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MARGHERITA BRACCINI – GLORIOSAMENTE VIVERE O GLORIOSAMENTE MORIRE. LE EMOZIONI INFINITE DI AIACE NELLA TRAGEDIA SOFOCLEA

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[Continuiamo la nostra serie di pubblicazioni aperiodiche dando spazio a un lavoro di Margherita Braccini, una giovane studentessa dell’Università di Pisa che si è occupata nel corso dei suoi studi della tragedia antica. Con il proposito di offrire spazi di visibilità agli studiosi e alle studiose più giovani, pubblichiamo un suo lavoro sull’Aiace di Sofocle. Servendosi della categoria orlandiana di “formazione di compromesso” e degli studi di Paduano l’autrice scandaglia il testo della tragedia sofoclea per mettere in luce la peculiarità della figura dell’eroe e del suo conflitto con l’ordine umano e divino.]

Exechias, Sucidio di Aiace

In questo elaborato mi occuperò di quello che è considerato essere il più antico dramma sofocleo a noi pervenuto, l’Aiace (datato tra il 450 e il 445 a.C.). Aiace è uno dei personaggi più famosi dell’Iliade, esaltato nel poema per il suo grande valore guerriero e secondo nel campo Acheo solo al cugino Achille. L’analisi del testo che qui propongo, si basa sulla teoria del critico Francesco Orlando relativa al concetto di ‘formazione di compromesso’1, secondo cui la grande letteratura veicola sempre due istanze opposte, una connivente all’ordine costituito e l’altra ad esso avversa. Protetta dal suo statuto finzionale, l’opera d’arte può permettersi di dare voce all’Altro, al diverso, a quello che Orlando chiama più genericamente il ‘represso’. L’atteggiamento con cui il lettore si relaziona al soggetto portatore del messaggio sovversivo è a sua volta di natura ambivalente. Da una parte, infatti, egli è portato a identificarsi con lui, mentre dall’altra viene indotto a prenderne le distanze proprio perché questi è fuori dalla norma. Tale doppio movimento è sintetizzabile con la formula del sono io/ non sono io. Questo tipo di approccio rivela come nell’Aiace si possano individuare due priorità contrapposte: da un lato la forza repressiva, il principio d’autorità, rappresentato da Atena (il potere divino) e dagli Atridi (il potere politico), dall’altro il represso, ovvero il valore sovrano dell’individuo. L’eroe si scontra con Atena rifiutandone l’aiuto, e dunque peccando di hybris, mentre con gli Atridi perché ne contesta la decisione di conferire le armi di Achille a Odisseo, invece che a lui. La formazione di compromesso nell’Aiace sta nel mostrarci non solo la pericolosità per l’ordine costituito di un tale soggetto, ma di farlo in modo tale da rendere questa istanza sovversiva accattivante agli occhi dello spettatore. La tragedia non è volta, dunque, solo a condannare i comportamenti ‘fuori misura’ di Aiace per glorificare il valore della sophrosyne, incarnata qui dal personaggio di Odisseo, ma anche ad esaltare la grandezza di questo eroe tragico, le cui forti passioni non possono non travolgerci. Inoltre, attraverso la vicenda tragica di Aiace, il testo arriva a criticare l’operato degli Atridi dimostrandoci così le profonde problematiche interne che possono attraversare un sistema politico.

Come si intuisce sin dal titolo, Aiace è il protagonista assoluto di questo dramma; la sua presenza occupa con prepotenza, sia prima che dopo la sua morte, tutti i discorsi tenuti dai vari personaggi. La struttura stessa della tragedia ne mette in risalto la centralità: se infatti normalmente nella tragedia attica la morte di un eroe veniva annunciata per mezzo di un messaggero, qui invece il pubblico assiste direttamente al fatto. Questa non è l’unica scelta scenica curiosa operata da Sofocle: nella seconda metà della tragedia, infatti, il Coro esce inaspettatamente dall’orchestra per andare a cercare l’eroe, lasciando così vuoto lo spazio scenico; a questo punto, dopo un veloce cambio di scenografia (si passa dalla tenda di Aiace situata sul campo Acheo a un luogo desolato vicino al mare), entra in scena Aiace per prendere commiato dalla vita, in quello che è considerato essere uno dei pochissimi esempi di soliloquio presenti nella storia del teatro tragico2.

