[ ll testo che proponiamo è comparso originariamente su Filologia Antica e Moderna 16 (1999). Christian Rivoletti è docente di Filologia Romanza e Letterature Comparate presso le Università di Saarbrücken ed Erlangen in Germania. In questo articolo, l’autore presenta un’interessante e originale riflessione sui possibili nessi tra teoria della ricezione e la proposta critica di F. Orlando riguardo l’applicazione degli sviluppi della bi-logica di I. Matte Blanco all’analisi del testo letterario (L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Einaudi 1998) ]
L’ultimo libro di Francesco Orlando presenta il raro pregio di possedere due caratteri che difficilmente riescono a coniugarsi nella produzione saggistica di ambito letterario. Se risulta infatti incontestabile che ci troviamo di fronte ad un libro piacevole a leggersi e che riesce nel suo dichiarato proposito a raggiungere la più vasta platea di «lettori non specialisti»[i], è forse meno immediatamente evidente, ma a mio giudizio ugualmente innegabile, la presenza di un altro aspetto, che interessa più da vicino chi si occupa ‘per professione’ di critica letteraria.
Mi riferisco all’esemplarità del metodo interpretativo, offertoci tramite l’analisi condotta su di un capolavoro della narrativa occidentale. È superfluo ricordare come alcuni studi rivestano un’importanza per così dire duplice: come riuscite interpretazioni di uno o più testi, capaci quindi di far luce su caratteristiche fondamentali delle opere e più in generale dei loro autori, e, al tempo stesso, come modelli di indagine del fenomeno letteratura, passibili, in questo senso, di astrazioni tese ad individuare i criteri sui quali si basa il procedimento analitico attuato. La grande opera di Auerbach sul problema della rappresentazione della realtà e il breve saggio di Contini sul modo di «lavorare» dell’Ariosto sono solo due esempi, contrapposti per dimensioni – oltre che diversi per le ‘strategie’ adottate – ma entrambi ‘forti’, di tale sorta di studi.[ii]
La scelta è arbitraria e gli esempi si potrebbero ovviamente moltiplicare, ma, ho il sospetto, avvicinandoci al presente, che dovremmo constatare quanto l’importanza relativa di tali studi diminuisca contro il progressivo avanzare di un’altra produzione: quella degli scritti di pura teoria. Anche di fronte allo specifico problema, forse avvertito più in campo internazionale che in quello italiano, della proliferazione di teorie, spesso a danno della pratica dell’interpretazione, la mancata rinuncia di questo libro all’uno o all’altro versante mi pare rappresenti una risposta importante.
Risposta che per l’autore costituisce un modo ormai usuale di procedere da oltre trent’anni, come testimoniano gli altri suoi lavori, pur su livelli assai diversi. Dalle dimensioni relativamente piccole dei testi teatrali della Phèdre di Racine o del Misanthrope di Molière[iii] a quelle pressoché smisurate della Recherche di Proust[iv] o, in ambito melodrammatico, del Ring des Nibelungen di Wagner,[v] rimane costante la cifra di un’analisi interpretativa che viene sottoposta ad una verifica continua sul piano delle questioni teoriche. Rispetto a tali esempi, pur omogenei a quest’ultimo per adozione di criteri teorici, la lettura del Gattopardo consiste in uno smontaggio per la prima volta completo e minuzioso di tutto il testo, in un’analisi svolta programmaticamente ‘a tappeto’ e con un’aderenza strettissima all’oggetto. L’applicazione di un metodo siffatto non poteva non nascondere elementi e risultati la cui portata e fecondità teorica merita di essere attentamente vagliata.
I. La prospettiva del lettore
Il punto di partenza, alla base di quello che ho indicato come un difficile connubio, mi pare consista nell’assumere rigorosamente la prospettiva del lettore.[vi] La domanda fondamentale che Orlando pone all’inizio del primo capitolo ed alla quale, pur fornendo immediatamente una prima risposta, continuerà in effetti a rispondere attraverso l’intero libro riguarda proprio i ‘milioni’ di lettori che il romanzo ha conosciuto nei suoi finora ininterrotti quarant’anni di successo: a che cosa si sono interessati, qual è il congegno che desta le loro attese? Se la risposta che ci viene fornita immediatamente è densa e sintetica («[i]l riflesso intimo di un tempo quotidiano, storicamente significativo, entro una coscienza»[vii]), infinitamente minute e analitiche saranno le vie d’indagine intraprese per spiegarla meglio, proprio come un ramificatissimo sistema capillare volto a ripercorrere l’intero capolavoro.
Ci viene preliminarmente comunicato che l’ordine in base al quale il testo viene, per così dire, riattraversato è di tipo «paradigmatico»: piuttosto cioè che seguire l’ordine naturale di successione delle frasi (definito, per opposizione, «sintagmatico»[viii]), si accostano citazioni provenienti anche da passi distanti tra loro molte pagine, «a condizione che una qualche costante […] giustifichi»[ix] tale accostamento. L’analisi procede dunque sistemando l’uno accanto all’altro luoghi del testo che si richiamino in virtù anche di un solo tratto in comune, quasi in un’attenta e meticolosa ricerca di «costruzione-di-coerenza».
L’espressione è tratta da un’opera fondamentale nell’ambito della teoria letteraria degli ultimi tre decenni dedicata alla figura del lettore ed al relativo problema della ricezione: L’atto della lettura di Wolfgang Iser.[x] Sia detto subito e a scanso di equivoci: mi rendo perfettamente conto che la proposta metodologica dell’anglista e teorico tedesco si situa su latitudini infinitamente distanti e per certi versi opposte rispetto a quelle di Orlando; per il concetto a cui faccio riferimento, in particolare, si osserverà senza indugio che la prospettiva fenomenologica nella quale si muove Iser tende a considerare tale «costruzione» proprio nel suo compiersi, attraverso i procedimenti attuati durante la lettura, e ne nega un’oggettiva appartenenza all’opera in sé. Nel caso di Orlando si dovrà invece pensare a tale «coerenza» come ad una prerogativa dell’opera, anzi del capolavoro in quanto tale (entrando implicitamente in gioco la problematica del giudizio di valore), e di conseguenza l’espressione andrebbe piuttosto riformulata in «ri-costruzione di coerenza».
Ma ciò che mi interessa qui sottolineare, al di là delle assolutamente non trascurabili differenze, è il carattere fondamentale che assume tale ricerca di coerenza quando si ponga attenzione al rapporto che intercorre tra l’opera e il lettore. Se infatti la coerenza è interna al testo, è però il lettore stesso a trovarsi, per così dire, in perpetua esigenza di conforto, a riandare spontaneamente (e, a seconda dei casi, più o meno consapevolmente) con la memoria a luoghi del testo che presentino un qualche tratto analogo con quello che sta percorrendo. Seguire dunque tale individuazione delle costanti di un testo vorrà dire al tempo stesso rispondere nel modo più genuino alla domanda sull’«interesse» dei lettori.
Il punto sul quale i due teorici concordano è la preminenza dell’operazione di collegamento degli elementi testuali rispetto ad altre operazioni interpretative (quali ad esempio la sostituzione[xi]): spostarsi orizzontalmente lungo l’asse della narrazione, sospendendo temporaneamente la dimensione diegetica, è operazione compiuta programmaticamente e sistematicamente dal critico, come vuole Orlando, ma è anche, e innanzitutto, procedimento proprio dell’atto della lettura, come vuole Iser e come Orlando sottintende continuamente.
Che cosa accade precisamente durante il «flusso temporale della lettura»[xii]? In quali termini possiamo descrivere l’«interazione dinamica fra testo e lettore»[xiii] che abbiamo evocato? Su questo Iser ci fornisce un’indicazione fondamentale: «i segni linguistici e le strutture del testo esauriscono la loro funzione nell’innescare atti che sviluppano la comprensione». Il successo del discorso letterario – la cui «natura comunicativa e sociale è indiscutibile»[xiv] per entrambi i teorici – dipende dalla sua capacità «di attivare [nel lettore] le facoltà individuali di percezione»[xv] e, si potrebbe dire, di ‘metabolizzazione’, attraverso le quali il testo si trasferisce nella sua coscienza. È la condizione stessa di ‘indeterminatezza’, in un certo senso di ‘incompletezza’, delle singole immagini di un testo letterario (distinte e, sotto questo aspetto, rigorosamente opposte alle immagini di oggetti reali) a rendere necessaria per il lettore l’operazione di accostamento tra la zona testuale che sta attraversando e quelle già attraversate, che fanno ormai parte della sua memoria.[xvi] Proprio tramite queste continue operazioni di sintesi (che secondo Iser avvengono «al di sotto della soglia della coscienza»[xvii]), l’oggetto estetico si trasferisce gradualmente nella coscienza del lettore.
A partire da questi presupposti, Iser descriverà i processi della fruizione muovendosi in un ambito nel quale elementi di teoria linguistica convergono con strumenti della filosofia fenomenologica – allontanandosi ampiamente, di conseguenza, dal metodo utilizzato da Orlando – non giungendo mai, però, a superare del tutto l’osservazione secondo cui
il testo non […] specifica come la connettibilità dei ricordi dev’essere compiuta. Questo è il campo d’attività del lettore stesso [in cui] l’attività di sintesi […] consent[e] al testo di essere tradotto e trasferito nella sua stessa mente[xviii].
La pur suggestiva e dettagliatissima analisi del processo di lettura compiuta da Iser non ci dice niente di preciso, dunque, sui criteri in base ai quali le zone testuali attivano nel lettore la facoltà di operare accostamenti, in altre parole di reperire, più o meno consapevolmente[xix], elementi che inducano a mettere a confronto tra loro passi diversi di una stessa opera.
Potrebbe apparire paradossale, dato il suo carattere indiscutibilmente più empirico, ma è proprio l’analisi svolta da Orlando a dirci in proposito molto di più. L’ipotesi che il discorso letterario partecipi di ‘forme logiche alternative’ rispetto alla cosiddetta ‘logica aristotelica’ permette di ricercare e di individuare le ‘regole’ in base alle quali si compiono i collegamenti. Regole che – e qui si comprende l’apparente paradosso a cui facevamo riferimento – pur essendo sottoposte a due princìpi essenziali, vanno di volta in volta definite empiricamente in base al singolo gioco di costanti creato dal testo. I presupposti teorici che vengono qui chiamati in causa sono desunti dall’opera di Ignacio Matte Blanco, che fornisce una descrizione della mente umana e del suo funzionamento interamente orientata a illuminare le strutture logiche dell’inconscio – con termine che viene ridefinito in modo ancor più efficace rispetto allo stesso Freud.[xx]
Secondo tale teoria – della quale sarà necessario enunciare, pur molto sinteticamente, alcuni elementi – il pensiero non opera basandosi solo sui princìpi propri della logica scientifica (o aristotelica che dir si voglia), ma condivide princìpi appartenenti ad un altro sistema logico, caratteristico dell’«essere inconscio», e tuttavia non impossibile da descrivere. La rilettura dell’opera di Freud compiuta da Matte Blanco mira infatti ad individuare economicamente le leggi fondamentali che, su base strettamente logica, permettono di ricostruire il funzionamento del «sistema inconscio» e, conseguentemente, di giustificare e spiegare l’origine di tutte le caratteristiche che Freud gli aveva già attribuito come «peculiari».[xxi] Vediamo come viene definito il primo dei due princìpi a cui facevo riferimento:
[principio di generalizzazione:]
Il sistema inconscio tratta una cosa individuale (persona, oggetto, concetto) come se fosse membro o elemento di un insieme o classe che contiene altri membri; tratta questa classe come sottoclasse di una classe più generale e questa classe più generale come sottoclasse o sottoinsieme di una classe ancor più generale e così via[xxii].
Matte Blanco stesso osserva la sostanziale identità di questo tipo di pensiero con quello propriamente scientifico, ma fa seguire immediatamente una precisazione – assai preziosa per il nostro discorso – relativa ad un «frequente» modo di applicare tale principio, adottato dalla logica dell’inconscio:
[applicazione del primo principio]:
Nella scelta di classi e di classi sempre più ampie il sistema inconscio preferisce quelle funzioni proposizionali che in un aspetto esprimono una generalità crescente e in altri conservano alcune caratteristiche particolari della cosa individuale da cui sono partite[xxiii].
Caratteristica del sistema inconscio si profila quindi una salda coesione di tendenze generalizzanti e di pertinaci fedeltà a singoli particolari: vedremo in seguito quanto questa singolare commistione risulti centrale per la comprensione del processo di lettura.
Intanto andrà precisato che è l’interazione simultanea di questo primo principio con un secondo – il quale veramente «rappresenta la più formidabile deviazione dalla logica» aristotelica o del pensiero cosciente – a determinare nella sua forma più ‘pura’ il prodotto mentale del sistema inconscio. Di questo secondo principio (che consiste nel trattare ogni relazione come se fosse identica alla relazione inversa), detto da Matte Blanco «principio di simmetria», prendiamo in considerazione un diretto corollario:
[principio di simmetria, corollario II2a]:
Quando si applica il principio di simmetria, tutti i membri di un insieme o di una classe sono trattati come identici tra loro e identici all’insieme o classe; quindi sono intercambiabili […] rispetto alla funzione proposizionale che determina o definisce la classe[xxiv]
Ovvero: tra due elementi individuali, purché possiedano anche un solo attributo in comune (tale da determinarne l’appartenenza ad una medesima classe), la logica del sistema inconscio stabilisce un rapporto di identità (attenzione: non di analogia o di somiglianza, operazione accettabile anche per i criteri del pensiero cosciente, ma di vera e propria identità).
