id., Miscellaneous Studies, prepared by C. L. Shadwell, Macmillan, London and New York 1895, p. 123).
[23] «fiori alati, o stelle con membra e facce umane» (ivi, p. 141).
[24] «uno spirito freddo e oltremodo razionale» (ivi, p. 122).
[25] In Denys l’Auxerrois il preambolo è articolato in maniera molto simile: dopo aver presentato come chiave di lettura del racconto il fenomeno antropologico della credenza di vari popoli nell’età dell’oro, il narratore si lascia attrarre da «un’occasione sensibile», un oggetto mediatore – un frammento di vetro colorato ritraente Denys – che sembra contenere un mistero ed esigere una spiegazione. Entrambi i preamboli hanno la funzione di tematizzare il fatto che il mito antico, per essere evocato e raccontato di nuovo in età moderna, deve passare per un’operazione di volontaria ricostruzione, di distacco ironico, di critica e commento, in breve di forte autocoscienza metanarrativa. Le cornici tematizzano insomma il punto di vista della modernità che assume un ruolo cardine nel gioco di specchi tra gli altri strati culturali evocati – antichità, Medioevo, Rinascimento.
[26] «La struttura di una città medioevale fortificata rinchiudeva in modo molto efficace coloro che vi appartenevano. Alte mura di monastero segregavano ancora di più il monaco» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p. 124).
[27] Come ha notato R. Keefe, «Apollo in Picardy»: Pater’s Monk and Ruskin’s Madness, in «English Literature in Transition», 29, 4, 1986, p. 364, Saint-Jean è «uno studioso dell’ordine universale» che, in linea con lo spirito sistematico della sua epoca, cerca di rinchiudere la realtà nelle strutture formali del linguaggio.
[28] W. Pater, Apollo in Picardy, cit., pp. 125-126.
[29] «come d’un’immensa coppa ovale affondata nell’erboso altipiano» (ibid.).
[30] «Il lume della luna dilagava ora attraverso gli abbaini senza imposte; e al chiarore di una lucerna che pendeva dai travicelli più bassi, il priore Saint-Jean pareva contemplare per la prima volta la figura umana, il vecchio Adamo appena uscito dalla mano del Creatore. Un servo della casa, un bracciante, forse – addormentatosi là per caso sui velli ammucchiati come stoffa dorata, alti in tutti gli angoli del luogo. Un servo! Ma che disinvoltura poco servile, com’era simile a un signore, o piuttosto a un dio, nella posa! Si poteva immaginare migliorata una sola curva nelle membra floride, calde, bianche; nei superbi lineamenti del volto, coi capelli d’oro legati in un nodo mistico, ricadente attraverso la fronte ispirata? E che gentile soavità anche nel moto naturale del petto, della gola, delle labbra del dormiente! Poteva mai essere diabolico, e veramente macchiato d’invisibile male, ciò che appariva così immacolato all’occhio?» (ivi, pp. 127).
[31] Sul tema cfr. R. Dellamora, Masculine Desire: The Sexual Politics of Victorian Aestheticism, University of Carolina Press, Chapel and London 1990, e L. Dowling, Hellenism and Homosexuality in Victorian Oxford, Cornell University Press, Ithaca and London 1994.
[32] Cfr. G. Monsman, Pater’s Portraits, Johns Hopkins Press, Baltimore 1967, p. 191. La celebre ekphrasis di Apollo si può leggere in J. J. Winckelmann, Il bello nell’arte. La natura, gli antichi, la modernità, a cura di C. Franzoni, Einaudi, Torino 2008, pp. 137-139.
[33] «Il solo tocco di quella mano ghiaccia […] V’era in ciò una magia, non del tutto naturale? La mano avrebbe potuto essere quella di un morto» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p. 133).
[34] «un vero paradiso non ancora sciupato» (ivi, p. 128).
[35] «“Poteva esserci una magia innaturale”, egli si chiedeva di nuovo, “qualche segreto male, celato in questi tranquilli fianchi di valle, nelle loro soavi pasture basse, nella cinta di boschi disseminati sopra di esse, nei ruscelli d’acqua pura fruscianti dagli aperti poggi al di là?”» (ibid.).
[36] «si avvicinava a uno sinistro nella Sacra Scrittura» (ivi, p. 129). Il nome Apollyon, «sterminatore», traduce l’ebraico «Abaddon» e in Ap. 9:11 è attribuito all’angelo dell’Abisso che dopo il suono della quinta tromba guida sulla terra uno sciame di mostruose locuste. Va notato anche che il nome Saint-Jean richiama l’autore delle visioni apocalittiche.