La tragedia inizia con Odisseo intento a seguire le orme lasciate da Aiace, che, secondo una voce diffusasi tra gli Achei, avrebbe compiuto il gesto folle di trucidare buoi e pecore. La dea Atena, fin da subito sulla scena, conferma questa ipotesi e spiega a Odisseo che in realtà la menis (ira) di Aiace non era rivolta verso gli animali, ma verso l’esercito greco, di cui egli si voleva vendicare per non aver ricevuto, come pensava gli spettasse di diritto, le armi di Achille, che erano invece toccate a Odisseo; è stata la divinità a divergere la forza aggressiva dell’eroe annebbiandogli la mente (vv. 51-53: «Io l’ho fermato, gettandogli sugli occhi le ingannevoli immagini di una gioia funesta»). Apprenderemo solo molto più avanti, dalle parole di un messaggero, che Atena è adirata con Aiace perché questi ha peccato di hybris, rifiutando per il troppo orgoglio il suo aiuto in battaglia (vv. 776- 777: «Con tali detti si procurò l’ira implacabile della dea, poiché i suoi pensieri eccedevano misura»). Nel prologo la dea descrive in modo a dir poco grottesco la scena che vede Aiace uccidere con gusto due caproni, scambiandoli per Agamennone e Menelao, mentre lei lo incita a continuare; più avanti anche Tecmessa, concubina e compagna dell’eroe, tratteggerà con dettagli ancora più raccapriccianti l’accaduto (vv. 232-244):

[…] e parte ne sgozzò dentro la tenda, al suolo, parte gli squartò sui fianchi e divise a metà. Poi, sollevati due montoni dalle bianche zampe, all’uno recise la testa e la punta della lingua, che scagliò lontano; l’altro lo legò ritto ad una colonna e, impugnata una lunga correggia per legare i cavalli, con quella doppia sferza che acutamente sibilava si mise a colpirlo, inveendo con parole oltraggiose che un demone, non certo un mortale, gli suggerì.

Ma la furia dell’eroe non si è ancora saziata del tutto; apprendiamo infatti dal dialogo che si tiene tra lui e la dea, che egli si appresta ora a torturare un ariete, nel quale rivede il suo arcinemico Odisseo. L’odio di Aiace nei suoi confronti era stato già immortalato nell’Odissea (XI, vv. 541-564), in cui il protagonista cercava senza successo di riappacificarsi con l’eroe. Come vedremo, Aiace e Odisseo sono nella tragedia due figure speculari: il secondo è infatti tutto ciò che il primo non è: accorto, duttile, moderato e ben voluto dal potere divino e umano.

Per comprendere il senso dell’azione violenta di Aiace è importante considerare che nella società omerica la vendetta era uno strumento fondamentale per il mantenimento dell’ordine sociale; a seguito di un torto subito, l’offeso o la famiglia dell’offeso avevano infatti non solo il diritto ma il dovere morale di difendere il proprio onore di fronte alla comunità ricorrendo alla vendetta, oppure, come succedeva il più delle volte, accettando un accomodamento per risolvere pacificamente la diatriba. Nonostante il comportamento di Aiace sia conforme a quest’ordine, non può comunque non impressionare la brutalità del suo comportamento; l’immagine dettagliata del massacro degli animali è davvero grottesca, soprattutto se si pensa che al suo posto vi sarebbero potuti essere degli uomini. Sofocle dà qui una rappresentazione disumanizzata dell’eroe che porta inizialmente lo spettatore a prenderne le distanze. Aiace è descritto come un animale che va a ‘caccia’ (v. 92) di ‘prede’ (v. 55) e al tempo stesso che viene ‘cacciato’ (v. 2) da Odisseo, intento a seguirne le ‘tracce’ (vv. 4, 32). L’ambivalenza emotiva che il personaggio suscita viene sottolineata anche in questo aspetto: se nel prologo, in preda alla mania, questi viene descritto come un predatore, un individuo deviato, dopo diventa un ‘toro mugghiante’ (v. 324), un animale sacrificale, una vittima. Capiremo infatti, con lo svolgersi della vicenda, che egli è stato forse vittima di un giudizio iniquo, esercitato da un potere fintamente imparziale. L’efferatezza e il sadico compiacimento con cui Aiace uccide e tortura gli animali sono la manifestazione della profonda ferita psichica causata dalla perdita dell’onore, la cui portata emotiva verrà messa in evidenza dal coro più avanti nella tragedia (vv. 928-934): «Tale, ora comprendo, era il presagio/ dei lamenti ostili che contro gli Atridi/ nella notte e nella luce innalzavi/ aspro nel cuore/ da esiziale passione travolto». Fin dall’inizio il testo pone l’accento sulla natura incontrollabile dell’eroe, rimarcata ulteriormente dal surreale dialogo tenuto da questi con Atena, in cui esprime chiaramente la propria indisponibilità ad interrompere le sevizie su Odisseo, nonostante la richiesta della divinità in persona (v. 110): «Sono disposto ad appagarti in ogni altro desiderio, ma egli avrà la punizione che ho detto».