Non avrei parlato sopra di «descrizione della mente umana» (intendendo quindi una teoria che tende a presentarsi come esaustiva) e, soprattutto, il discorso di Matte Blanco non potrebbe rivelarsi produttivo per lo studio della letteratura, se in gioco fosse soltanto la logica del sistema inconscio (sulla quale, per ovvi motivi, l’intento chiarificatore dell’autore insiste di più) e non piuttosto la relazione, il continuo alternarsi, il delicato equilibrio esistente tra i due «tipi di pensiero». Il problema che attraversa come un filo rosso l’intera opera è quello del rapporto di una logica che viene ridefinita, sulla base dell’importanza ricoperta dal suo principio più sconvolgente, «simmetrica» (e quindi non più necessariamente dell’inconscio, almeno in senso strettamente freudiano[xxv]), con una logica a noi sinora più nota, ma non per questo più intimamente ‘familiare’, denominata per opposizione «asimmetrica». Per dirla con le parole dello stesso Matte Blanco, che introducono letteralmente la questione da affrontare nel prossimo paragrafo,
la natura dell’uomo […] appare costituita da una parte generalizzante, che ci immette nei simboli e una parte limitante, che conduce ad un pensiero preciso (asimmetrico). Solo nell’interazione tra queste due parti possiamo capire i fenomeni umani[xxvi].
2. Funzioni del simbolico e costanti tematiche
Se il procedimento simbolico del collegamento tra classi logiche di dimensioni sempre più ampie, descritto da Matte Blanco come caratteristica di una parte del pensiero umano, è stato così lucidamente messo a frutto nell’ambito della creazione e della ricezione artistica da Orlando, dobbiamo riconoscergliene sicuramente il merito, non tuttavia un primato assoluto e incontrastato. Così è, perlomeno, se si accettano come conferma ante litteram dell’esistenza della logica simmetrica intuizioni pur parziali, o implicite, presenti in numerose opere e scritti che occupano una posizione ben consolidata nella tradizione occidentale. Tra le più vistose, ad esempio, funzionerebbe – a detta dello stesso Orlando – con un continuo alternarsi di simmetrico e asimmetrico il complesso sistema leitmotivico su cui poggia l’intera tetralogia wagneriana[xxvii].
È pensando all’alto livello di consapevolezza del proprio modo di operare, che mi sono richiamato all’esempio di Wagner (e se ne potrebbero ovviamente affiancare altri): mi interessa qui indagare il problema attraverso quello che potrebbe venir indicato come il piano dell’‘autocoscienza poetica’. È per questo che vorrei ripercorrere alcune pagine famose di Goethe: all’interno della raccolta solitamente nota con il titolo Maximen und Reflexionen, quelle in cui il poeta riflette sul ruolo del «simbolico»[xxviii] nella letteratura. Sono pagine la cui densità e quasi inesauribile profondità è stata più volte sondata dalla critica: attraversarle nell’ottica che qui ci interessa, imporrà subito due precisazioni preliminari.
La prima è una semplice delimitazione del nostro campo di riflessione. Se intendiamo la letteratura come un evento che si articola attraverso due sfere dell’attività umana, una cosiddetta della ‘produzione artistica’ e l’altra cosiddetta della ‘ricezione artistica’, ci interesserà focalizzare, nel discorso di Goethe, solo il secondo versante[xxix]. Sarebbe infatti fecondo, oltreché assolutamente possibile, prendere in considerazione le implicazioni relative al versante della produzione[xxx]; ma ciò uscirebbe risolutamente dall’impostazione del problema quale è stata definita nel primo paragrafo.
La seconda precisazione verte sulla modalità di approccio alle massime goethiane. Nell’indagine delle valenze simboliche, ci terremo al di sopra della distinzione, relativamente giovane all’interno della storia della retorica e dell’estetica, tra simbolo e allegoria. Le riflessioni del poeta tedesco, com’è noto, si collocano storicamente sulla soglia di tale contrapposizione; ma in realtà, come vedremo, non è tanto l’opposizione con l’allegoria a risultare centrale per il nostro discorso, quanto piuttosto l’analisi dei caratteri in sé e per sé che Goethe attribuisce al simbolo.[xxxi]
Premesso questo, leggiamo la prima citazione dalle tre massime attorno a cui ruoterà la nostra analisi:
Es ist ein großer Unterschied, ob der Dichter zum Allgemeinen das Besondere sucht oder im Besondern das Allgemeine schaut. Aus jener Art entsteht Allegorie, wo das Besondere nur als Beispiel, als Exempel des Allgemeinen gilt; die letztere aber ist eigentlich die Natur der Poesie, sie spricht ein Besonderes aus, ohne ans Allgemeine zu denken oder darauf hinzuweisen. Wer nun dieses Besondere lebendig faßt, erhält zugleich das Allgemeine mit, ohne es gewahr zu werden, oder erst spät[xxxii] (corsivi miei).
La letteratura conosce una modalità di espressione del particolare che, pur non tradendo minimamente la sua concreta individualità, contiene in sé la facoltà di sprigionare dimensioni di validità universale. Dalla «natura dell’uomo» alla «natura della poesia», come la definisce Goethe, dall’indagine complessiva del funzionamento dei processi psichici a quella più ristretta del fenomeno letterario, il trapasso è reso possibile grazie alla condivisione della modalità logica simmetrica. Non sappiamo se Matte Blanco avesse presenti le note riflessioni di Goethe (e comunque non vengono citate nella sua opera): fatto sta che l’analisi del pensiero umano da lui compiuta e la coscienza del poeta relativa ai procedimenti simbolici caratteristici del fatto letterario indicano che la comunanza tra i due ambiti è da ricercare proprio laddove il modo logico simmetrico interagisce con la logica del «pensiero preciso».
Il particolare, pur restando se stesso, rimanda, e non in modo esplicito («ohne ans Allgemeine zu denken oder darauf hinzuweisen»), all’universale: è ciò che ci dimostra Orlando, più volte, nel corso della sua puntuale analisi del Gattopardo. Vi si sofferma in particolare nel secondo e nel terzo capitolo, a proposito rispettivamente delle coordinate spaziali (la Sicilia: «da una periferia […] a ciò che, pur restando vivamente individuato, tende a diventare la periferia»[xxxiii]) e temporali (il 1860 «conta per la rivoluzione mancata, restando come di regola una rivoluzione mancata individuatissima»[xxxiv]) attraverso le quali si snoda la vicenda. Ma le dimensioni stesse della questione, che in sostanza consiste nel «riproporre su postulati insoliti il problema non nuovo dell’universalità dell’arte»[xxxv], fanno sì che essa campeggi sullo sfondo dell’intera indagine interpretativa dedicata al romanzo e ci obbligheranno a tornare sull’argomento in modo più esteso.[xxxvi]
Per il momento, venendo di nuovo alla massima che stiamo analizzando, mi limiterò a far osservare la presenza di un altro aspetto importante per la nostra riflessione. Goethe tiene a precisare che il passaggio dal particolare all’universale avviene in modo inconsapevole, o al limite investe una presa di coscienza tardiva («ohne es gewahr zu werden, oder erst spät»). Troviamo ribadita la caratteristica dell’inconsapevolezza come tendenza propria degli accostamenti che si producono durante il processo di lettura[xxxvii]: trattandosi di attività regolate dalla logica propria di quello che Freud definì ‘l’inconscio’, resta naturale, anche nella concezione matteblanchiana, che «ai livelli più profondi» il modo simmetrico sia più liberamente e massicciamente operante che al di sopra della soglia della coscienza. Se la tendenza verso «insiemi infiniti» ‘scatta’ decisamente a livello inconsapevole[xxxviii], non sarà tuttavia impossibile, è qui l’importanza dell’apporto di Matte Blanco (e preziosa in tal senso l’aggiunta finale di Goethe, «oder erst spät»), far presente quel modo di pensare al livello cosciente della mente.[xxxix]
Anche per questo aspetto non poteva mancare un esplicito riscontro puntuale nel discorso di Orlando: lo troviamo a proposito del primo dei due esempi sopra riferiti, quello relativo alle coordinate geografiche.
Espansione di significato non necessariamente portata a coscienza dal lettore – il quale non avrà in mente che la Sicilia, o un’isola così denominata se ne conosce solo il nome. Ma da vicino o da lontano, e con la sola eccezione di letture viziate da un particolarismo di principio, credo che nessuno legga il romanzo senza effettuare quell’inconsapevole estensione.[xl]
Attività del lettore durante il processo di fruizione, suo incessante operare accostamenti, spesso inconsapevolmente, per approdare a categorie universali, senza tuttavia mai perdere di vista il succedersi di immagini concrete e ben individuate che gli propone l’opera.
Veniamo alla seconda citazione tratta da Goethe, prelevata stavolta da una massima assai più tarda della precedente, risalente agli anni della vecchiaia e pubblicata soltanto postuma:
Die Symbolik verwandelt die Erscheinung in Idee, die Idee in ein Bild, und so, daß die Idee im Bild immer unendlich wirksam und unerreichbar bleibt und, selbst in allen Sprachen ausgesprochen, doch unaussprechlich bliebe (corsivi miei)[xli].
Vorrei soffermarmi, più che sul processo genetico caratterizzato dalla duplice trasformazione, sugli effetti descritti come propri del procedimento simbolico[xlii]. La facoltà di risultare «infinitamente attivo»: difficile rendere in modo soddisfacente l’espressione tedesca «unendlich wirksam». Il verbo wirken infatti, accanto all’idea di «essere attivo», assume in questo caso il significato di «produrre un effetto su qualcuno», «suscitare una reazione» (non a caso il termine Wirkung è stato ripreso dall’estetica della ricezione)[xliii]. L’aggettivo che ne deriva, wirksam, indica dunque qui il rimanere infinitamente vivo e attivo e, al tempo stesso, la capacità di suscitare un effetto, una risonanza infiniti. Il modo simbolico è in grado di provocare un processo di interpretazione che lavora verso l’infinito (dimensione in sé e per sé «irraggiungibile»[xliv]).
Ma come funziona, in pratica, questa facoltà di destare una sorta di ‘rilancio’ continuo, iterato, tendente all’infinito? Goethe non ci dice niente di preciso e non ci offre nessun esempio concreto relativamente all’analitico svolgersi e articolarsi del processo a cui fa riferimento. Le indicazioni che ci fornisce lasciano pensare ad un procedimento in cui un’idea costante si rende capace di venir trasposta in figure e forme diverse («in allen Sprachen ausgesprochen») pur restando fedele a se stessa («und […] bleibt und […] doch […] bliebe»), di venir trasferita ripetutamente (il senso di wirken sembra assumere qui la connotazione di una «sich wiederholende Wirkung»[xlv]) in categorie diverse – non ci è detto se sempre più ampie o meno – tendenti all’universale.
Come avvenga nella realtà il dispiegarsi del modo simbolico, il passaggio di uno o più elementi individuali da una categoria all’altra, anzi, per dirla con Matte Blanco, da una «classe logica» all’altra, ci viene invece estesamente illustrato dall’analisi operata da Orlando. Proviamo a ripercorrere, per un breve tratto, alcuni insiemi o serie (o «classi logiche») che raggruppano le costanti individuate, seguendo la scomposizione del testo che ci viene proposta. Ho scelto costanti inerenti a caratteristiche interiori del protagonista, che lo studioso prende in considerazione nel primo capitolo del suo libro, e per ogni nutrito insieme di costanti ne ho selezionate una, al massimo due: ci interessa infatti il passaggio da una classe logica all’altra – piuttosto che la compiuta ricostruzione interna del singolo paradigma.
Fin dalla «frase che chiude la prima visione del personaggio»,[xlvi] Orlando fa notare la di lui cura per la pulizia (anche fisica o corporea):
un po’ di malumore intorbidò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere la vasta bianchezza del panciotto (pp. 24-25; 21)[xlvii]
Ci tornerà utile in seguito aver esteso l’esemplificazione di questa prima serie ad una seconda citazione riportata da Orlando, in cui troviamo la voce diretta di Don Fabrizio:
“un’altra volta gli agnelli portali direttamente in cucina; qui sporcano. […] vai a dire a Salvatore che venga a far pulizia […]. E apri la finestra per fare uscire l’odore” (pp. 53; 54)[xlviii]
Dall’esigenza di pulizia a quella di ordine (e a quella ad essa legata di prevedibilità) il passo è breve, a tal punto che l’aggettivo «pulito» può venir adeguatamente recuperato, sul piano metaforico, nella citazione che leggeremo. Se gli esempi di questa seconda serie, relativa all’esigenza di ordine e prevedibilità, possono salire, come afferma Orlando, «dall’orlo dell’insignificante» reperibile in particolari marginali, sino a livelli «astrali» (con riferimento agli «interessi quasi professionali» del protagonista[xlix], ma anche alla vivida rappresentazione della sua ‘forma mentis’), ciò non fa che confermare il dispiegarsi del «procedimento della ripresa periodica, costantemente variata, sotto forme che vanno dallo sviluppo inventivo al richiamo incidentale»[l].
E stiamo parlando proprio dei processi mentali del personaggio, per asserire che «solo un intellettuale può riuscire, rassicurando con fittizie spiegazioni tecniche figlia e familiari,»
a trasformare la guerra in un pulito diagramma di forze da quel caos estremamente concreto e sudicio che essa in realtà è (pp. 52; 52)[li]
Fin da questa citazione sarà opportuno introdurre un ulteriore piano problematico nella questione che stiamo esaminando. Come osserva Orlando, «la guerra» non rappresenta qui che un momento in cui il «caos concreto e sudicio» della realtà, della storia, si profila con particolare evidenza: esso non cessa mai però di vivere in strenua opposizione con le esigenze razionali di Don Fabrizio. Intuiamo dunque che i paradigmi che andiamo attraversando ed accostando l’uno all’altro relativamente al protagonista sono passibili di costituire un’unica uniforme serie alla quale si opporrà la serie delle costanti relative alle coordinate geografiche e storiche. E in realtà se ogni grande opera letteraria – verità radicata (consapevolmente o meno) nel senso comune di ogni lettore – vive delle proprie contraddizioni, sarà immediatamente chiaro che l’osservazione pertiene al livello teorico stesso del fenomeno che stiamo analizzando.[lii]
L’idea è che, durante il processo di lettura, non solo si verifichi un reperimento di costanti, ma che esse vengano, magari ‘segretamente’, però sempre, considerate «a due a due, in contrapposizione affettivamente non neutra». Tanto più segretamente, quanto più si può verificare che «ognuna delle due serie tematiche viv[a], non solo in praesentia, ma anche in absentia, del proprio rapporto oppositivo con l’altra»[liii]: situazioni entrambi ben documentate nella lettura del Gattopardo compiuta da Orlando.