[37] Cfr. l’incipit di Denys l’Auxerrois: «Quasi ogni popolo, sappiamo, ha la sua leggenda di una “età dell’oro” e del suo ritorno – leggende che non saranno facilmente dimenticate, per prosaico che possa diventare il mondo, finché l’uomo resterà la creatura ambiziosa e insoddisfatta che è. Eppure davvero, dal momento che non siamo più fanciulli, potremmo ben mettere in forse il vantaggio del ritorno tra noi d’una condizione di vita nella quale, di necessità, I valori delle cose starebbero, per così dire, interamente alla loro superficie, a meno che non potessimo recuperare noi stessi anche la coscienza, o meglio incoscienza infantile, di prendere tutto ciò per il suo verso e con la debita leggerezza di cuore» (Denys l’Auxerrois, cit., p. 51, trad. it., p. 47).
[38] «specie per il ragazzo Giacinto, che dimenticava se stesso, o piuttosto trovava il vero se stesso per la prima volta»; «Giacinto diveniva davvero finalmente un ragazzo, con una gaiezza immense» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., pp. 128, 134).
[39] Per come ce ne parla Pindaro, Pit. X, vv. 37-44, le condizioni di vita del questo popolo beato degli Iperborei richiamano quelle dell’età dell’oro descritte da Esiodo, Op. 112-115. Essi vivono in felice comunione con Apollo, sono esenti da malattie, violenze e fatiche, hanno il dono della longevità e di una protratta giovinezza, vivono nella frequenza di feste, canti e cori.
[40]«di dare espressione alla mente, in un qualche antagonismo col, o prevaricazione sul, corpo; alla mente come qualcosa di più che una funzione del corpo» (W. Pater, Greek Studies, prepared by C. L. Shadwell, Macmillan, London and New York 1897, p. 305).
[41] «è per la più parte avversa alla giusta espressione della giovinezza, della bellezza della giovinezza, perché la rende non più giovane» (ibid.).
[42] «del corpo incorrotto della giovinezza, che diletta se stesso e gli altri, in quel punto fortunato e perfetto, perché inconsapevole, in cui si muove o sta fermo un momento, tra il mondo animale e quello spirituale» (ivi, p. 307).
[43] «con un tripudio da ragazzo, con un rimorso da ragazzo» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p. 134).
[44] «Frate Apollion sembrava anche capace d’attirare gli animali selvatici, e partecipare ai loro giochi, pur non del tutto con benevolenza. Stanco, sazio, egli li distrugge quando ha finito di trastullarsi con essi; rompe il giocattolo; abilmente spezza in due il fragile dorso» (ibid.).
[45] «un rimpianto divino o titanico, una titanica rivolta» (ivi, p. 122).
[46] Lo stesso discorso vale per Denys, il quale però, a differenza di Apollyon, che alterna in modo imprevedibile momenti benefici e nefasti, segue un ritmo ben preciso, quello di Dioniso in quanto dio della vegetazione per come tratteggiato nello Study of Dionysus. Alla circolarità Dioniso estivo/invernale e poi daccapo, Pater sostituisce nel suo racconto una vicenda lineare: Dioniso estivo > invernale > cristiano, quest’ultimo in rapporto sincretistico con l’antico Zagreo orfico. Il racconto è comunque inteso come parte di un ciclo destinato a ripetersi con imprevedibili variazioni – come le rinascite del classico.
[47] «Ma dicesse uno o pensasse quel che voleva contro di lui, il fuorilegge pagano valeva la sua mercede come pecoraio; sembrava amare le sue pecore; era un “pastore affezionato”; curava le loro malattie; le faceva nascere senza difficoltà, e se esse si smarrivano, le riportava teneramente sulle spalle. I monaci avevan veduto quell’immagine molte volte prima. Eppure se Apollion appariva simile alla grande figura scolpita sopra la bassa porta del loro luogo di penitenza nel monastero, questo non poteva essere che un caso, o forse un inganno; tanto affine a quelle creature senz’anima egli continuava a sembrare al priore meravigliato – immerso, o addirittura parte, in quell’irredimibile mondo naturale che egli aveva tanto temuto prima di venire qui» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., pp. 135-136).
[48] Ivi, p. 132.