Nella cosiddetta ‘civiltà della vergogna’, denominazione che si deve al filologo Eric Dodds, il fondamento della propria soggettività dipendeva dal giudizio che ne dava la collettività; il singolo sentiva pertanto il dovere di affermare il proprio valore (areté) per dimostrare di essere un degno erede della famiglia di appartenenza e per tenerne alto l’onore (timé). L’areté non era pertanto connaturata all’uomo, ma determinata dalle sue imprese e dal loro riconoscimento sociale e dalla gloria (kleos) che ne derivava. Come Achille nell’Iliade si sente mortalmente disonorato quando gli viene sottratta pubblicamente la schiava Briseide, dono assegnato dall’esercito, che sanciva simbolicamente la superiorità guerriera dell’eroe sul campo di battaglia rispetto ai compagni; similmente Aiace sente messo in discussione il proprio valore quando i giudici decidono di dare le armi del cugino a Odisseo, a cui secondo l’eroe «non spetta altro primato che quello dell’intelligenza astuta» (vv. 443-444). Entrambi gli eroi vivono la privazione dell’oggetto desiderato come «sofferenza globale e spoliazione d’identità»3, il cui danno non può essere sanato attraverso il dialogo sociale, collocandosi pertanto in uno spazio al di fuori del tempo, in quanto non soggetto ad un possibile cambiamento4. La passione per l’onore dimostrata da Aiace nella tragedia è quella che il grecista Guido Paduano chiama ne La nascita dell’eroe ‘un’emozione infinita’, ovvero un’emozione che va al di là di qualsiasi possibile compromesso e che non accetta nessun tipo di ragione diversa dalla propria (vv. 476-477): «Quale piacere ha in sé il giorno aggiunto a un altro giorno, che avvicini e allontani il morire? […]. Chi è nato nobile deve o gloriosamente vivere o gloriosamente morire». Subito dopo la fine dell’attacco di mania, la manifestazione del dolore infinito provato da Aiace, in quanto non solo non è riuscito a vendicare il proprio onore, ma con il suo fallimento si è reso pubblicamente ridicolo di fronte ai nemici (v. 367), coinvolge i bisogni primari, che vengono di colpo abbandonati (vv. 323-325): «ora giace nella sua avvilente sciagura, senza prendere cibo né bevande», e si esprime attraverso dei lamenti ricorrenti e strazianti (l’espressione ‘ahimè’ viene ripetuta nel testo ai vv. 333, 336, 339) che si diffondono da dentro la tenda all’esterno. L’eroe si dimostra pertanto capace di emozioni infinite solamente di tipo negativo e distruttivo e mai positivo; ciò concorre a definire la sua identità eroica come qualcosa che ha a che fare con la sfera del dolore5.

In più occasioni l’emotività strabordante di Aiace è espressa attraverso l’uso di un linguaggio ‘passionale’ e non razionale. Egli fa uso di quella che lo psicologo Matte Blanco ha definito una ‘logica simmetrica’, vale a dire una logica che invece di distinguere e dividere come fa quella razionale, tende ad assimilare, considerando così la singola esperienza come parte di una totalità. Un esempio di ciò, si trova nelle parole dirette al coro, con cui Aiace esprime il senso assoluto di solitudine ed emarginazione che lo opprime (vv. 452-455): «sono inviso agli dèi, l’esercito dei Greci mi aborre e mi odiano tutta Troia e queste pianure», oppure nel soliloquio pronunciato prima di uccidersi, in cui traspare l’odio senza fine dell’eroe per i suoi nemici, che ora coincide con l’intero esercito greco (v. 838): «Andate, o veloci Erinni della vedetta, assaporate il sangue, non risparmiate l’esercito intero».