L’osservazione ci accompagnerà nell’analisi degli ultimi esempi. Se per brevità saltiamo i riferimenti che si spingono sino ad una ricerca di «prevedibilità assoluta» da parte del protagonista impegnato nei calcoli astronomici, non tralasceremo di notare come alla sua «regione di perenne certezza» (pp. 211; 222)[liv] si contrappone con forza il disordine dei fatti reali, in particolare degli eventi storici a cui assiste. Da qui la terza esigenza di Don Fabrizio, non lontano anch’essa dalla precedente: quella di ricerca del senso, del criterio di necessità sotteso agli eventi.
Si fa sentire all’irruzione stessa dei fatti politici, nel modo più materiale e crudele: “il corpo sbudellato”, la “faccia deturpata” del soldato morto presso il giardino, torna a chiedere “che gli si desse pace nel solo modo possibile al Principe: superando e giustificando il suo estremo patire in una necessità generale”. Morire per qualcuno o qualcosa, “è nell’ordine; occorre però sapere o, per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi o per che si è morti […]; e appunto qui cominciava la nebbia” (pp. 28; 24-25)[lv]
Più repentino di quello di Orlando, il nostro trapasso da una categoria all’altra ci suggerisce ulteriori accostamenti tra i paradigmi, da lui solo implicitamente sfiorati. L’immagine del soldato sbudellato condensa in sé tratti pertinenti ad entrambe le serie precedenti. Nella mente del lettore, se un filo sottile la assocerà infatti all’opposizione tra il «caos […] concreto e sudicio» della guerra e il «pulito diagramma di forze» (a ribadire, se ce ne fosse bisogno, la «mala fede» delle spiegazioni di Don Fabrizio), una pagina dopo, sarà il rimando esplicito dell’autore – che segue di poche righe la seconda dell’intera serie delle nostre citazioni – ad accostarla all’insieme delle costanti relative alla cura della pulizia (anche fisica, corporea)[lvi].
La ricerca di senso, l’esigenza di sovrapporre al disordine del reale una griglia capace di estrarre il significato degli eventi, tocca il suo apice nell’ultima citazione esaminata da Orlando:
La prova sicura dei brogli elettorali, erompendo dal singolo voto violentato di Tumeo, non dovrebbe se non confermare e aggravare [il] disagio [morale del protagonista]. E invece abbiamo: “A questo punto la calma discese su Don Fabrizio che finalmente aveva sciolto l’enigma; adesso sapeva….” (pp. 108-110; 111-112); come se la calma non dipendesse per lui dalla qualità dei fatti, ma unicamente da una soluzione, da un sapere.[lvii]
Necessaria reazione alla realtà sociale che lo circonda, è infine l’ultimo paradigma relativo all’interiorità del protagonista: la sua propensione alla solitudine, in funzione della riflessione astratta. Ne preleverò un unico esempio. La parte settima, tutta dedicata al lento racconto della morte, si apre descrivendo l’ormai da tempo graduale insinuarsi di una «impercettibile perdita di vitalità» nella coscienza di Don Fabrizio, che, ci informa la voce del narratore, «non era per nulla sgradevole»
per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interiori (pp. 215; 223)[lviii]
Lo «sguardo» del protagonista, nella prima delle nostre citazioni viatico dall’intimità del personaggio al mondo fisico circostante, torna qui a consentire il passaggio inverso: da una concreta percezione della dimensione spaziale esteriore ad una metaforica di quella interiore, evocando e quasi condensando in una sola espressione solitudine, ricerca di ordine e di senso, propensione all’indagine e alla riflessione[lix]. La forte solidarietà, immediatamente visibile nel rapido accostamento dei vari paradigmi, che lega le singole serie di costanti, fa ‘scattare’ il perpetuo passaggio da una classe logica all’altra e da due o più classi particolari ad una sola in grado di comprenderle.
Il procedimento, che il lettore mette in atto accostando continuamente passi diversi del romanzo, funziona sempre però, come abbiamo visto, coinvolgendo coppie oppositive di costanti. Così, come se tendesse virtualmente – secondo la teoria matteblanchiana – all’infinito, tende a delineare in pratica due sole grandi serie tra loro contrapposte e ad approdare, in ultima analisi, ad un’unica grande opposizione, capace di includere la totalità delle coppie. I paradigmi relativi agli aspetti interiori di Don Fabrizio si lasciano quindi riassumere in una funzione proposizionale definibile sinteticamente come il carattere da intellettuale del personaggio; ad essa si vanno ad opporre, unificate e reciprocamente interagenti in una sorta di ‘cronotopo’ le qualità del momento storico nel quale vive e quelle del luogo di (in-)cultura che lo circonda. Quasi in un percorso circolare, l’opposizione capace di «reggere e di riassumere tutte le altre»[lx] viene a coincidere con la risposta da cui abbiamo preso le mosse nel primo paragrafo: ciò che desta le attese del lettore è «[i]l riflesso intimo di un tempo quotidiano, storicamente significativo, entro una coscienza». Scarnificando estremamente i termini: l’intimità versus la storia.
Ma di questa «opposizione delle opposizioni»[lxi], attraverso l’analisi delle costanti e delle varianti che costituiscono il tessuto vivo dell’opera, non abbiamo illustrato che uno dei due aspetti essenziali nel rapporto testo-lettore: quello appunto che agisce dipanandosi orizzontalmente lungo l’asse diegetico della narrazione. Esso coinvolge profondamente, come abbiamo visto, le strutture mentali del fruitore; eppure, nell’ipotesi da cui siamo partiti, andrà postulata l’esistenza di un secondo asse cardinale, orientato in modo da chiarici quella penetrazione a livelli ancor più intimi nell’animo di chi legge.
III. Sull’identificazione emotiva come «esperienza estetica primaria»
La natura dell’emozione
Illuminare la dimensione peculiare di tali livelli ci richiederà di fare nuovamente riferimento allo studio compiuto da Matte Blanco, che nella complessa ed ampia articolazione dedica l’intera parte sesta (la più estesa delle nove che compongono l’opera) all’indagine dell’emozione.
Il fenomeno emotivo ricopre un’importanza centrale nel tentativo di descrivere il funzionamento della mente umana praticato dallo studioso: nei suoi termini, esso infatti «coincide interamente con quell’aspetto della teoria psicoanalitica che concerne la relazione simmetrico-asimmetrico».[lxii] Se nell’ipotesi matteblanchiana l’emozione detiene un ruolo ‘chiave’ all’interno del rapporto tra le due logiche, approfondire questo aspetto ci potrà dire qualcosa di più sul processo della fruizione letteraria, nel quale abbiamo sinora osservato l’attiva interazione dei due tipi di pensiero. Nei precisi limiti dell’ottica definita dal nostro interesse, ricorderò succintamente alcuni punti salienti dell’impostazione psicoanalitica fornita da Matte Blanco.
Innanzitutto, egli prende atto dell’ampia oscillazione terminologica che caratterizza il campo di studi relativo al fenomeno emotivo: le distinzioni concettuali fornite dagli psicologi (riguardo a termini quali emozione, feeling, affetto, sentimento) non garantiscono affatto una sicura uniformità di definizioni, tale da consentire un uso ‘produttivo’ dei vari concetti[lxiii]. Analizzando piuttosto le proprietà generali che tali fenomeni hanno in comune, si osserva invece che «in ogni emozione sviluppiamo pensieri che esprimono la sua particolare natura e che possiamo, perciò, considerare come parte costitutiva di essa»[lxiv]. Dall’introspezione delle manifestazioni emozionali, nella loro interezza di eventi psicofisici, si perviene dunque all’individuazione di «due aspetti perfettamente differenti [che le compongono]: da una parte la percezione di una serie di eventi corporei e dall’altra una certa forma di pensiero»[lxv].
Matte Blanco decide quindi di ridefinire l’emozione come un fenomeno costituito da due componenti tra loro strettamente legati, ma distinguibili a fini didascalici: da un lato la sensazione-sentimento e dall’altro «una certa forma di pensiero» (vedremo più avanti le caratteristiche peculiari di tale forma). L’espressione composita ‘sensazione-sentimento’ sta ad indicare a sua volta la sostanziale unità di due esperienze psicologiche: se la prima (la sensazione) è infatti direttamente connessa a determinati organi sensoriali localizzati, la seconda (il sentimento, usato spesso peraltro nella letteratura come sinonimo, esso da solo, di ‘emozione’[lxvi]) è riducibile in ultima analisi ad un insieme di sensazioni meno localizzate e più diffuse. La natura fondamentalmente analoga di entrambe le esperienze permette dunque di considerarle come un unico componente, del quale ci troveremo a definire alcuni caratteri nella sezione successiva.
Chiuso questo sintetico ma indispensabile riferimento di ordine puramente teorico alla dottrina psicoanalitica, ci apprestiamo ad interrogare un’ultima volta le riflessioni di Goethe sul simbolico.
III. a Sull’emozione come «matrice del pensiero»
(Ancora qualche osservazione sulle massime goethiane)
Se la messa a confronto della teoria matteblanchiana con le idee di Goethe sul simbolico si è rivelata sinora produttiva, ciò non può che spingerci a proseguire l’analisi nella direzione già intrapresa, alla ricerca di ulteriori verifiche o di possibili approfondimenti. E in effetti ricade qui, dal secondo paragrafo, la promessa di una citazione dalla terza massima sul simbolico.
Tuttavia il problema, a cui facevo riferimento sopra, di una ‘fluttuazione’ terminologica a cui si va inevitabilmente incontro all’interno dell’argomento che stiamo affrontando, ci porrà di fronte a difficoltà ben maggiori rispetto a quelle riscontrate nell’analisi compiuta sulle due massime precedenti. Se l’assenza di modelli teorici ‘forti’ e capaci di imporre precise definizioni concettuali relativamente al fenomeno dell’emozione rischia continuamente di creare confusione all’interno delle discipline psicoanalitiche, tantomeno sono esentati da tale pericolo gli studi letterari (ne troveremo esplicite conferme nella sezione III. b. di questo paragrafo[lxvii]) e ancor più, come è naturale, le opere letterarie stesse (o, nel nostro specifico caso, la saggistica prodotta da un poeta).
Sarà necessario, proprio nel pieno rispetto del testo di Goethe, in certo qual modo ‘tradurre’, e quindi spiegare, attraverso gli strumenti teorici messi a disposizione da Matte Blanco, le parole del poeta, senza tradirne minimamente il senso e tentando piuttosto di indagarne le dimensioni più profonde.
Das ist die wahre Symbolik, wo das Besondere das Allgemeinere repräsentiert […] als lebendig-augenblickliche Offenbarung des Unerforschlichen (corsivo mio)[lxviii].
La pregnanza della doppia aggettivazione merita alcune considerazioni. Goethe non si limita ad accostare i due aggettivi («viva» e «istantanea»), bensì ne sottolinea l’intima e inscindibile connessione: se mi si passa la metafora, i due aspetti non vengono semplicemente ‘sommati’, è piuttosto un’operazione di ‘moltiplicazione’ tra i due elementi che designa l’effetto descritto («la rivelazione dell’insondabile»). Un rapporto di attiva caratterizzazione lega infatti saldamente l’aspetto della vitalità dell’evento a quello della sua istantaneità.
Tentiamo un primo confronto con le osservazioni di Matte Blanco. Nel distinguere le caratteristiche proprie del pensiero (che, in una sua «certa forma», ricordiamolo, costituisce il secondo componente dell’emozione) dal primo componente, lo studioso osserva:
il pensiero, composto da aspetti o parti, si sviluppa nel tempo mentre la sensazione-sentimento è semplicemente lì per un’istante e quest’istante […] è sentito non possedere la qualità temporale che comporta successione.[lxix]
Viene dunque stabilita una contrapposizione tra il carattere di istantaneità che contraddistingue il primo componente emotivo e quello di durata temporale, unica dimensione che consente al pensiero di operare, essendo esso «essenzialmente un processo analitico, che suddivide il suo oggetto nei suoi elementi»[lxx]. A ben vedere, reperiamo tale contrapposizione, seppur solo via negationis, nella definizione fornita da Goethe dell’oggetto della «viva e istantanea rivelazione»: das Unerforschliche, «l’insondabile», letteralmente «ciò che non è passibile di scoperta graduale» (Forschung). Sembrerebbe dunque che il pensiero rimanga totalmente escluso dalla modalità attraverso la quale si compie l’evento della rivelazione: ipotesi che non si accorda minimamente con quanto osservato sino ad ora a proposito del processo che regola il passaggio dal particolare all’universale.
