ENRICA VILLARI – UN RICORDO DI ORLANDO LETTORE DEL “MISANTHROPE”
[Pubblichiamo un altro intervento dalla tavola rotonda “Per Francesco Orlando. Dieci anni dopo”, promossa dall’Università di Siena e tenutasi lo scorso 22 giugno. Enrica Villari, sulla scia del ricordo di un corso universitario tenuto da Orlando all’inizio degli anni Settanta, ritorna qui su uno dei testi da lui più studiati – Il Misantropo di Moliére – valorizzandone soprattutto la capacità di cogliere quell’ “estesa logica di compresenza di ragione e torto, e di somiglianze dentro la diversità, […] una contraddittorietà così sistematica da somigliare a una sorta di incoerenza”, che solo nel modello freudiano della “formazione di compromesso” poteva trovare una spiegazione ricca e tesa a salvaguardare la complessità del testo (M.R.).]
Parlerò della lezione di Francesco Orlando lettore di testi. Prenderò come esempio la sua lettura del Misanthrope di Moliére, e partirò da una citazione.
Alla fine di Lettura freudiana della “Phèdre”, nel volume Einaudi in cui compare insieme alla Lettura freudiana del “Misanthrope”, Francesco Orlando scriveva:
Ho tentato di dimostrare, durante molte pagine, che la coerenza incredibilmente minuziosa e profonda è uno dei risultati in cui l’analisi può tradurre il giudizio di valore immediato su un capolavoro.
Rileggere questa frase oggi mi ha fatto tornare alla memoria la meraviglia di un’aula intera – di cui ebbi la fortuna di essere parte – dell’allora Università degli Studi di Napoli in via Mezzocannone 8: la meraviglia di fronte alla circostanza che dal dialogo di Alceste con Filinte, che apre la commedia, derivò per un intero Anno Accademico il dispiegarsi della ricca geometria dei significati che quel dialogo introduceva, e che a quel dialogo sempre ritornava, in una fitta rete di rimandi e parallelismi con la realtà storica della Francia Seicentesca della Corte, con la consistenza psichica del tipo psicologico del misantropo innamorato in tutte le epoche del mondo, per finire con la storia della fortuna del Misanthrope in cui le costanti del testo si arricchivano delle varianti che la storia necessariamente apportava all’esperienza della sua lettura.
E ricordo bene che in quell’aula, durante quel lungo Anno Accademico ( il corso durava allora da novembre a maggio) alla nostra meraviglia subentrava di tanto in tanto una sorta di incredulità, incredulità che davvero in un testo non poi così lungo come la commedia di Molière, potesse esserci tutto quello che Francesco Orlando, lezione dopo lezione, vi trovava e ci insegnava a vedere. Fu questo il suo modo, in quel corso, di insegnare a tutti noi quale fosse la specificità della letteratura, quel modo unico, e incomparabile ai tanti saperi specialistici delle scienze umane, che la letteratura ha di parlare invece del mondo e dell’uomo nella sua totalità. Fu una lezione che nessuno di noi in quell’aula può avere dimenticato.
Se quella frase di Orlando mi ha fatto tornare alla memoria quella specie di rivelazione che fu per noi studenti quel corso, che era la prova generale – nei primi anni Settanta – del libro che sarebbe stato pubblicato solo dopo per la prima volta nel 1979, la frase che la seguiva mi ha colpito – rileggendola oggi – per altre ragioni.
Orlando infatti aggiungeva alla sua frase sulla coerenza:
Credo che la verifica dell’incoerenza sarebbe il continuo risultato di una analisi altrettanto sistematica del brutto, impresa poco allettante e forse mai da nessuno rigorosamente tentata.
Mi ha colpito innanzitutto il suo indiretto legame col Misanthrope, perché in fondo l’idea di una prova della bruttezza estetica, non necessariamente l’incoerenza proposta da Orlando, ma una prova fondata su basi dimostrabili e riconosciute (e non sulla risposta di un gusto sicuro che solo chi ne è dotato – ovvero pochi – è in grado di riconoscere) è esattamente quello di cui avrebbe avuto bisogno Alceste per non finire nei guai a causa della sua ostinata – e assolutamente non negoziabile – stroncatura dei versi di Oronte.
Gli anni in cui viviamo d’altra parte, se paragonati agli anni Settanta del secolo scorso in cui Francesco Orlando scriveva la sua lettura del Misanthrope, hanno visto un vertiginoso incremento di ambizione alla creatività letteraria che – è stato giustamente osservato – sembra ahimé inversamente proporzionale alla decrescente abitudine alla lettura. Tutto ciò rende di straordinaria attualità le rimostranze di Alceste contro le ambizioni alla distinzione letteraria di Oronte, e particolarmente irresistibili i suoi feroci argomenti per chiunque ritenga che la cattiva letteratura – se non riconosciuta come tale dai più, come di fatto lamenta Alceste – sia tutt’altro che un male minore (“Che pressante bisogno avete di rimare? Chi diavolo vi spinge a pubblicare versi? La comparsa di un brutto libro la si perdona soltanto al disgraziato che è spinto dal bisogno”[…] “Io certo non demordo: quei versi sono orrendi […] Lo sosterrò in eterno, che son brutti, e l’uomo che li ha fatti è degno della forca”).