Paduano fa notare ne La nascita dell’eroe come, di fronte al mancato riconoscimento sociale, sia Achille che Aiace vengono a trovarsi in una situazione di double bind. Nel caso di Achille, la morte improvvisa dell’amico Patroclo porta all’immediato scioglimento del conflitto e di conseguenza alla reintegrazione del personaggio nel consorzio civile. Aiace invece, dopo aver fallito il suo tentativo di vendetta, non riesce a trovare altra soluzione se non il suicidio per uscire dalla sua condizione di double bind, che lo vede paralizzato tra l’impossibilità del ritorno a casa, del nostos, per il senso di vergona provato nel non essere stato all’altezza delle gesta dal padre Telamone nell’Ellade6 (vv. 457-458: «Come potrà sopportare di vedermi apparire nudo senza trofei, dei quali egli ebbe grande corona di gloria?») e l’impossibilità di riscattare il proprio onore andando all’assalto di Troia, in quanto la cosa gioverebbe ai suoi nemici, gli Atridi (vv. 468-470). Nemmeno le parole piene di dolore e di paura della moglie Tecmessa (qui con il ruolo di mediatrice), che lo mettono di fronte al futuro infausto che attende lei e il figlio se l’eroe sparisse, o l’appello ai vecchi genitori di lui, che ne aspettano il ritorno, riescono a disinnescare l’abnormità della pena di Aiace e il suo desiderio di morte.

Un tratto caratteristico delle scritture epiche è proprio quello di rappresentare figure eroiche i cui comportamenti sono fuori misura. Come sottolinea Paduano, la loro diversità, rispetto alla collettività di appartenenza, si realizza sotto forma di un ‘eccesso’ di virtù, di un’eccessiva coerenza valoriale che fa sì che si passi da una superiorità quantitativa ad una qualitativa. In questi testi, il lettore è portato ad assumere un atteggiamento di natura ambivalente in relazione a tali personaggi: essi non sono infatti né completamente positivi né negativi ma in realtà contemporaneamente entrambe le cose. Se da una parte ci affascinano, dall’altra ce ne distanziamo per il loro modo di fare eccessivo, che mette a repentaglio il vivere comunitario e si dimostra profondamente autodistruttivo. Nell’Aiace lo spettatore simpatizza dunque con l’eroe, ma mai completamente per via della sua natura estrema. Uccidendosi, egli dimostra di essere privo di quel ‘narcisismo originario’, di quell’istinto di conservazione, a cui l’uomo comune non sa rinunciare. Potremmo schematicamente dire, che se il primo decide di seguire l’eroica filosofia del ‘gloriosamente vivere o morire’, il secondo tenderà a quella meno grandiosa del ‘meglio da vili vivere che gloriosamente morire’, come scriverà in seguito Euripide7. Aiace impersona dunque l’ideale eroico nella sua forma più estrema e pura, fattualmente irraggiungibile per l’individuo medio. Per questo motivo la sua figura fa scaturire nello spettatore un senso di fascinazione misto a un senso di inadeguatezza di fronte all’alterità che essa rappresenta.

Per comprendere davvero appieno la grandezza del personaggio è necessario guardare l’ultimo discorso tenuto dall’eroe prima di dirigersi verso la spiaggia, quella che gli studiosi8 hanno rinominato Trugrede, letteralmente ‘discorso menzognero’ perché il protagonista finge di non volersi più suicidare con l’obiettivo di non avere più nessuno che si frapponga tra lui e il suo desiderio di morte. Il monologo comincia con una massima (vv. 648-649): «Il tempo, grande e infinito, fa nascere le cose ancora nascoste e, una volta tratte alla luce, tutte le occulta». Ritroviamo subito qui uno dei temi portanti dell’opera, la forza dell’azione del tempo, di fronte al quale anche le cose che si ritenevano più stabili, come un giuramento o un animo saldo (vv. 650-651) non possono che piegarsi. Il tempo viene dunque presentato dall’eroe come potenza disgregante che porta instabilità e continui cambiamenti nei rapporti umani. Anche Aiace si mostra inizialmente pronto a cedervi per non lasciare la compagna e il figlio nelle mani dei nemici (vv. 653-654): «ho sentito ammorbidirsi il mio labbro ad opera di questa donna: provo pietà al pensiero di lasciare lei vedova in mezzo ai nemici, e orfano mio figlio». Il nuovo proposito di Aiace sembrerebbe essere quello di andare a purificarsi sulla riva del mare, per poi seppellire la spada di Ettore, oggetto tanto odiato perché considerato il diretto responsabile della propria sfortuna. Tentare di sanare lo strappo sociale causato dalla mania attraverso un rito di purificazione significherebbe accettare di sottomettersi alle leggi morali imposte dagli dèi; tuttavia, il ragionamento che segue, mette subito in discussione la veridicità di queste intenzioni (vv. 662-665): «Così sapremo per l’avvenire cedere agli dèi, e impareremo a venerare gli Atridi. Essi sono i capi e pertanto bisogna soggiacere». Un ripensamento così radicale mal si abbina all’intransigenza caratteriale dell’eroe. A mio avviso questa affermazione tradisce la natura menzognera delle sue parole: il personaggio inverte provocatoriamente l’oggetto del verbo ‘cedere’ e ‘piegare’ associando il primo agli dèi e il secondo agli Atridi per sottolinearne l’assurdità; è infatti impensabile che costui affermi seriamente che i secondi siano degni di quella venerazione che è riservata solamente ai primi. Il tono amaramente ironico del discorso viene rimarcato dalla domanda retorica immediatamente successiva: «Perché no?» (v. 666). Inoltre, l’uso del verbo ‘cedere’ in relazione agli dèi suggerisce che il protagonista non riconosce effettivamente alcun vincolo morale al loro comando; non a caso, poco prima Aiace aveva affermato (vv. 589-590): «Non sai che nei confronti degli dèi non sono più obbligato a nessun dovere». Questa ipotesi sembra essere confermata anche dal fatto che subito dopo si utilizzi un verbo molto simile (‘soggiacere’ in traduzione) in relazione agli Atridi. Come vedremo poco più avanti, saranno rispettivamente le parole del messaggero e degli Atridi a rimarcare l’indipendenza del personaggio sia dall’autorità divina che umana, e dunque la sua natura estremamente sovversiva rispetto all’ordine costituito.