Lasciamo per ora aperto il problema e proseguiamo la nostra analisi sui testi goethiani, alla ricerca di altri elementi che ci siano di aiuto. Abbiamo già incontrato il carattere di vitalità nella prima delle tre massime: «wer nun dieses Besondere lebendig faßt, erhält zugleich das Allgemeine mit». Notiamo che anche in questo caso la ‘vitalità’ è strettamente legata ad una dimensione temporale puntuale, espressa stavolta tramite un verbo (fassen). Anche in questo caso, inoltre, ‘vitalità’ e ‘istantaneità’ ricoprono un ruolo ‘chiave’ nel processo che porta dal particolare all’universale. Il verbo «cogliere» ci dice però qualcosa di più riguardo al problema che abbiamo lasciato in sospeso. Se ci volgiamo nuovamente all’indagine di Matte Blanco, troviamo che «cogliere» esprime sì un atto proprio del pensiero, tuttavia un atto particolare, contrapposto ad esempio a quello del ‘contemplare’ o dell’‘esplorare’. Più precisamente un atto che il pensiero compie quando viene messo di fronte ad una totalità, ad un’unità indivisibile. Illuminante e chiarificatore è a questo proposito il paragone che lo psicoanalista, richiamandosi alle osservazioni dei neurofisiologi, instaura tra il funzionamento del pensiero e quello dell’occhio umano. «Quando vediamo, i nostri occhi non sono mai fermi ma, al contrario, si muovono rapidamente da un punto all’altro dell’oggetto osservato: […] se cerchiamo di osservare solo un punto e lo fissiamo la nostra visione diventa confusa»[lxxi]. La stessa cosa, prosegue lo studioso, accade per la «visione mentale»: il nostro pensiero, di fronte ad una totalità, può mettere a fuoco solo una cosa per volta. Così, ogniqualvolta «cerchiamo di cogliere [un fenomeno] nella sua interezza, nella sua pienezza, troviamo che [esso] è qualcosa di fugace»[lxxii].
Ora, un fenomeno che viene avvertito dal pensiero come pienezza e totalità indivisibile è proprio il primo componente dell’emozione, la sensazione-sentimento, la quale è
colta e sentita come tale solo se riusciamo ad accettare la qualità fugace del momento in cui la stiamo cogliendo.[lxxiii]
Dunque il pensiero coglie la sensazione-sentimento «come tale», ovvero mantenendo intatta la sua natura originaria, solo al prezzo di subirne l’atemporalità che la caratterizza. È il momento di tentare un’ipotesi di precisazione terminologica nei confronti del testo di Goethe. Che cosa sta ad indicare esattamente il carattere di ‘vitalità’ che torna ben due volte nelle massime prese in esame? Sulla scorta delle osservazioni di Matte Blanco, «cogliere in modo vivo» o «cogliere come vivo» (esplicando l’assoluta interscambiabilità tra la funzione avverbiale e il valore predicativo rispetto all’oggetto, che si ha in tedesco) potrebbe esprimere una modalità dei processi mentali che si verifica quando il pensiero ha a che fare con la sensazione-sentimento.
Possiamo verificare tale ipotesi? E ancora: come si accorda questa interpretazione con lo stretto legame sottolineato da Goethe tra il modo vivo del cogliere e il passaggio all’infinito e all’universale – che viene qui presentato come una conseguenza del cogliere vivo, ma che avviene, come abbiamo visto nel secondo paragrafo, tramite l’interazione dei due tipi di pensiero? Se infatti il pensiero si rapporta al primo componente dell’emozione solo rinunciando alla dimensione temporale che gli consente di ‘dispiegarsi’ e di operare, dovremo prender atto dei grossi limiti che penalizzano la relazione tra i due elementi. Siamo dunque destinati a ricalcare le orme consunte di alcuni luoghi comuni dell’idea tradizionale di un’insanabile dicotomia tra la dimensione del logos e quella degli affetti? Le cose stanno veramente in questo modo?
Ogni lettore attento saprà già che, ovviamente, non è così: nella breve sezione introduttiva di questo paragrafo, ho anticipato che il secondo componente dell’emozione è proprio il pensiero, pur in una sua forma particolare. Attraverso la disamina di alcuni casi di manifestazioni emozionali, Matte Blanco conclude che il pensiero – cioè lo «stabilimento di relazioni» – suscitato dalla sensazione-sentimento presenta tre caratteristiche fondamentali: generalizzazione, massimizzazione e irradiazione. In altre parole, l’oggetto che evoca l’emozione, che dà luogo ad una sensazione-sentimento, fa ‘scattare’ nel pensiero una serie di relazioni che tendono a generalizzare le caratteristiche attribuite all’oggetto («facendo sì che tutte le proprietà di [quel] tipo [di sensazione] arriv[ino] ad essere in esso contenute»), a massimizzare la grandezza di tali caratteristiche e, infine, ad irradiarle dall’oggetto singolo a tutti quelli ad esso simili, anche in virtù di una sola caratteristica. Trascorso quindi l’istante nel quale la logica asimmetrica, venendo in contatto con la sensazione-sentimento, tenta di coglierla «come tale», nella «sua nudità», il pensiero, operando in modo simmetrico (l’unico modo capace di ‘contenere’ la dimensione universale dell’emozione), «ricopre» interamente la sensazione-sentimento di immagini mentali tra loro irrelate e tendenti all’infinito: sulla base di questo «stabilimento di relazioni», di questa “rete di immagini”, il pensiero potrà continuare a funzionare in modo asimmetrico, analizzando e scomponendo ad una ad una le singole immagini[lxxiv].
Nei termini della logica simbolica, che ormai abbiamo imparato a conoscere:
Quando e in quanto stiamo vedendo le cose in modo emozionale, identifichiamo l’individuo con la classe a cui appartiene e, perciò, gli attribuiamo tutte le potenzialità comprese nella funzione proposizionale […] che definisce la classe.[lxxv]
L’idea che sia una particolare modalità di approccio all’oggetto a condurre verso la totalità, era già stata compresa da Goethe, il quale affermava: «chi coglie in modo vivo questo particolare, ottiene insieme, in pari tempo, l’universale»[lxxvi].
«In pari tempo»: la consistenza istantanea del momento dell’impatto tra la «zona maculare» della coscienza e la sensazione-sentimento sembra assottigliarsi a tal punto da poter essere percepita come vera e propria atemporalità; ad essa si sovrappone («erhält zugleich […] mit») il processo di irradiazione del pensiero simmetrico che conduce all’universale. Il fenomeno tuttavia – è importante – continua a venirci illustrato come composto da due processi: il cogliere (che andrà quindi inteso, a conferma dell’ipotesi avanzata, come atto della logica asimmetrica) la sensazione-sentimento (qualcosa in modo vivo) e l’ottenere (da parte sempre del pensiero, ma stavolta con una forte presenza della logica simmetrica) l’universale, ciò che tende all’infinito[lxxvii].
Matte Blanco guadagna, nella definizione del fenomeno, non solo sul piano squisitamente terminologico, sostituendo al generico carattere della ‘vitalità’ il concetto – più adeguato – dell’emozione, ma anche, e in misura assai maggiore, su di un piano sostanziale, riconoscendo nei princìpi della logica simmetrica quella «certa forma di pensiero» che costituisce in larga misura un componente dell’emozione stessa[lxxviii].
Un problema complesso, con il quale lo psicoanalista si confronta più volte nel corso del suo studio, è quello del ‘punto di vista’ da cui si osserva il «pensiero emozionale»: «dall’esterno, […] si può descrivere come insieme infinito […]; dall’interno, gli insiemi infiniti con i quali trattiamo in psicoanalisi non esistono: sono interpretazioni dell’essere simmetrico […]: è una descrizione asimmetrica dell’emozione che è una realtà indivisibile»[lxxix]. Solo tenendo presente il problema del punto di osservazione, si comprende appieno l’espressione di Goethe «lebendig-augenblickliche Offenbarung des Unerforschlichen». La rivelazione ha un carattere istantaneo dal punto di vista del pensiero cosciente (si ricordi il paragone con l’occhio), il quale non può sottoporre ad un processo di scoperta graduale (das Unerforschliche) l’universale che si manifesta nella sua pienezza e totalità di emozione[lxxx]. Goethe guarda al fenomeno sempre dall’esterno, non giungendo mai dunque a postulare i princìpi interni che regolano quell’altra logica. Tuttavia comprende benissimo che la ‘scintilla prima’ del processo tendente all’infinito risiede in una dimensione altra, che tende a sottrarsi all’ambito temporale in cui opera il «pensiero normale adulto, cosiddetto logico». E arriva a presupporre un ruolo attivo di quella dimensione che indica come viva e atemporale: nelle sue massime, l’emozione, pur non evocata e non definita, ricopre già una posizione centrale, costituendo il passaggio obbligato attraverso il quale la relazione tra il particolare e l’universale nella letteratura diviene percorribile.
III. b Dall’emozione all’identificazione come momento primo della conoscenza
(Un riferimento ad alcune posizioni teoriche di Hans Robert Jauss)
Mi affretto a fornire pronte rassicurazioni al lettore che, avendo visto progressivamente entrare in gioco, sul terreno teorico di base costituito dall’indagine di Orlando, già ben tre grandi figure di pensatori, cominciasse, del tutto legittimamente, a nutrire qualche timore riguardo alla comparsa di un quarto personaggio – dalla fisionomia oltretutto non poco ‘ingombrante’ – quando solo poche paginette ci separano dal termine delle nostre riflessioni. Se la brevità imposta dal ‘taglio’ di un articolo non consentirà di operare un confronto ‘a tutto tondo’ – come richiederebbe l’introduzione di un’ulteriore prospettiva teorica – e costringerà al limite a relegarne in nota qualche spunto, ciò non significa che ci apprestiamo ad un rischioso e spettacolare volo acrobatico senza rete: tutt’altro, il rimando a Jauss sarà infatti ben circoscritto e mirato a condurci ‘dritti’ verso la conclusione del nostro discorso.
Circoscritto innanzitutto ad una parte della sua produzione teorica, quella che si colloca dopo l’importante ‘svolta’ dei primi anni Settanta. È a partire dalla pubblicazione della Piccola apologia dell’esperienza estetica (1972)[lxxxi] e negli scritti immediatamente successivi, che la riflessione di Jauss (e con essa i lavori dell’intera ‘Scuola di Costanza’) si rivolge all’approfondimento del piano psicologico e di quello ‘ermeneutico profondo’ del processo ricezionale[lxxxii]. L’estensione della ricerca in direzione di queste due dimensioni, entrambi assenti nel primo progetto (contenuto nel fortunato opuscolo del ‘67, Perché la storia della letteratura?[lxxxiii], che può essere considerato come il manifesto di fondazione della Scuola), segna l’inizio di un graduale processo di trasformazione dell’originaria ‘teoria della ricezione’ in un’indagine interdisciplinare allargata all’intero campo dell’‘esperienza estetica’[lxxxiv].
Uno degli aspetti fondamentali – su cui focalizzeremo la nostra attenzione – di tale ‘svolta’ teorica è la rivalutazione del fenomeno emotivo all’interno del processo della fruizione letteraria. Jauss lo definisce il «piacere primario» o, con una formula ancora più estesa, il «piano pre-riflessivo dell’esperienza estetica». In un saggio del ‘75, precisa: «con tale espressione intendo riferirmi all’atto della fruizione […] che si esplica nelle identificazioni primarie con l’oggetto estetico, quali l’ammirazione, la commozione, l’emozione, la condivisione di pianto o riso. Esso giace alla base della prestazione genuinamente comunicativa della prassi estetica»[lxxxv]. L’approfondimento della dimensione pre-riflessiva della fruizione artistica accompagna molti dei lavori di questo ‘secondo periodo’ della riflessione teorica jaussiana, trovando la sua elaborazione più compiuta (seppur sempre dichiaratamente provvisoria) nella voluminosa raccolta che ospita i saggi scritti sino al 1982, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria[lxxxvi]. In particolare nella seconda sezione della prima parte dell’opera, dedicata al problema dell’identificazione, si riprende il tema dei «piani primari dell’esperienza estetica»: «meraviglia, choc, ammirazione, commozione, pianto, riso, stupore»[lxxxvii]. In questo arco di tempo, rimane tuttavia irrisolto – e la cosa ci colpisce immediatamente – il problema di una precisa definizione terminologica dei fenomeni analizzati[lxxxviii]: d’altra parte è lo stesso Jauss a denunciare l’impossibilità per gli studi letterari di richiamarsi ad assunti chiari e stabili, che dovrebbero essere forniti dalle discipline psicoanalitiche. Ma le soluzioni proposte da queste ultime sono ancora insoddisfacenti e deficitarie[lxxxix].
La difficoltà non lo dissuade tuttavia dal tentare un abbozzo di un modello dialettico volto a illustrare il funzionamento dell’esperienza estetica. L’ipotesi – che per esplicita ammissione necessita di ulteriori approfondimenti – prevede un continuo passaggio, nella mente del fruitore, da un momento primario pre-riflessivo (nel quale entrano in gioco gli affetti, i sentimenti) a un momento secondario riflessivo (nel quale interviene una presa di distanza dall’opera). L’ampio spazio dedicato al problema del piacere primario ha dunque ragioni di natura polemica (nei confronti dell’estetica adorniana della ‘negatività’[xc] o, più in generale, del ‘logocentrismo’ allora dominante negli studi di teoria letteraria[xci]): ciò che Jauss vuole dimostrare è infatti che, senza la presenza di tale dimensione emotiva (che, vedremo, presuppone un processo di identificazione), non si realizza neppure la presa di distanza successiva, non si spiega cioè la concreta realizzazione della ‘comunicazione letteraria’[xcii].
Non solo ci viene sottolineata l’imprescindibilità dell’identificazione emotiva in funzione della successiva riflessione distanziata, ma i due fenomeni vengono presentati come inscindibilmente legati: è infatti un incessante movimento di «va e vieni» (Hin-und-Her-Bewegung), un costante alternarsi dei due momenti a regolare il processo mentale della fruizione di un’opera. Per indicare l’attiva e stretta interazione dei due aspetti, Jauss utilizza il concetto dello Schwebezustand, che potremmo tradurre con l’espressione: condizione di oscillazione[xciii].