[49] Lo stesso accade a Denys che, dopo aver realizzato in abiti monastici il suo capolavoro sincretistico e sintetico – il primo organo –, osservando per le vie di Auxerre una rappresentazione apotropaica della cacciata dell’Inverno, si getta, come cedendo a un impulso irrefrenabile – «as if mechanically», p. 87 – nel ruolo del nefasto personaggio, che coincide con la parte più arcaica e oscura di sé, andando così incontro al sanguinoso destino di capro espiatorio.
[50] Cfr. Apollodoro, I miti Greci (Biblioteca), a cura di P. Scarpi, traduzione di M.G. Ciani, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 20047, pp. 14-15, 434-435.
[51] L’improvviso «icy blast of wind» («un gelido soffio di vento»; W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p. 143) potrebbe alludere alle versioni del mito in cui Zefiro, respinto da Giacinto, devia la traiettoria del disco per gelosia, ma l’aggettivo «icy» fa pensare piuttosto a Borea, vento del nord riconnesso direttamente ad Apollyon tramite l’associazione paraetimologica con Hyperbòreos.
[52] «il loro soldo del diavolo» (ibid.).
[53] Cfr. Denys l’Auxerrois, p. 76: «L’età dell’oro, sì, era tornata per un poco: ma era proprio d’oro, o soltanto dorata, dopo tutto? ed essi eran troppo disgustati, o almeno troppo seri, per recitarvi fino in fondo le loro parti». G. Monsman, Pater’s Portraits, cit., p. 191, richiamando una pagina di Plato and Platonism (pp. 228-229), suggerisce di leggere in Giacinto un analogo di Persefone, uno «year-daimon» la cui morte simboleggia il mutamento stagionale. In questa direzione anche l’insistenza sulla circolarità (il disco, il movimento rotatorio di Apollo).
[54] Cfr. Ovidio, Met. X, 196-216.
[55] Anche il finale di Denys l’Auxerrois allude attraverso elementi pagani alla resurrezione cristiana. Infatti, accostando l’ultima pagina del racconto all’ultima pagina dello Study of Dionysus, scopriamo che il significato essenziale della versione orfica del mito, del Dioniso smembrato, sta secondo Pater nella capacità di evocare una speranza di resurrezione per l’uomo, e un significativo modello di esistenza terrena, «un emblema o un ideale di castigo e purificazione, e di vittoria finale attraverso la sofferenza» (W. Pater, Greek Studies, cit., p. 45). Nel mito, il cuore del fanciullo ucciso viene consegnato da Zeus a Semele. Il cuore di Denys, parallelamente, viene sepolto da Hermes nella cattedrale di Auxerre, sotto una pietra segnata da un crocifisso, in attesa di una futura incarnazione.
[56] Il primo insegnamento regolare del greco in Occidente fu avviato dal diplomatico bizantino Manuele Crisolora a Firenze nel 1397, per interessamento di Coluccio Salutati. Precedentemente, nella stessa città, c’era stato, ma solo durante gli anni 1360-1362, l’insegnamento del calabrese Leonzio Pilato, per impulso di G. Boccaccio. Cfr. L. D. Reynolds, N. G. Wilson, Copisti e Filologi, trad. it., Antenore, Padova 1987, pp. 151-154.
[57] Sul fatto che la follia del priore per illuminazione sia una sorta di contrappasso gnoseologico della sua fortissima necessità di chiudere e ordinare la molteplicità del mondo ha insistito R. Keefe, «Apollo in Picardy»: Pater’s Monk and Ruskin’s Madness, in «English Literature in Transition», 29, 4, 1986, e Id., Walter Pater’s Two Apollos, in «Nineteenth-Century Literature», 42, 2, 1987, pp. 159-170. Senz’altro la dicotomia chiuso/aperto lavora in sinergia con quella ordine/disordine, ma il concetto di contrappasso ha un’implicazione moralistica che mi sembra impropria.
[58] R. Keefe, «Apollo in Picardy»…, cit., suggerisce che il cielo percepito da Saint-Jean sia quello descritto da Keplero, dove i pianeti non compiono circoli perfetti intorno al sole ma ellissi; contro una visione pitagorea dell’armonia, anche il cielo rivelerebbe il suo disordine, «Modern reality is dissonant» (p. 367).