Nella Trugrede non vi sono però solo menzogne, le immagini piene di pathos che si susseguono nel discorso dell’eroe danno voce ad una profonda verità di cui egli ha preso coscienza (vv. 669-675):

 Anche le forze terribili e più potenti si piegano all’autorità riconosciuta: così, gli inverni nevosi danno spazio all’estate feconda; l’oscura volta della notte retrocede innanzi al giorno dai bianchi puledri perché la sua luce rifulge; e il soffio dei venti impetuosi suole, cedendo, placare il mare gemente; allo stesso modo il sonno che tutto doma scioglie chi ha avvinto in catene, né lo trattiene per sempre il suo potere.

Tutte le cose sono inevitabilmente soggette al cambiamento: la natura in sé rispecchia questo principio e di conseguenza niente può davvero dirsi eterno. Non esiste dunque un per sempre per gli uomini, solo gli dèi vivono in una condizione di fissità. In un celebre passo dell’Odissea (VI, vv. 41- 46), che potrebbe addirittura aver ispirato il monologo di Aiace, si mette in luce proprio questo aspetto tramite la descrizione dell’Olimpo come luogo in cui non si alternano mai le stagioni, gli agenti atmosferici o il giorno e la notte, dove tutto resta sempre eternamente uguale. Aiace esprime implicitamente qui la propria inadattabilità di fronte a questa legge universale, unico punto fermo in un mondo soggetto a continui sconvolgimenti. L’eroe, ossessionato dall’idea di permanenza, coglie dunque la mutevolezza della realtà, ma non l’accetta e decide di sottrarsi ad essa con la morte9. Per dirla come Paduano, «tutto, è accidente, tranne la sola sostanza, l’io eroico»10. Come fa notare acutamente lo studioso, la natura eroica di Aiace viene affermata attraverso la negazione come ciò che non è «soggetto né ad alternanza, né a limitazione, né ad opposizione funzionale, né è soggetto al tempo»11. Con la sua intransigenza il protagonista rifiuta in toto l’etica del compromesso, la virtù della sophrosyne, a cui fa appello ironicamente nel testo: <<E noi, come non impareremo ad essere saggi?>> (v. 676). L’inflessibilità di Aiace non si riflette solo nel suo alto senso dell’onore, ma anche nel valore sacrale che questi attribuisce alla philia (vv. 676-678): «Io sono da poco consapevole che il nemico debba essere da noi odiato solo come se un giorno egli ci possa amare». Ovviamente Aiace  allude al comportamento degli Atridi, che gli si sono presentati in veste di amici per poi rivelarsi dei nemici. Per l’eroe è inaccettabile l’idea che l’amicizia o l’inimicizia tra gli uomini siano essenzialmente di natura circostanziale; questo perché ciò finirebbe col rendere inutile la distinzione tra le due classi, e di conseguenza anche il comandamento della morale greca di fare del bene al proprio amico e di fare del male al proprio nemico. In opposizione a questa Weltanschauung abbiamo Odisseo, il quale riconosce e accetta il principio dell’alternanza delle relazioni umane (v. 1359: «Molti sono oggi gli amici e domani i nemici»); il testo ne esalta l’atteggiamento prosociale mettendolo in contrasto con la rigidità e inflessibilità di Aiace, ma anche, come vedremo, degli Atridi. Infatti, pur avendo l’Itacese tutte le ragioni di farsi beffe di Aiace impazzito, come gli fa notare anche la dea Atena (v. 77), non solo si astiene dal deriderlo, ma si mostra compassionevole nei suoi confronti. La vicenda tragica di Aiace diventa per lui esempio della fragilità e transitorietà dell’esistenza, evocata attraverso l’immagine della vita come ombra, topos molto caro alla letteratura greca antica.