Ciò che costituisce il peculiare godimento della condizione di oscillazione di un’identificazione estetica non è né il semplice abbandonarsi ad un’emozione, né la riflessione del tutto distaccata su di essa, ma solo il movimento dell’andirivieni[xciv]
Ma, ci era già stato spiegato in precedenza (nel capitolo dedicato al «piacere estetico»[xcv]), il movimento oscillatorio è solo un artificio didascalico, che serve a rendere visivamente quella che in realtà è una vera e propria commistione dei due aspetti della mente: l’esperienza estetica presuppone infatti «l’unità primaria del piacere mediato dalla comprensione e della comprensione mediata dal piacere»[xcvi]. Siamo ad un passo dalla revisione operata da Matte Blanco relativamente alla differenza tra pensiero ed emozione[xcvii]: secondo lo psicanalista, a livello fenomenologico, la distinzione «continua ancora ad essere utile ma nessuno dei due aspetti può pretendere di essere un semplice elemento o costituente della mente: sono ‘combinazioni’ di elementi»[xcviii]. Jauss non giunge ad una così chiara e importante conclusione: per farlo dovrebbe disporre del necessario strumentario concettuale di derivazione psicoanalitica.
Abbiamo fatto riferimento al capitolo sul «piacere estetico», e in realtà è in quelle pagine che l’immagine dello Schwebezustand viene usata per la prima volta. È interessante per noi ricordarne la genesi. Jauss deriva il concetto dalla teoria estetica di Ludwig Giesz, il quale parla di un’«oscillazione» (Schwebe) tra «il piacere primario» (provato dal soggetto) e «il suo oggetto» (l’opera d’arte)[xcix]. Questa stretta interazione tra soggetto e oggetto è resa possibile dal fatto che l’io, di fronte al carattere di finzione dell’opera (cioè di fronte all’‘irrealtà’ dell’oggetto estetico), può liberarsi dalla ‘datità’ del mondo reale e, di conseguenza, può mettere in gioco se stesso insieme all’oggetto estetico:
il soggetto, nella misura in cui fa uso, di fronte all’oggetto estetico irreale, della propria libertà di prendere posizione, è in grado di godere tanto dell’oggetto, che sempre più gli dischiude il suo «piacere», quanto del proprio Sé, che in questa attività si sente liberato dalla propria esistenza quotidiana. Il piacere estetico si attua di conseguenza sempre nella relazione dialettica del godimento di sé nel godimento dell’altro (Selbstgenuß im Fremdgenuß)[c].
Anche in questo caso, dietro all’immagine dell’oscillazione finisce per rivelarsi l’idea di una vera e propria fusione: quella, stavolta, che si realizza nel momento primario tra soggetto e oggetto (espressa attraverso la formula pregnante «Selbstgenuß im Fremdgenuß»). E, anche in questo caso, ci troviamo vicini ad un’osservazione di Matte Blanco: nella dimensione emotiva vengono aboliti «i limiti tra soggetto e oggetto» (ciò avviene, come sappiamo, tramite i tre processi di generalizzazione, massimizzazione e irradiazione)[ci].
Abolire i limiti significa per Matte Blanco (ma anche per Jauss) stabilire un rapporto di completa identità tra soggetto e oggetto: in altre parole identificarsi nell’altro. Il problema dell’identificazione, sul quale Jauss si soffermerà molte pagine dopo, richiamandosi però alla formula del piacere estetico qui indicata, è dunque a portata di mano. Anche a tal proposito, fondamentale è l’importanza giocata dal carattere di finzione dell’opera letteraria, nel consentire la dialettica tra identificazione e presa di distanza, come ci viene illustrato attraverso la formulazione di Dieter Wellershoff, nella quale Jauss si riconosce pienamente:
“Il lettore interessato da un testo vuole riconoscersi e tuttavia poter distinguere […]. E questo gli è garantito fin dall’inizio dalla finzionalità del testo, dalla sua realtà revocabile, che poi con l’ultima pagina è finita”. Questa formulazione coincide senz’altro anche con la mia definizione del piacere estetico come “godimento di sé nel godimento dell’altro”[cii]
È estremamente interessante per noi il parallelo instaurato da Jauss tra i due usi del concetto di Schwebezustand: il primo relativamente al rapporto soggetto-oggetto, io-altro, che è poi uno dei temi fondamentali della riflessione ermeneutica contemporanea (alla quale, non a caso, Jauss si riallaccia); il secondo riguardo alla questione del passaggio dalla dimensione emozionale al pensiero riflessivo.
Su quest’ultimo problema, però, come abbiamo già osservato, lo studioso non è in grado di spiegarci attraverso quali precisi processi psicologici si realizzi il rapporto tra i due momenti. Prova ad interrogarsi sulla questione in un breve tornio di pagine assai dense, che toccano argomenti tratti da Proust, Freud, Ricoeur, per lasciare infine, tra vari interrogativi, il nodo irrisolto[ciii]; ma aveva già dichiarato preliminarmente:
Mi rendo perfettamente conto della provvisorietà di questo modello e dei suoi particolari punti deboli, e del fatto che deve essere ancora fondato su una teoria delle emozioni; spero però che per lo meno renda riconoscibile l’interesse per questo aspetto dell’esperienza estetica e che […] stimoli le discipline interessate a proseguire il lavoro.[civ]
Sopra abbiamo ricordato la revisione operata da Matte Blanco relativamente alla differenza tra pensiero e sentimento, osservando che essa va oltre le conclusioni di Jauss, facendo in modo che
l’antitesi tra pensiero e sentimento [venga] spostata sull’antitesi tra i modi simmetrico ed asimmetrico.[cv]
Se applichiamo questo ‘spostamento’ al concetto di Schwebezustand jaussiano, avremo finalmente chiare le modalità del passaggio, durante la fruizione letteraria, dalla dimensione emotiva alla riflessione conoscitiva e comprenderemo meglio, al tempo stesso, il parallelo proposto tra i due usi della condizione di oscillazione.
Immaginiamo dunque che l’esperienza estetica sia regolata da una continua oscillazione tra il modo di essere simmetrico e il pensiero asimmetrico. Durante il primo momento, stabilito un rapporto di identità tra pur un solo elemento del proprio sé (un elemento appartenente all’ambito del vissuto e solo in parte condizionato da ragioni biografiche, di contesto sociale, ecc.[cvi]) e pur un solo elemento della ‘situazione testuale’ (narrativa, lirica, ecc.) che ci viene proposta, sarà possibile al lettore – attraverso il processo di irradiazione proprio della dimensione emotiva – identificarsi completamente in quella situazione, sentirsi tutt’uno con essa, abolendo la distanza tra sé e la dimensione di finzione (che in quel momento non viene più avvertita come tale), grazie alla quale l’opera ‘esiste’. Nel momento secondario, il fruitore prenderà distanza dalla situazione proposta dall’opera (riconoscendone ora, pienamente, il carattere fittizio): il pensiero «preciso» inizierà a lavorare sullo stabilimento di relazioni creatosi nel primo momento, scomponendo, analizzando e differenziando gli elementi della situazione testuale da quelli dell’esperienza legata al proprio ambito del vissuto.
È dunque nei precisi termini di questa ottica, che andranno rilette le due azioni descritte da Wellershoff: il riconoscersi, come ‘trionfo’ dell’essere simmetrico, e il poter distinguere, come successivo immediato sopravvento del pensiero asimmetrico.
L’alternanza tra i due aspetti spiega altresì il genuino realizzarsi del processo conoscitivo attraverso l’esperienza estetica. Per averne un esempio concreto, torniamo a considerare la lettura condotta da Orlando e proviamo ad analizzare che cosa avviene precisamente a proposito dell’«inconsapevole estensione» della ‘periferia siciliana’ alla ‘categoria di periferia’, secondo l’affermazione già riportata sopra (cfr. il § II.):
Espansione di significato non necessariamente portata a coscienza dal lettore – il quale non avrà in mente che la Sicilia, o un’isola così denominata se ne conosce solo il nome. Ma da vicino o da lontano […] credo che nessuno legga il romanzo senza effettuare quell’inconsapevole estensione.[cvii]
In una parte profonda dell’animo del lettore, esiste dunque un momento nel quale la nozione di ‘periferia’, nel suo rapporto con gli aspetti reali e/o potenziali del proprio vissuto[cviii], e la Sicilia sono esattamente identiche. Sarà poi la presa di distanza dall’oggetto, il riconoscerlo interamente come ‘altro da sé’ – solamente a patto, però, di esservisi prima completamente identificato – a permettergli di comprendere la non unicità della condizione realizzata e ‘vissuta’ attraverso il momento primario. Con le parole di Orlando:
Quali che siano i postulati di psicanalisi e di teoria della letteratura d’una tale concezione, essa pare fatta apposta per togliere, a chi vive una condizione periferica, l’ultima illusione: che la sua condizione, per quanto derelitta, vanti un carattere unico al mondo. Illusione tenace, naturale, ma tutt’altro che benefica.[cix]
Il processo conoscitivo, nella fruizione letteraria, passa quindi necessariamente attraverso un primo momento di identificazione emotiva ed un secondo momento di presa di distanza riflessiva.
Perché tale processo si attui, abbiamo visto, dovremo ipotizzare che lo stabilimento di relazioni simmetriche avvenga non solo, una prima volta, unicamente sul piano degli elementi testuali (come abbiamo illustrato nel § II.), ma si realizzi anche, una seconda volta, coinvolgendo combinazioni, per così dire, ‘ibride’, costituite cioè da elementi testuali ed elementi di natura extra-testuale, appartenenti all’ambito del vissuto del fruitore (ai suoi desideri, timori, immaginazioni, ecc.)[cx]. È in questo senso che il lettore si mette in gioco, contribuisce a dar vita e forma al testo, nel momento stesso in cui, in certo qual modo, ne viene trasformato.
Quelle che abbiamo appena definito ‘combinazioni ibride’, infine, scatterano, sempre per ipotesi, non solo di fronte alla memoria del lettore di tutti i passi dell’opera che concorrono a fare della Sicilia, alternativamente, la e una periferia, ma anche di fronte ad una sola parte di essi, sino, al limite, ad un solo elemento (ma vedremo subito in che modo sia da intendersi ‘uno solo’). Parimenti andrà ipotizzato che ciò accada anche per i paradigmi relativi agli altri temi presenti nell’opera (ad esempio per le coordinate temporali, oppure per gli aspetti del carattere di Don Fabrizio). Rimane chiaro che, in praesentia o in absentia del corrispondente elemento oppositivo, un singolo elemento non verrà comunque mai avvertito dal lettore come singolo (lo abbiamo chiarito nel § II.[cxi]): la cellula minima sarà pur sempre una coppia oppositiva, la più piccola scheggia di una grande «formazione di compromesso» (che cos’altro è, infatti, l’opposizione tra l’intimità e la storia?) rappresenterà pur sempre a sua volta entrambi i termini della formazione di compromesso. Solo a partire, dunque, al limite, da una singola coppia oppositiva scatteranno le relazioni simmetriche che vanno a coinvolgere il vissuto del lettore.
III.c Perché Matte Blanco torna due volte nella lettura di Orlando
(Un rinvio allo ‘sdoppiamento’ dell’orizzonte d’attesa)
Se volessimo provare ad illustrare visivamente il funzionamento della fruizione letteraria così come lo abbiamo ricostruito in queste pagine, dovremmo immaginarci un disegno composto da numerose linee orientate in due direzioni. Un primo gruppo di linee, riguardante unicamente elementi testuali, segue una direzione orizzontale: è su questo asse che si svolge il gioco del continuo alternarsi di costanti e varianti all’interno dell’opera; è su questo asse, di conseguenza, che, durante l’atto della fruizione, la mente del lettore si sposta continuamente, come abbiamo visto, scoprendo gli ‘invisibili’ legami (o linee) che uniscono zone diverse o distanti, scomponendo così l’«ordine sintagmatico» del testo e ricostruendone virtualmente quello «paradigmatico». Un secondo gruppo ospita invece linee orientate, per così dire, in senso verticale: sono quelle che partendo da elementi testuali si vanno ad incuneare in quell’arco di (più o meno) ‘alta tensione’ esistente tra la sfera del vissuto biografico o sociale del lettore e le sue aspettative, desideri, bisogni, interessi, curiosità; tra il suo mondo ‘reale’ e gli spiragli lasciati socchiusi al ‘potenziale’. Queste ultime, ovviamente, non possono che trarre maggiore forza ed intensità – e la cosa mi pare più difficile da esprimere graficamente – dall’infittirsi della rete di relazioni che si stende in senso orizzontale.
Le due direzioni corrispondono esattamente ai due momenti nei quali abbiamo riconosciuto l’applicazione nella lettura di Orlando della teoria matteblanchiana della logica simmetrica: una prima volta (cfr. §§ I.-II.) relativamente alla ‘ri-costruzione di coerenza’ operata dal lettore; una seconda volta (cfr. § III. b.) riguardo al meccanismo dell’identificazione attraverso il quale il lettore si interessa all’opera e compie il primo indispensabile passo di quel processo conoscitivo che la lettura gli dischiude. Come abbiamo osservato, la dimensione dell’esperienza estetica si realizza sullo sfondo di questi due orizzonti.