[59] «Le rigide o astratte leggi, o teoria delle leggi, della musica, delle stelle, della struttura meccanica, in formule rigide e astratte, che accrescevano l’astratta austerità dell’uomo, sembravano averlo abbandonato; per ravvivarsi di nuovo, tuttavia, al contatto di questo straordinario discepolo o compagno di ricerca, sebbene in un modo o atteggiamento ben diverso nei confronti di se stesso, come temi da non essere più discussi o compresi, ma piuttosto da esser visti, contemplati e uditi. Non vedeva egli l’angolo dell’asse della terra con l’ellittica, le deviazioni delle stelle dalle loro orbite con risultati fatali quaggiù, e la terra – verità perversa, contraria alla Sacra Scrittura! – girare intorno al sole, e quei baleni della luce eterna e non orbicolare quali producono acqua, fiori, creature viventi dalle rocce e dalla polvere? Il canto dei pianeti: egli poteva udirlo, e col tempo avrebbe potuto trascriverlo in note. E ora che aveva veduto e udito, presto avrebbe anche potuto parlare di tali argomenti, con verità e autorevolezza. Se uno l’avesse soltanto potuto fissare per sé, per trasferirlo poi alla fine agli altri, sulla pagina scritta o stampata, questo raggio di penetrazione o d’ispirazione!» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p. 140).
[60] «il punto focale in cui il più alto numero di forze vitali convergono nella loro più pura energia» (Studies…, cit., p. 119).
[61] «tra le mura più profonde del proprio, miserabile cervello» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p.140). Cfr. F. C. McGrath, The Sensible Spirit: Walter Pater and the Modernist Paradigm, University of Florida Press, Tampa, Fla 1986, pp. 34-37.
[62] Cfr. W. Pater, Studies…, cit., p. 122.
[63] Il primato dei sensi e del concreto viene da Pater sempre fortemente propugnato, ma di fatto costantemente eluso. Pater è un contemplatore, fatalmente attratto dall’astrazione e dal disengagement delle idee che stanno dietro alle cose. L’opera d’arte dà forma sensibile alle idee, ma sono le idee che lo interessano, non la forma sensibile (cfr. F.C. McGrath, The Sensible Spirit…, cit., p. 70).
[64] Ivi, pp. 110-111.
[65] Cioè a una coincidenza perfetta e inestricabile tra forma e contenuto, tra mezzi e fini artistici, tra soggetto ed espressione, cfr. «The School of Giorgione», in W. Pater, Studies…, cit., pp. 122-127.
[66] Il senso dello «strange» è un elemento fondamentale della «susceptibility» pateriana e trova la sua massima espressione nel capitolo su Leonardo da Vinci, ivi, pp. 56-72 – basti pensare al sorriso della Gioconda o del S. Giovanni, «sempre recante qualcosa di leggermente sinistro» (pp. 69-70). Il Leonardo pateriano presenta anche elementi che anticipano la figura di Saint-Jean: precorre i tempi con una scienza ampia e segreta, si isola volentieri in se stesso, è uno studioso della natura, astronomia compresa, è autore di manoscritti, «scritti stranamente, alla sua maniera, da destra verso sinistra» (ivi, p. 60), il cui apparente «rigid order» nasconde in realtà una illuminazione segreta. Naturalmente l’enorme differenza tra Leonardo e il priore sta nel fatto che nel primo la genialità viene fuori in modo spontaneo, progressivo e costruttivo, mentre nel secondo è una sommersione eterodiretta. Ma in entrambi i casi la genialità e il progresso eccessivo hanno un qualcosa di perturbante.
[67] «un’arte che nei suoi prodotti migliori, come sappiamo, è ritenuta una specie di musica resa visibile» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p. 131).
[68] Cfr. G. Monsman, Pater’s Portraits…, cit., p. 189. Anche Denys-Dioniso, dio musicale a cui pertiene il suono delle canne – a differenza di Apollo che è signore delle corde –, produce una forma di sintesi attraverso l’arte: la creazione del primo organo e l’influenza sull’architettura della cattedrale di Auxerre in costruzione, cfr. Denys l’Auxerrois, pp. 82-83.
[69] «la sola riconciliazione possibile è a livello dell’immaginazione»; «Restava compito di un’età successiva concepire il vero metodo per compiere una riconciliazione scientifica del sentimento Cristiano con l’immaginario, le leggende, le teorie sul mondo della poesia e della filosofia pagane» (W. Pater, Studies…, cit., p. 27).
[70] «Voglio tornare alla casa da cui sono uscito» (W. Pater, Apollo in Picardy, cit., p. 146).
[71] Cfr. NT, Mt., 12:44, Lc., 11:24.
settembre 30, 2019 Letture di testo, Teoria e letteratura 0 Leggi tutto >