Tornando all’Aiace, l’eccezionalità dell’eroe sofocleo sta nel suo spirito agonistico che lo porta a volersi autoaffermare nel mondo senza aiuto alcuno e ad essere ‘padrone di se stesso’ (v. 1098). Tale atteggiamento lo rende d’altra parte un personaggio ‘pericoloso’, in quanto egli non fa affidamento su nessuna autorità, sia essa divina o umana. Vediamo adesso nel dettaglio come Aiace mostri la sua natura sovversiva nel suo modo di relazionarsi con questi due poteri. Affrontiamo per primo il problema del rapporto con il potere divino. Nel dialogo tra il corifeo e il nunzio quest’ultimo riporta le parole dell’eroe, dimostrando come egli abbia peccato di tracotanza rifiutando l’aiuto degli dèi (vv. 762-765): «Padre, con il favore degli dèi anche chi è nulla può riportare vittoria; io ho fiducia di ottenere la gloria pur senza di essi. Così si vantava, con orgoglioso discorso». Aiace viene dunque punito perché vuole essere egli stesso l’artefice delle proprie vittorie. La sua rivendicazione di autonomia rispetto al potere divino andava a cozzare con il sistema valoriale greco, secondo cui l’uomo per riuscire nei suoi intenti non poteva contare solo sulle proprie forze, in quanto essere limitato, ma doveva sempre affidarsi e sperare nella benevolenza divina. Si fanno portavoce di questa filosofia nel testo Odisseo (vv. 34-35: «in tutto, nel passato come nel futuro, io mi lascio guidare dalla tua mano») e il padre di Aiace Telamone (vv. 760-761: «Figlio, abbi la volontà di vincere con la tua lancia, ma di vincere sempre con l’aiuto del dio»). A mio avviso, la follia di Aiace non si configura solo come rimedio adottato dalla dea per proteggere gli Atridi, ma anche come punizione per aver peccato di hybris. Questo si evince dal confronto con un episodio celebre dell’Iliade (I, vv. 193-218), in cui assistiamo all’intervento di Atena, che afferra per i capelli Achille per impedirgli di uccidere Agamennone. La dea ferma quindi l’eroe, ma non lo umilia in nessun modo per il suo comportamento, cosa che invece fa con Aiace. Inoltre, a differenza di quest’ultimo, il Pelide si dimostra razionale e rispettoso nei confronti della divinità, nonostante la menis che lo pervade, accettando l’esortazione di questa a non continuare (vv. 216-218): «Rispettare la vostra parola è necessario, o dea, anche se uno è molto adirato nel cuore […] / chi obbedisce agli dèi, questi molto lo ascoltano». Potremmo dire, utilizzando termini orlandiani, che la divinità agisce nella tragedia sofoclea da forza repressiva: Atena ammonisce Odisseo, e dunque anche lo stesso spettatore, a non compiere l’errore di Aiace, in quanto gli dèi possono in qualsiasi momento ribaltare il destino di un uomo (vv. 127-131):

<<Quanto hai visto ti insegni dunque a non proferire mai contro gli dèi alcuna parola arrogante e a non sollevarti ad orgoglio […] un giorno solo basta a piegare tutte le cose umane e ad innalzarle di nuovo. Gli dèi amano gli uomini saggi e odiano i malvagi>>.

La tragedia di Aiace fungerebbe dunque da exemplum per rimarcare la superiorità del potere divino, a cui è necessario rifarsi per sperare nella sua benevolenza, rispetto a quello umano. Con il discorso finale di Aiace (vv. 815-885) il testo sembra voler mitigare implicitamente quell’indipendenza dai tratti blasfemi che l’eroe aveva manifestato nel corso della tragedia nei confronti degli dèi, per farlo rientrare all’ultimo all’interno della morale tradizionale. Aiace riconosce qui esplicitamente di aver bisogno del potere divino per realizzare le sue ultime volontà. Prima di uccidersi egli si rivolge al mondo delle cose eterne, e si appella in particolar modo a Zeus affinché il fratellastro Teucro prenda il suo corpo per dargli degna sepoltura, e alle Erinni, perché lo vendichino dopo la sua morte.