Uso volutamente questo termine, dal momento che, partiti dalla prospettiva del lettore (da un rinvio a posizioni teoriche di Iser) e approdati ad alcune riflessioni dell’altro grande teorico della Rezeptionsästhetik, non mi pare arbitrario stabilire, avviandoci alla conclusione, un ultimo confronto con quella già menzionata ‘seconda stagione’ che rappresenta, a mio avviso, il momento più fecondo del percorso teorico compiuto dalla Scuola di Costanza. L’altro grande problema – accanto, come abbiamo ricordato, a quello dell’identificazione primaria – intorno al quale si concentrò il dibattito critico,[cxii] fu quello della revisione dello strumento teorico dell’orizzonte delle attese, che aveva già conosciuto grandissima fortuna tramite l’ampia circolazione della prima proposta avanzata da Jauss (in Perché la storia della letteratura?)[cxiii]. Si trattava di rendere la nozione operativa dell’Erwartungshorizont più aderente alla dinamica reale del processo di lettura e, al tempo stesso, rispondente ai problemi imposti dalla natura socialmente comunicativa dell’opera letteraria; senza, tuttavia, rinunciare ad un’oggettivabilità del metodo ermeneutico, alla garanzia, cioè, di criteri precisi in grado di escludere il pericolo di ammettere la validità di ogni interpretazione reale o possibile (ovvero il rischio di pervenire ad un polisenso infinito del testo, rischio che conosceva peraltro in quegli anni una reificazione nei più estremi sviluppi d’oltreoceano della teoria del lettore, in alcune posizioni del cosiddetto Reader Response Criticism).
La proposta, che fu direttamente sperimentata negli studi interpretativi di quegli anni, fu quella di uno ‘sdoppiamento’ della nozione originaria di orizzonte delle attese: da una parte un innerliterarischer Erwartungshorizont («orizzonte delle attese interno al testo»), dall’altra un lebensweltlicher Erwartungshorizont («orizzonte delle attese del mondo della vita»). Il duplice sistema considera dunque
una prima volta le attese codificate nel testo […], una seconda volta […] l’orizzonte d’attesa della prassi della vita, che viene trasferito dal lettore […] all’interno dell’opera.[cxiv]
Il primo orizzonte recupera elementi derivati dalle esperienze formalista e strutturalista (con le quali la Scuola instaurò un attivo confronto sin dalla sua genesi[cxv]), opportunamente rielaborati secondo un’ottica volta a registrare dettagliatamente la dinamica della ‘risposta estetica’: le strutture e i ‘segnali’ del testo vengono visti come «indicazioni pre-ricezionali», capaci di far scattare – per dirla con parole già citate di Orlando – l’«attiva memoria di ciò che precede e [l’]aspettativa di ciò che segue»[cxvi], durante il processo di lettura. Se da una parte è possibile, nello spettro analitico aperto da questo primo orizzonte, recuperare alcuni strumenti della lezione di Iser (tra cui l’operazione di collegamento tra le zone testuali), sono però gli aspetti più direttamente provenienti dalla critica strutturale a garantire, con la sua aderenza ad un’oggettività del testo, la costruzione di un saldo baluardo nei confronti dei rischi del ‘soggettivismo’, a cui accennavamo sopra. Su questo punto, troviamo che il metodo «paradigmatico» che Orlando ha adottato nei propri lavori da ormai oltre trent’anni[cxvii], presenta un dosaggio parimenti equilibrato tra una salda e concreta ‘presa’ diretta sul testo, secondo la lezione dello strutturalismo, e una giusta rivendicazione del ruolo attivo del lettore, che mette in atto il passaggio da un’ordine all’altro.
È solo attraverso l’interazione di questo primo asse cardinale, con quello relativo al ‘mondo della vita’ dei lettori, che si realizza l’esperienza estetica, come vuole Jauss:
Il lettore infatti può ‘far parlare’ un testo […] soltanto nella misura in cui riesce ad includere, all’interno del quadro dei rapporti costituiti dalle indicazioni pre-ricezionali del testo, quella che risulta essere la propria pre-comprensione del ‘mondo della vita’. Quest’ultima comprende le attese concrete del lettore, provenienti dall’orizzonte dei suoi interessi, desideri, bisogni, ed esperienze e condizionato sia dalle circostanze sociali […] sia da quelle biografiche.[cxviii]
Ma è proprio a questo spazio che va dai semplici interessi sino alle esigenze inappagate e ai desideri, a questa che abbiamo definito una tensione aperta tra il ‘reale’ e il ‘potenziale’[cxix], già presente nell’animo del lettore, che, secondo un ormai ben consolidato caposaldo teorico di Orlando, fa appello l’identificazione non solo dell’opera letteraria, ma di qualsiasi linguaggio comunicante tributario dell’inconscio (o, potremmo aggiornare, della logica simmetrica). Il riferimento è ovviamente al linguaggio del motto di spirito – esempio che tocca direttamente il livello della comunicazione sociale quotidiana – studiato da Freud, secondo il quale i «motti di spirito mormorano […] [i bisogni insoddisfatti], i desideri e le brame degli uomini» che rimangono soffocati nel conflitto con le norme sociali[cxx].
Una strenua apologia dello stretto legame esistente tra identificazione emotiva, piacere estetico e processo conoscitivo era dunque già insita in quella teoria freudiana, sviluppata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, dove si concludeva:
Nel lungo poema tramandato come classico per millenni, o in una frase pronunciata una volta in privato e che nessuno registra, ringraziamo lo stesso tipo di discorso: quello che reca istituzionalmente con sé […] non soltanto una illuminazione di verità ma anche un barlume di festa. Esso può molto aiutare gli uomini affinché, con le parole di Freud che sono contento di citare una seconda volta, “connettano a tal punto la propria vita a quella degli altri, riescano a identificarsi con gli altri così intimamente, che l’accorciamento della durata vitale propria risulti sormontabile”.[cxxi]
In questo senso, gli aspetti teorici e metodologici desunti da Matte Blanco, che abbiamo messo in rilievo nella lettura del Gattopardo, non contraddicono minimamente gli assunti fondamentali di quel primo progetto. Anzi contribuiscono ad arricchirlo e a svilupparlo, approfondendo al tempo stesso, in quella duplice dimensione che coincide significativamente con l’impostazione problematica lasciata aperta dall’estetica della ricezione, la questione ancora oggi quanto mai viva e discussa del ruolo del lettore.
[i] Ne è una conferma anche l’ampio successo editoriale che il libro ha riscosso, ben al di là della prudente speranza che l’autore esprime nella premessa (F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del «Gattopardo», Torino 1998, p. 6).
[ii] E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Bern 1946 [trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 1956]; G. Contini, Come lavorava l’Ariosto, in Esercizi di lettura, Firenze 19472.
[iii] Le due interpretazioni sono oggi raccolte in un unico volume: F. Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Torino 1990.
[iv] F. Orlando, Proust, Sainte-Beuve, e la ricerca in direzione sbagliata, saggio introduttivo alla trad. it. di M. Proust, Contro Saint-Beuve, Torino 1974, pp. VII-XXXVII (l’idea interpretativa, relativa all’intera opera, era già sottintesa in Idem, Marcel Proust dilettante mondano, e la sua opera, «Nuovi Argomenti», (25), gennaio-febbraio 1972, pp. 83-98).
[v] Anche in questo caso la proposta d’interpretazione più esaustiva dell’intera opera è sintetizzata in poche pagine: mi riferisco al contributo Mito e storia ne «L’Anello del Nibelungo», «Intersezioni», III (2), 1983, pp. 347-360.
[vi] I rari casi in cui ci si allontana da tale prospettiva, per adottare ad esempio quella del critico ‘di mestiere’, vengono vigilmente esplicitati dallo stesso autore (cfr. Orlando, L’intimità cit.: espressamente a p. 79; con il semplice uso della parentesi nella pagina seguente).
[vii] Orlando, L’intimità cit., p. 27.
[viii] L’opposizione terminologica è desunta dalla teoria linguistica di F. de Saussure (Corso di linguistica generale, Bari 1970, pp. 149-158; si vedano le precisazioni in proposito in Orlando, L’intimità cit., p. 41, n. 31).
[ix] Orlando, L’intimità cit., p. 40.
[x] W. Iser, Der Akt des Lesens. Theorie ästhetischer Wirkung, München 1976 [trad. it., condotta sulla versione inglese, L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna 1987].
[xi] Per l’opposizione tra i due termini rimando a F. Orlando, Dodici regole per la costruzione di un paradigma testuale, in Idem, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino 1992, pp. 219-241, dove si intende per «sostituzione» l’operazione in cui «uno o più elementi extratestuali [la cui determinazione viene affidata a discipline ausiliarie quali la storia, l’antropologia, la psicanalisi…] vengono incaricati di motivare unilateralmente uno o più elementi testuali». Al contrario, il «collegamento» prevede che «due elementi entrambi testuali – o più di due – veng[ano] messi in un rapporto secondo cui si motivano bilateralmente – o plurilateralmente» (ibidem, pp. 223-224). Tuttavia, vedremo più avanti la possibilità di praticare collegamenti tra elementi testuali ed elementi extratestuali, secondo modalità ancora diverse (cfr. §§ III. b. e III. c. e, in part., la n. 110).
[xii] Iser, L’atto della lettura cit., p. 172 (ma per i problemi qui affrontati si veda in generale l’intero cap. V, pp. 169-205).
[xiii] Ibidem, p. 170 (per questa come per tutte le citazioni successive, l’uso del carattere corsivo, ogniqualvolta non venga esplicitamente indicato come ‘mio’, è da intendersi già presente nella fonte da cui si cita).
[xiv] Orlando, L’intimità cit., p. 122, nota 57.
[xv] Iser, L’atto della lettura cit., p. 169.
[xvi] In tutto il suo studio, Iser insiste moltissimo sull’importanza del continuo gioco scambievole tra memoria e aspettativa che avviene durante il processo della lettura. Se non fosse già di per sé evidente che anche Orlando ne tiene implicitamente conto nella sua interpretazione, ce lo confermerebbe un’esplicita indicazione di metodo tesa a scalzare un pervicace pregiudizio di ormai lontana origine crociana: «nessun passo, facente parte d’un contesto, può esser letto senza attiva memoria di ciò che precede e aspettativa di ciò che segue» (F. Orlando, Caro Asor Rosa perché uccidi il «Gattopardo»?, «La Repubblica», 24 settembre 1998, p. 36).
[xvii] Condizione che andrà postulata altrettanto valida se non proprio per tutti almeno per la maggioranza degli accostamenti ricostruiti da Orlando: solo una piccola parte di essi puó infatti venire portata dal lettore ad una piena coscienza.
[xviii] Iser, L’atto della lettura cit., p. 175.
[xix] Vedi sopra, nota 17.
[xx] I. Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-Logic, London 1975 [trad. it.: L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Torino 1981].
[xxi] Cfr. ibidem, in part. cap. III, §§ 1-2 (pp. 40-54). L’espressione «sistema inconscio», ripresa da Matte Blanco, si incontra già in Freud, ad esempio nel breve saggio L’inconscio, trad. it. in Opere, vol. VIII, Torino 1976, p. 70.
[xxii] Matte Blanco, L’inconscio cit., p. 43.
[xxiii] Ibidem, p. 44. Ai fini del nostro discorso, si intenda con «funzione proposizionale», seppur in modo approssimato, quell’enunciato che esprime la condizione di appartenenza di un elemento ad una classe: per una trattazione puntuale del concetto (di provenienza logico-matematica), cfr. ibidem, p. 32 ed i relativi rimandi bibliografici.
[xxiv] Ibidem, p. 45.
[xxv] Tale riformulazione della dialettica freudiana ‘inconscio-conscio’ in ‘simmetrico-asimmetrico’ implica infatti una non coincidenza delle due opposizioni. La definizione «modo di essere simmetrico», oltre a chiarire oscillazioni e difficoltà irrisolte presenti nell’opera di Freud (su cui cfr., assieme ai riferimenti indicati sopra alla nota 21, l’intera parte terza “Dall’inconscio non rimosso al modo di essere simmetrico”, ibidem, pp. 73-149), estende necessariamente il concetto freudiano di inconscio, postulando l’operatività della logica che gli è propria anche al di sopra della soglia della coscienza: ne è una riprova il fatto che essa possa operare attivamente anche in una zona sì circoscritta, ma socialmente riconosciuta, quale la letteratura.
[xxvi] Ibidem, p. 119.
[xxvii] Vedi sopra nota 5 e, in part. per questa concezione del Leit-Motiv, F. Orlando, Propositions pour une sémantique du leit-motiv dans «L’anneau des Nibelungen», «Musique en jeu», gennaio 1975, pp. 73-86, in part. p. 74 [trad. it. Proposte per una semantica del Leit-Motiv nell’«Anello del Nibelungo», «Nuova Rivista Musicale Italiana», 2, 1975, pp. 230-247, in part. pp. 231-232; poi ripubblicato in Idem, Le costanti e le varianti. Studi di letteratura francese e di teatro musicale, Bologna 1983, pp. 395-417, in part. pp. 396-398].
[xxviii] Traduco così il ted. «die Symbolik» (piuttosto che, più letteralmente, «la simbolica», termine inesistente in italiano), pensando ad un aggettivo sostantivato, che possa derivare magari dall’espressione «il modo simbolico»: essa ben si adatta non solo alla teoria matteblanchiana, ma anche all’idea di un ‘procedimento’ insita nelle riflessioni di Goethe.
[xxix] Aiutandosi con il noto schema jakobsoniano dei sei elementi necessari e sufficienti alla comunicazione – ormai più volte adottato negli studi letterari – potremmo dire che, dei tre elementi in gioco in questa prospettiva, a noi interessa il tratto di unione ‘messaggio (=testo) – destinatario (=lettore)’, piuttosto che quello ‘destinatore (=autore) – messaggio (=testo)’.
[xxx] Sul concetto di simbolo in relazione al processo di produzione, Goethe si sofferma anche nell’epistolario: si vedano ad esempio la lettera a Schiller del 16-17 agosto 1797 e quella a Schubarth del 2 aprile 1818. Per un’attenzione al confronto instaurato dall’autore tra i due «processi psichici» (produzione e ricezione) all’interno delle stesse massime che analizzeremo, si veda invece T. Todorov, Teorie del simbolo, Milano 1984, pp. 255-262, in part. p. 260.