L’indicazione di scena dice che a questo punto Clitandro e Acaste ridono. E certamente il crescendo inarrestabile dello sdegno di Alceste per la bruttezza dei versi di Oronte non può che fare ridere o sorridere anche noi, lettori oggi, per la sproporzione tra la causa e l’effetto prodotto in Alceste. Ma la simpatia per lo sdegno di Alceste resta. Ed è questo il punto.
In questo esempio, come altrove nel testo, Alceste ha insieme sia ragione che torto, un po’ ragione e un po’ torto, in dosi relative che mutano in luoghi diversi del testo e nella storia della fortuna senza intaccare però mai la fondamentale simultaneità di ragione e torto. Così come ha sia torto che ragione Célimene, e così anche Filinte. E’ la logica che domina il testo intero, come le sorprendenti analisi di Orlando che evidenziano sottili somiglianze tra Alceste e il suo nemico, o tra Alceste e l’ odiosa Arsinoè, mostrano. Una estesa logica di compresenza di ragione e torto, e di somiglianze dentro la diversità, domina dunque il Misanthrope, su cui sembra presiedere, sovrana, una contraddittorietà così sistematica da somigliare a una sorta di incoerenza.
Ma è proprio per rendere le ragioni di questa incoerenza che presiede alla concezione stessa del misantropo innamorato proprio della coquette, per identificare e dare voce a tutte le molteplici e contraddittorie istanze che vi trovano posto, che l’interpretazione di Orlando mira a ricostruire la logica che le tiene insieme e permette dunque di dare loro voce contemporaneamente. Questa logica è per Orlando quella freudiana della formazione di compromesso, nelle tante molteplici varianti di cui consiste la sua proposta teorica. Ma indipendentemente dalla proposta teorica, la ricostruzione della logica che tiene insieme la molteplicità di istanze diverse e contraddittorie di un testo letterario ci riporta alla questione della convinzione di Orlando che la coerenza possa essere il fondamento del giudizio di valore, da cui siamo partiti, e su cui vorrei chiudere.
Uno dei fenomeni più vistosi della pratica culturale e politica dei nostri giorni è l’allegra impunità di cui godono le assolute incoerenze che caratterizzano le posizioni politiche dei nostri leader di maggior successo. Questo in verità basterebbe da solo a giustificare una rivalutazione sistematica della coerenza come indice sicuro del valore, e non solo del valore letterario. D’altra parte però, almeno a partire da Foucault se non da prima, sulla coerenza si è abbattuta la scure che ha colpito la razionalità come strumento di coercizione, e riduzione al silenzio, del disordine della libertà.
Ma non è questa la coerenza sistematicamente cercata da Orlando. La sua lezione di lettore di testi ci dice che il segno del valore letterario non è la coerenza che semplifica, ma quella “coerenza incredibilmente minuziosa e profonda” che ogni buona lettura dovrebbe aspirare a ricostruire. Lontanissima dall’essere un agente di semplificazione riduttiva della complessità, la coerenza difesa da Orlando somiglia moltissima a quella che, molti anni dopo quel corso universitario, ritrovai formulata in una lettera di George Eliot che lamentava la tendenza dei critici contemporanei a fare a pezzi il suo ultimo romanzo Daniel Deronda, celebrando l’eccellenza della parte inglese e criticando la parte ebraica, e ignorando dunque la legge segreta per cui – scriveva Eliot – “ogni cosa in un romanzo è legato a tutto il resto”.
Ma la lezione di Orlando lettore di testi, e di Orlando lettore del Misanthrope in modo particolare, ci dice anche che, per quanto ricca la geometria dei significati e delle istanze di un’opera, si tratta comunque di un sistema chiuso. L’esemplarità del suo metodo di lettura insegnò a noi studenti in quell’aula, e ci dice oggi, che esistono letture filologicamente fondate e letture filologicamente non fondate su evidenze testuali. Diciamolo pure: letture giuste e letture sbagliate.
Alceste sarebbe stato d’accordo.
E che questo non abbia proprio nulla a che fare col dogmatismo, ce lo ha appena dimostrato Paolo Tortonese (l’autrice fa qui riferimento a un intervento precedente della tavola rotonda, ndr).
(Tavola Rotonda 22 giugno 2020. Università di Siena)
Enrica Villari