Saranno invece gli Atridi a mettere in risalto nei loro discorsi il pericolo rappresentato da Aiace per il potere politico costituito. Secondo studiosi come Gherardo Ugolini, gli Atridi incarnerebbero nella tragedia il sistema valoriale su cui si basava l’ordinamento della polis e a cui il personaggio dimostra di non sapersi adattare. Vediamo nel testo come Agamennone difenda il principio democratico che aveva determinato l’assegnazione delle armi di Achille a Odisseo (vv. 1240-1244):

[…] se non vi piacerà mai, neppure sconfitti, di cedere alla sentenza decretata dalla maggioranza dei giudici, ma sempre ci assalirete con ingiurie o ci pungolerete in modo fraudolento, voi, i perdenti! Sulla base di simili costumi, certo, non vi sarebbe mai stabilità di legge alcuna se ricacciassimo indietro coloro che vincono con giustizia e mandassimo avanti chi viene dopo.

Menelao sottolinea poi l’importanza che rivestono il timore e il rispetto nei confronti dell’autorità e delle sue leggi per il buon funzionamento dello stato (vv. 1066-1084):

Eppure, si comportava da cattivo cittadino l’uomo del popolo che giudichi giusto non obbedire ai capi. Infatti, non avrebbero mai efficacia le leggi in uno stato dove non sia radicato il timore, né potrebbe più essere governato con disciplina l’esercito a cui venga meno la protezione della paura e del rispetto. […] Là dove sia consentito insolentire e fare ciò che si vuole, credi pure che questa città, anche se corra con venti propizi, finirà un giorno per precipitare nell’abisso.

L’appello dell’Atride alla paura e all’obbedienza come strumenti per il mantenimento dell’ordine cittadino si rifarebbero, secondo alcuni studi, a dei topoi tipici della propaganda democratica del V secolo12. La legittimità delle teorie espresse dal re spartano viene ribadita nel testo dal coro (v. 1090: «Menelao dopo aver stabilito saggi principi»), che come sappiamo, nelle tragedie greche si fa molto spesso portavoce di valori medi. Per il funzionamento dello stato è necessario che il singolo rinunci in parte alla propria autonomia individuale e alle proprie attitudini personali in cambio di una sovranità condivisa all’interno della comunità politica. Questo discorso vale oggi come valeva nell’Atene del V secolo. Aiace è chiaramente incapace di accettare per sé queste idee di sottomissione alla maggioranza e di obbedienza, necessarie per la convivenza sociale. La natura dell’eroe è radicata in un sistema di valori eroico-aristocratico, che risulta essere ormai anacronistico rispetto all’ordine su cui si basava la polis, in cui «l’areté individuale si è era trasformata nell’areté collettiva»13. Come rimarca lo studioso Bernard Knox: «Ajax is indeed unfit for the new age, the political institutions which impose rotation and cession of power, which recognize and encourage change»14; cambiamento a cui, come abbiamo visto nella Trugrede, Aiace si sottrae dandosi la morte. Uno degli attributi fondamentali che l’uomo della polis doveva possedere era infatti proprio l’adattabilità, incarnata qui da Odisseo; non a caso uno degli epiteti omerici di Odisseo è polytropos (‘scaltro’, ‘versatile’) a cui si contrappone l’attitudine del protagonista, che è descritto dal coro come dystrapelos (v. 913, traducibile come ‘intrattabile’, ‘testardo’, letteralmente ‘difficile a girare’).