[xxxi] Ci situiamo al di sopra, quindi, non per ‘ortodossia’ nei confronti dell’autore di cui ci occupiamo, il quale, peraltro, prendendo distanza dall’opposizione in questione, sembra collocarsi, piuttosto, direttamente ‘a monte’ di essa (Orlando, L’intimità cit., p. 111, nota 42). Interessante invece, nella prospettiva da noi adottata, potrebbe rivelarsi un confronto con l’allegoria antica, dove vige il problema del recupero di un codice extratestuale, l’esigenza cioè di rifarsi a qualcosa di esterno al testo, pena la non comprensione neppure del semplice ‘piano fattuale’ (un forte accento sull’aspetto storico-cronologico del problema è presente nell’impostazione fornita da Hans Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960 [trad. it. Verità e metodo, Milano 1983, pp. 98-110, in part. pp. 108-110]).
[xxxii] J. W. von Goethe, Maximen und Reflexionen, in Werke, vol. XII, Hamburg 1953, p. 471 (massima n. 751; vi corrisponde il n. 279, invece, nelle edizioni che prendono come riferimento la numerazione cronologica dei manoscritti fornita da Max Hecker, per la prima volta in Goethe, Maximen und Reflexionen. Nach den Handschriften des Goethe-und Schiller-Archivs, hrsg. von M. Hecker, Weimar 1907). Ho tradotto personalmente le tre massime, piuttosto che riportare una delle tante traduzioni disponibili, con l’intento di garantire una stretta aderenza all’originale; allo scopo di agevolare il più possibile una pur ‘indiretta’ comprensione del testo tedesco, ho inoltre riportato tra parentesi quadre, quando mi è parso opportuno, alternative possibili di traduzione di singole parole o espressioni: «È cosa molto diversa se il poeta cerca il particolare per [=in funzione di] l’universale, o se nel particolare vede [=scorge] l’universale. Dalla prima maniera risulta l’allegoria, dove il particolare vale solo come emblema, come esempio dell’universale; ma la seconda è propriamente la natura della poesia: essa esprime un particolare, senza pensare all’universale o alludervi. Chi coglie vivo questo particolare, ottiene [=riceve] insieme, in pari tempo, l’universale, senza accorgersene o avvedendosene solo in un secondo tempo».
[xxxiii] Orlando, L’intimità cit., p. 121 (e, per le implicazioni teoriche, nota 57).
[xxxiv] Ibidem, p. 147.
[xxxv] Ibidem, p. 121.
[xxxvi] Vedi, più avanti, al § III. b.
[xxxvii] Vedi sopra quanto abbiamo affermato al § I. (e in part. alla nota 17).
[xxxviii] Su questa intuizione, da parte del poeta tedesco, di una genesi ‘sommersa’ del processo di accostamento tra particolare e universale, sul ‘click’ spontaneo ed involontario che vi sta alla base, torneremo nel § III. a., con diretto riferimento a queste parole di Goethe (vedi infra, in part. nota 76).
[xxxix] «In altre parole più un’attività o manifestazione psichica è espressione di questi livelli più profondi più visibili saranno gli insiemi infiniti: corrispondentemente più vi è espressione del modo di pensare preconscio, meno visibili saranno questi insiemi. Ma in ogni caso possiamo, se indaghiamo adeguatamente, trovare ambedue i tipi di pensiero» (Matte Blanco, L’inconscio cit., p. 184, corsivi miei). Sul problema (e sul valore chiave della soluzione matteblanchiana di fronte alle ‘oscillazioni’ di Freud) si vedano i riferimenti indicati sopra alla nota 25 e, in generale, il capitolo 14 (“Insiemi infiniti e livelli di profondità (inconscia)”), da cui abbiamo tratto la citazione. Per l’espressione «livelli più profondi», si veda in part. la lunga nota 1 a p. 183.
[xl] Orlando, L’intimità cit., p. 121 (il «particolarismo di principio» sta qui ad indicare quei limiti già raggruppati precedentemente dallo stesso Orlando sotto il nome di «pregiudizio regionalistico»: si vedano in proposito le pp. 18-19 della premessa).
[xli] Goethe, Maximen cit., p. 470 (massima n. 749; ovvero n. 1113 secondo la numerazione di Hecker, si veda la n. 32): «Il simbolico trasforma la manifestazione in idea, l’idea in un’immagine, e lo fa in modo tale che l’idea rimanga sempre infinitamente efficace (=attiva) e irraggiungibile nell’immagine, e, pur espressa in tutte le lingue, rimanga tuttavia indicibile».
[xlii] Coerentemente all’impostazione del nostro discorso (vedi sopra nota 29); sulla possibilità di riflettere invece sul processo di produzione artistica vedi quanto già affermato alla nota 30.
[xliii] L’uso intransitivo del verbo wirken, con il senso appunto di «produrre un effetto in qualcosa tramite un’attività», ha assistito nel corso del XVIII sec. all’affermarsi di un significato particolare in cui «l’effetto è diretto sulla percezione sensibile o sui sentimenti di una determinata persona»: da lí il moderno impiego specifico dell’aggettivo wirksam «in relazione ad un effetto artistico, musicale, teatrale, letterario», estetico in generale (mi sono avvalso di J. Grimm -W. Grimm, Deutsches Wörterbuch, hrsg. von der Deutschen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, S. Hirzel, Leipzig 1854-1960, s. v. wirken e wirksam; in part. vol. XIV, sezione 2a, pp. 565, 569, 590). In questa accezione, consolidatasi dal secondo ’700 in poi, il termine è pervenuto, si diceva, sino all’ambito della teoria della ricezione, che ha rivalutato l’idea del ruolo attivo del lettore come insita nella concezione stessa di «ästhetische Wirkung» (sintomatica della pregnanza del termine, la difficoltà di fronte alla quale si trovò lo stesso Iser per la traduzione inglese della propria opera: cfr. l’annotazione riportata in Iser, L’atto della lettura cit., p. 25, nota 1).
[xliv] Vedremo più avanti (cfr. infra, § III. a., in part. la nota 80) come andranno intesi i caratteri di «irraggiungibilità», «indicibilità», «inafferrabilità» in relazione alla teoria di Matte Blanco.
[xlv] Per l’idea di ‘iterazione’ spesso annessa a questa accezione di wirken, si veda Grimm-Grimm, Deutsches cit., p. 566 («un effetto che si ripete», corsivo mio).
[xlvi] Orlando, L’intimità cit., p. 64.
[xlvii] Ibidem. I due gruppi di cifre, che indicherò tra parentesi al termine di ogni citazione tratta dal romanzo, si riferiscono, coerentemente al criterio adottato da Orlando (ibidem, p. 41, n. 33), a due edizioni del Gattopardo: la prima a quella corrente nella serie «Universale economica» Feltrinelli, la seconda all’edizione T. Di Lampedusa, Opere, Mondadori, Milano 1995.
[xlviii] Orlando, L’intimità cit., p. 65. Relego in nota la menzione di un terzo passo, estremamente significativo come «esempio limite di coerenza tematica e valenze segrete nelle più passeggere informazioni narrative: “con uno spazzolino ripuliva i congegni di un cannocchiale e sembrava assorto nella meticolosa sua attività; dopo un po’ si alzò, si pulì a lungo le mani con uno straccetto: il volto era privo di qualsiasi espressione, i suoi occhi chiari sembravano intenti soltanto a rintracciare qualche macchiolina di grasso rifugiatasi alla radice delle unghia” (pp. 49; 49)» (ibidem).
[xlix] Ibidem.
[l] Ibidem, p. 108. L’asserzione risulta centrale per comprendere il funzionamento del testo letterario e del processo di lettura come continuo esercizio di scomposizione dell’ordine sintagmatico e di costruzione di un ordine paradigmatico. La questione investe direttamente il ‘giudizio di valore’, se assumiamo come «postulato minimo d’un tale esercizio […] che l’opera sia coerente e omogenea; [come] postulato massimo, che sia perfetta» (Ibidem, p. 41).
[li] Ibidem, p. 66.
[lii] Si profila qui l’occasione per chiarire meglio – rispetto a quanto enunciato poco sopra alla nota 50 – in che senso vada dunque inteso il valore della ‘coerenza interna’ dell’opera. Si tratta di una coerenza infinitesimale, fin nelle minime parti, piuttosto che di una coerenza totale o generale. Quest’ultima, prerogativa frequente della letteratura di consumo, meccanismo scontato del più comune o banale romanzo giallo, tende infatti ad appiattire le asperità più feconde degli aspetti contraddittori, o ad allentarne la tensione, non lasciando mai, in definitiva, che l’opera si nutra della linfa vitale che pulsa nel contrasto fra soggetto e mondo. Il problema della priorità tra l’uno e l’altro polo che tale contrasto pone nel momento della genesi artistica è uno dei fili rossi dell’interpretazione di Orlando che qui non ci è dato di riassumere (sebbene intrattenga fondamentali rapporti con l’altro grande problema: il rapporto tra universalità e individualità in letteratura): chi volesse ripercorrerlo nelle sue tappe più salienti, veda le pp. 64, 67 (e n. 47), 83, 94.
[liii] Le due citazioni sono tratte da Orlando, Dodici regole cit., p. 236.
[liv] Orlando, L’intimità cit., pp. 66-67.
[lv] Ibidem, p. 67.
[lvi] I ventri squartati dei sei agnellini, a causa dei quali bisognerà poi aprire «la finestra per fare uscire l’odore», ricordano al protagonista «lo sbudellato di un mese» prima (ibidem, pp. 53, 54), la cui triste fine era stata rievocata proprio a partire da «cupe associazioni d’idee» stimolate da sensazioni olfattive – le «zaffate dolciastre» di «un mese fa» (ibidem, pp. 27, 23).
[lvii] Ibidem, p. 68.
[lviii] Ibidem, p. 69.
[lix] Anche nell’ulteriore citazione, tratta sempre dalla prima serie, che ho riportato sopra alla nota 48, la minuziosa ricerca esteriore alla quale sono intenti «gli occhi chiari» di Don Fabrizio non ci appare che come una faccia, inseparabile da quella di un parallelo ripiego interiore, di un momentaneo distacco dalla realtà, che la scena esprime.
[lx] Cfr. Idem, Dodici regole cit., p. 238, decima regola: «In un testo coerente e denso, quasi per definizione nel testo di qualunque capolavoro, è probabile – al punto da costituire sempre almeno un’ottima ipotesi di lavoro – che le opposizioni si reggano e si riassumano fra loro; e perfino che, mediatamente, una di esse regga e riassuma tutte le altre».
[lxi] Ibidem.
[lxii] Matte Blanco, L’inconscio cit., p. 336.
[lxiii] Cfr. ibidem, in part. pp. 236-239.
[lxiv] Ibidem, p. 243 (corsivi miei).
[lxv] Ibidem, p. 242 (corsivo mio).
[lxvi] Torna qui il problema di ordine terminologico a cui accennavamo sopra e con il quale dovremo fare più volte i conti nelle sezioni III. a. e III. b. del presente paragrafo (si veda in proposito sotto la nota successiva e gli ulteriori rimandi lì indicati).
[lxvii] Vedi in part. p. 171 (e note 88 e 89) e p. 175 [dell’articolo, pubblicato su Filologia Antica e Moderna, 16, 1999, pp. 143-182]
[lxviii] Goethe, Maximen cit., p. 471 (massima n. 752; ovvero n. 314 secondo la numerazione di Hecker, si veda la n. 32): «Questo è il vero simbolico: il particolare rappresenta il più universale […] come viva e istantanea [letteralmente: vivamente istantanea] rivelazione dell’insondabile».
[lxix] Matte Blanco, L’inconscio cit., p. 258 (solo l’ultimo corsivo è mio).
[lxx] Ibidem (e si veda l’intero § 7 “La «temporalità» del pensiero e l’«atemporalità» dell’emozione”, del cap. XXI).
[lxxi] Ibidem, p. 256.
[lxxii] Matte Blanco parla di «visione maculare della coscienza»: la sensazione, dopo essere rimasta solo per un istante nel «campo maculare» del pensiero, tende immediatamente a collocarsi in una «zona periferica» rispetto a tale campo. Da lì, in un secondo tempo (vedi più avanti la n. 76, a proposito dell’‘introspezione retrospettiva’), il pensiero tenta di scomporla e di analizzarne ad uno ad uno i singoli elementi (ibidem).
[lxxiii] Ibidem, p. 257 (corsivi miei).
[lxxiv] Si veda l’intero cap. XXII, “Il secondo componente dell’emozione: il pensiero (stabilimento di relazioni)” e in part. le pp. 267-269, da cui sono tratte le citazioni.
[lxxv] Ibidem, p. 270 (corsivo mio).
[lxxvi] L’ipotesi che l’espressione «in modo vivo» faccia riferimento al fenomeno emotivo spiega anche le parole che seguono, e concludono la massima, sulle quali ci siamo già soffermati (vedi sopra, nota 38): «senza prenderne coscienza o prendendone coscienza solo più tardi». Riguardo all’introspezione, cioè all’analisi svolta dal pensiero cosciente nei confronti della sensazione-sentimento, Matte Blanco, infatti, precisa: «l’introspezione è sempre introspezione retrospettiva perché è impossibile sperimentare un fenomeno e allo stesso tempo studiarlo pienamente nella coscienza. La visione maculare della coscienza [cfr. sopra la nota 72] non ammette nel suo campo più di una cosa nello stesso tempo» (ibidem, p. 260).