Aiace non è il solo nella tragedia a dimostrare una cieca intransigenza: gli Atridi condividono questo atteggiamento (al v. 1357 Odisseo definisce Agamennone come un uomo dal «cuore inflessibile»), insieme anche all’orgoglio oltremisura, che li porta a peccare di hybris. Essi si si sono decisi infatti a negare il rito funebre all’eroe in nome di quello che appare dalle parole di Agamennone (v. 1348) e di Menelao, come un vile desiderio narcisistico di vendetta (vv. 1063-1065: «E se non potemmo piegarlo da vivo, su lui morto […] avremo dominio intero, guidandolo passo per passo con le nostre mani»). Ecco che le colpe di un’individualità prorompente, a cui l’uomo avrebbe dovuto rinunciare in nome del bene comune, del funzionamento della polis, si ripresentano in due personaggi che idealmente dovrebbero esserne privi, in quanto rappresentanti del potere politico. Sofocle ci racconta dunque, insieme alla fine tragica di Aiace, anche dei rischi in cui può incorrere lo stato, che può diventare facilmente terreno fertile per personalismi e giochi di potere. È in questo contesto che spicca per opposizione la figura di Odisseo, che, a differenza degli Atridi, si mostra imparziale e corretto nei confronti dell’eroe e del suo corpo. La rettitudine morale degli Atridi viene messa ulteriormente in discussione nel testo dall’accusa da parte di Teucro ad Agamennone di aver manipolato i voti, affinché le armi toccassero a Odisseo (v. 1137): «Si, perché fu provato che tu con la frode manipolasti i voti a suo danno»; la decisione non sarebbe stata dunque il risultato di una volontà generale ma personale. Peraltro, già Aiace all’inizio della tragedia aveva denunciato la frode (vv. 440-444): «Se Achille vivo, come premio del valore avesse dovuto aggiudicare le sue armi a qualcuno, nessun altro le avrebbe prese al posto mio. Ora invece gli Atridi le hanno assegnate con l’intrigo a un uomo d’animo malvagio». Il fatto che l’accusa ricada su dei personaggi già di per sé connotati in maniera così negativa porta evidentemente lo spettatore ad abbracciare con poche riserve le parole di Teucro. Indirettamente anche Odisseo riconoscerà alla fine della tragedia l’errore compiuto nel non conferire le armi ad Aiace (vv. 1340-1341): «io vidi in lui solo il più valoroso fra gli Argivi, quanti giungemmo a Troia, tranne Achille».

La morte di Aiace sancisce la fine di un mondo, quello dell’Iliade e dei suoi eroi omerici, che metteva al centro il valore guerriero dell’individuo e tutto ciò che era ad esso legato (coraggio, audacia, senso dell’onore, forza fisica). A questo mondo se ne sostituisce un altro, quello della polis, in cui diventano fondamentali qualità ‘interiori’ come la prudenza, la saggezza e la capacità oratoria. Questo però non significa che il mondo appena passato non abbia più niente da insegnare al mondo presente, e quindi, indirettamente, anche a noi post-moderni. Seppur in forma estremizzata, esso dà voce attraverso l’eroe ad alcune importanti virtù umane: l’importanza del rigore morale verso se stessi e gli altri; il valore sacro dei patti e dei rapporti di amicizia; il coraggio di prendere la vita nelle proprie mani, ritenendo inaccettabile la prospettiva di un’esistenza mediocre.

Note

1 Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura.
2 Sofocle, Aiace, Medda (a cura di), p. 6.
3 Paduano, La nascita dell’eroe, p. 29.
4 Sofocle, Le tragedie: Tutto il teatro di Sofocle, Tonelli (a cura di), p. 6.
5 Paduano, La nascita dell’eroe, p. 49.
6 Cfr. Sofocle, Aiace, Medda (a cura di), n. 38, p. 153.
7 Euripide, Ifigenia in Aulide, 1250-1252.
8 Cfr. Paduano, La nascita dell’eroe, p. 11.
9 Cfr. Reinhard, Sophokles, p. 32: «Dem Aias öffnen plötzlich sich die Augen, er erkennt die Welt, doch nicht, um als Erkennender sich in sie einzufügen, nicht um ihrer Ordnung sich zu beugen, dem ‘Erkenne dich selbst’ zu folgen, sondern um in ihr das Fremde, Gegenteilige zu sehen, woran er nur teilhaben könnte, wenn er nicht mehr Aias wäre».
10 Paduano, Aiace. L’io come assoluto, in XLVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche Teatro Greco di Siracusa.
11 Il teatro greco. Tragedie, p. 31.
12 Ugolini, Aspetti politici dell’Aiace sofocleo, p. 20.
13 Knox, The Ajax of Sophocles, p. 25
14 Ibidem.

Bibliografia

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-G. Paduano, La nascita dell’eroe, Milano, BUR, 2020.
-G. Paduano, Aiace. L’io come assoluto, XLVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche Teatro Greco di Siracusa, Convegno Internazionale di Studi sul Dramma Antico ‘Le ragioni della follia. La vergogna e la colpa’, Venezia: 18-19 marzo 2010, a cura di Ferdinando Balestra, coordinamento di Giuseppina Norcia, Geny Tipolitografia, Canicattini Bagni, 2010.
-Il teatro greco. Tragedie, con un saggio introduttivo a cura di G. Paduano, Milano, BUR, 2006.
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-Sofocle, Aiace, E. Medda (a cura di), Milano, BUR, 2010.
-Sofocle, Le tragedie, A. Tonelli (a cura di), Venezia, Marsilio, 2014.
-G. Ugolini, Aspetti politici dell’Aiace sofocleo, quaderni di Storia 21 n° 42, 1995.