[lxxvii] Molte traduzioni (tra cui, purtroppo, alcune delle più accreditate, come quella di Barbara Allason, Goethe, Massime e riflessioni, Torino 1943, p. 48; o quella di Marta Bignami, Goethe, Massime e riflessioni, vol. I, Roma-Napoli 1983, p. 68) appiattiscono la distinzione semantica presente nell’originale tra ‘cogliere’, ‘afferrare’ (fassen) e ‘ricevere’, ‘ottenere’ (erhalten), ripetendo semplicemente in italiano il primo dei due verbi. Va persa così una differenza importante, che Goethe inserisce tra i due aspetti del fenomeno, descrivendo quasi l’idea di un movimento, per così dire, di andata e di uno di ritorno dell’azione. Il pensiero asimmetrico trovandosi di fronte la sensazione-sentimento va ad afferrarla, tenta di coglierla (mentre l’emozione nella sua piena vitalità erompe per un istante nel campo maculare della coscienza); contemporaneamente, a partire dalla sensazione-sentimento si irradia nel pensiero simmetrico uno stabilimento di relazioni che tende all’infinito (la totalità dell’emozione si riversa nel pensiero simmetrico). La distinzione tra i due verbi (la mancata ripetizione cioè, a differenza di quanto si legge nelle traduzioni, del verbo ‘cogliere’) sembra suggerire dunque che l’universale, propriamente, non si coglie mai del tutto attraverso il pensiero cosciente.
[lxxviii] È questo il grosso passo in avanti compiuto nell’ambito dello studio del fenomeno emotivo, dal momento che, come osserva lo stesso Matte Blanco, «tutti sono d’accordo sull’enorme influenza che le emozioni hanno sul pensiero, ma nessuno, per quanto ne sappia, è riuscito a presentare una descrizione comprensibile di come si possa stabilire un legame tra i due, che sono stati considerati come totalmente differenti. Se, ora, un aspetto dell’emozione è una forma di pensiero è più facile capire come possa avere intime connessioni con altre forme di pensiero» (ibidem, corsivo mio).
[lxxix] Ibidem, pp. 318-319.
[lxxx] Il punto di vista del «pensiero preciso» spiega anche l’uso di aggettivi quali «unerreichbar» o «unaussprechlich», che abbiamo incontrato nella seconda massima presa in esame. L’emozione infatti, pur venendo tradotta nei termini della logica comune (come fa continuamente Matte Blanco), rimane di per sé qualcosa che non può venir contenuta interamente dal pensiero asimmetrico, qualcosa che, per sua natura, resta «irraggiungibile» e «ineffabile» (vedi sopra la nota 44).
[lxxxi] H. R. Jauss, Kleine Apologie der Ästhetischen Erfahrung. Mit kunstgeschichtlichen Bemerkungen von Max Imdahl, Konstanz 1972 [trad. it. Apologia dell’esperienza estetica, con un saggio di Max Imdahl, Torino 1985].
[lxxxii] Con tale espressione si dovrà intendere la natura di comunicazione sociale riconoscibile nel carattere ‘dialogico’ proprio del processo ricezionale: Jauss lo approfondisce, appunto, tramite il metodo ermeneutico della domanda e della risposta.
[lxxxiii] H. R. Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, in Idem, Literaturgeschichte als Provokation, Frankfurt a. M. 1970, pp. 144-207 [trad. it. Perché la storia della letteratura?, Napoli 1989].
[lxxxiv] Ho tracciato un quadro sintetico degli aspetti salienti di tale ‘svolta’ (partendo dalla messa in discussione di alcuni princìpi teorici precedentemente accolti, per giungere conseguentemente allo sviluppo di nuove linee di ricerca) in un’introduzione ad una recente traduzione italiana di un saggio di Jauss (vedi la nota successiva) risalente al ‘75 (C. Rivoletti, La categoria dell’orizzonte delle attese e la sua revisione, «Allegoria», X (29-30), 1998, pp. 8-22).
[lxxxv] H. R. Jauss, Der Leser als Instanz einer neuen Geschichte der Literatur, «Poetica», 7, 1975, pp. 325-344 (ora tradotto in Il lettore come istanza di una nuova storia della letteratura, «Allegoria», X (29-30), 1998, pp. 23-41; la cit. è tratta da p. 26).
[lxxxvi] H. R. Jauss, Ästhetische Erfahrung und literarische Hermeneutik, Frankfurt a. M. 1982. L’opera è suddivisa in tre parti, ognuna delle quali è stata pubblicata in italiano in un volume a sé stante: le prime due in Esperienza estetica e ermeneutica letteraria, voll. I e II, dal Mulino, Bologna rispettivamente nel 1987 e ‘88 (da cui sono tratte tutte le citazioni, salvo specifici rimandi all’originale tedesco, dettati da esigenze di uniformità terminologica); la terza con il titolo Estetica e interpretazione letteraria, presso Marietti, Genova nel 1990.
[lxxxvii] Idem, Esperienza estetica cit., vol. I, pp. 283-333; la cit. è tratta da p. 282.
[lxxxviii] Dall’uso che ne fa Jauss all’interno dell’opera, le seguenti espressioni andranno considerate come sinonimi: «piano pre-riflessivo» (vorreflexive Ebene), «piano primario» (primäre Ebene), «esperienza estetica primaria» (primäre ästhetische Erfahrung), «dimensione emotiva» (das Emotionale). Un’attenzione particolare merita il termine «piacere» (Genuß, oppure Genießen), talvolta tradotto anche con «godimento», oppure con «fruizione», alla cui ridefinizione Jauss dedica il cap. III della prima parte (ibidem, vol. I, pp. 87-107), rivendicandone la piena appartenenza al momento primario dell’esperienza estetica: il «piacere» quindi, con o senza la specificazione di «primario» (primärer o, anche, ursprünglicher Genuß), è a tutti gli effetti un aspetto peculiare del fenomeno indicato con la serie dei termini sopra citati, e finisce spesso per venir usato anch’esso come loro sinonimo. Una seconda serie di termini andrà intesa invece come l’esplicazione della gamma di possibilità attraverso la quale l’esperienza estetica primaria (indicata attraverso la prima serie) si realizza e si articola: meraviglia, choc, ammirazione, compassione, commozione, condivisione di pianto e di riso, stupore, provocazione ecc. (Staunen, Erschütterung, Bewunderung, Mitleid, Rührung, Mitweinen, Mitlachen, Befremdung, Provokation).
[lxxxix] «Che questo campo di ricerca sia trascurato, – prosegue Jauss – è un fatto evidente, e a questa situazione ha contribuito senza dubbio anche il discredito in cui sono caduti il piacere estetico e [la questione dell’identificazione letteraria]» (ibidem, vol. I, p. 291). Sul problema (che ovviamente si collega a quanto già osservato sopra in corrispondenza delle note 63, 66 e 67) ritornerò più avanti (vedi sotto, in corrispondenza della nota 104).
[xc] Jauss dedica un intero capitolo della sua opera alla critica della Ästhetische Theorie di Adorno: vedi ibidem, vol. I, cap. II (pp. 55-85); ma la questione era stata sollevata, già in precedenza, nell’Apologia dell’esperienza estetica cit., passim.
[xci] Con ‘logocentrismo’ intendo qui una posizione di ‘ascetico razionalismo’, di totale discredito verso ogni attenzione alle dimensioni emotiva ed edonistica.
[xcii] Significativa in questo senso la critica avanzata alla teoria estetica di Siegfried J. Schmidt, Ästhetizität. Beiträge zu einer Theorie des Ästhetischen, München 1971: «Questa presa di distanza, che nel processo della ricezione resta continuamente riferita all’offerta di identificazione emozionale, non può non sfuggire a Schmidt finché egli fa iniziare la comunicazione estetica solo al di là della dimensione emotiva» (Jauss, Esperienza estetica cit., I, p. 292, corsivo mio).
[xciii] Il termine, che viene impiegato da Jauss sette volte nell’opera, viene reso nella traduzione italiana in vari modi, a seconda del contesto: «equilibrio instabile», «bilico», e, una sola volta, «stato di libera oscillazione» (freier Schwebezustand). Il traduttore ha inteso così porre – un po’ troppo unilateralmente – l’accento su quello che Jauss descrive come il lato rischioso della «condizione di oscillazione». Essa è infatti ambivalente: se da un lato descrive, come vedremo, la «libertà di prendere posizione» da parte del fruitore, dall’altro rappresenta altresì un «equilibrio instabile» che rischia in ogni momento di «rovesciarsi» in uno dei due estremi (pieno abbandono emotivo; totale presa di distanza). Nella nostra analisi ho focalizzato l’attenzione sul primo aspetto, lasciando da parte i problemi ricezionali legati al secondo, che ci avrebbero allontanato dalla possibilità di un confronto con la teoria orlandiana.
[xciv] Ibidem, p. 292 (corsivi miei; ho modificato parzialmente la traduzione sulla scorta di Ästhetische Erfahrung cit., p. 254). Il termine «godimento» traduce qui il tedesco Vergnügen, usato come semplice sinonimo di Genuß.
[xcv] Ibidem, cap. III, pp. 87-107.
[xcvi] Ibidem, p. 102 (in tedesco si coglie ancor più la fusione tra i due aspetti: «die primäre Einheit von verstehendem Genießen und genießendem Verstehen», Idem, Ästhetische Erfahrung cit., p. 85, corsivi miei).
[xcvii] Se, nella ‘traduzione’ da una coppia terminologica all’altra, la sostituzione di ‘comprensione’ con ‘pensiero’ va da sé, per quella relativa al ‘piacere’ (che dovrebbe indicare l’emozione, nel senso di ‘sentimento’) si ricordi quanto precisato sopra alla nota 88.
[xcviii] Matte Blanco, op. cit., p. 416.
[xcix] L. Giesz, Phänomenologie des Kitsches, München 19712, p. 33 (citato in Jauss, Ästhetische Erfahrung cit., p. 84).
[c] Jauss, Esperienza estetica cit., vol. I, p. 101 (corsivi miei; ho modificato parzialmente la traduzione, cfr. Ästhetische Erfahrung cit., p. 84).
[ci] Matte Blanco, L’inconscio cit., p. 272 (corsivi miei).
[cii] Jauss, Esperienza estetica cit., I, p. 292 (corsivi miei). La citazione di D. Wellershoff è tratta da Poetik und Hermeneutik VI (Positionen der Negativität), a cura di H. Weinrich, München 1975, p. 550.
[ciii] Jauss, Esperienza estetica cit., I, pp. 293-295: in quest’ultima pagina si legge: «Lascio la risposta a queste domande alla disciplina che per esse è più competente».
[civ] Ibidem, p. 291 (corsivo mio).
[cv] Matte Blanco, L’inconscio cit., p. 416.
[cvi] All’ambito del vissuto del lettore dovremo ascrivere non solo esperienze pienamente realizzate (desideri o timori verso oggetti concreti), ma anche esperienze più genericamente desiderate o temute, esperienze immaginabili, esperienze al limite anche soltanto comprensibili: in un’unica parola non solo esperienze reali, ma anche potenziali. Nella sezione III. c. vedremo come questo ambito venga a coincidere con un particolare orizzonte delle attese del lettore.
[cvii] Orlando, L’intimità cit., p. 121.
[cviii] Con l’espressione mi riferisco alla piena potenzialità dell’ambito del vissuto, come è stato precisato sopra alla nota 106.
[cix] Ibidem, p. 122.
[cx] Il coinvolgimento di elementi extra-testuali avviene dunque in maniera ben diversa rispetto all’operazione da cui abbiamo preso le distanze sopra, alla nota 11.
[cxi] Si veda, in part., in corrispondenza della nota 53.
[cxii] Il legame tra i due problemi è ampiamente illustrato nel già citato saggio di Jauss del ‘75, che costituisce una sorta di istantanea delle problematiche teoriche, in gran parte ancora aperte, discusse in quel tornio di anni (cfr. Jauss, Il lettore come istanza cit., passim).
[cxiii] L’autocritica operata dalla Scuola e la conseguente riformulazione della nozione di orizzonte delle attese all’altezza del ‘75 è stata invece purtroppo trascurata da gran parte della critica, anche in Italia, dove si continua a far riferimento quasi esclusivamente alle tesi sostenute nel fortunato libello del ‘67 (avanzando spesso critiche, peraltro, che coincidono sostanzialmente proprio con gli stessi problemi con i quali si confrontò tale revisione). Ho discusso la questione, ricostruendo il dibattito teorico – che qui sono costretto ad accennare solo rapidamente – che si sviluppò tra le varie ‘voci’ della Scuola, nel § III. dell’introduzione sopra citata (C. Rivoletti, La categoria dell’orizzonte delle attese cit., pp. 13-18).
[cxiv] R. Warning, Rezeptionsästhetik als literaturwissenschaftliche Pragmatik, prefazione alla raccolta di scritti sulla ricezione, Rezeptionsästhetik. Theorie und Praxis, a cura di R. Warning, München 1975, pp. 9-41, qui p. 24 (tradotto in C. Rivoletti, La categoria dell’orizzonte delle attese cit., p. 17). L’espressione prassi di vita traduce il tedesco Lebenspraxis – termine tecnico derivato dagli studi di ‘sociologia della conoscenza’ – che, come l’espressione parallela mondo della vita (Lebenswelt), fa riferimento alla concreta realtà quotidiana in cui è situato l’agire umano.
[cxv] Si veda il § IV. di Jauss, Perché la storia cit.
[cxvi] Cfr. sopra, nota 16.
[cxvii] Non a caso l’opposizione sintagmatico-paradigmatico, come ho già ricordato (sopra, nota 8), si diffonde a partire dalla dottrina di Saussure. Ricordo inoltre che la prima analisi interpretativa di Orlando nella quale incontriamo un uso maturo di questo metodo è Baudelaire e la sera (Lettura di «Harmonie du soir»), «Paragone», giugno 1966, pp. 44-73 (ora raccolta in Idem, Le costanti e le varianti cit., pp. 259-293).
[cxviii] Jauss, Il lettore come istanza cit., p. 36 (corsivi miei).
[cxix] Rimando alla definizione di ‘ambito del vissuto’ che ho dato sopra alla nota 106.
[cxx] S. Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten, Frankfurt a. M. 1961 (citato in F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, 1992 (prima edizione 1973), pp. 48-49).
[cxxi] Ibidem, p. 89.