[Pubblicato in in R. Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, Atti del Convegno della Scuola di dottorato dell’Università di Siena, L’interpretazione, Siena, 29-30 aprile 2008, Artemide, Siena, pp. 17-62]
Apro Mimesis all’inizio del quarto capitolo, nel quale si parla di Gregorio di Tours (538 c.-594) storico della Gallia barbarica. Gregorio occupa il capitolo intero; d’altra parte non solo è l’unico autore del VI secolo di cui si parli nel libro, ma per tutto uno spazio temporale ben cinque volte più ampio, la seconda metà del primo millennio d. C., il secolo e l’autore in questione sono i soli a essere trattati. Il capitolo che segue passa infatti alla Chanson de Roland; colmare la lacuna qui corrispondente ai secoli VII, VIII, IX, X e in parte XI, sarà uno dei moventi del successivo e ultimo libro di Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel medioevo.1Chi del resto, fuori da moventi di studio, legge mai testi di quel mezzo millennio della nostra tradizione? chi, se non è uno specialista, capisce un latino tanto lontano dall’esemplarità classica, o anche in traduzione si orienta nei complicati e remoti contesti di un’età facilmente sentita come anfibia, non più antica e non ancora medievale? Le pagine relative dientrambii libri di Auerbach, invece, danno l’impressione che il suo straordinario senso linguistico e storico sia stimolato proprio dalle opacità di quel latino e di quei contesti, dal loro aggravarsi reciproco. In Mimesis, dopo aver riprodotto due brani di Gregorio e analizzato il racconto disordinato e discontinuo che vi si svolge, osserva che a nessuno storico anteriore sarebbe parso che valesse la pena di narrare contese e violenze di così infima portata locale:
Questa considerazione chiarisce quanto piccolo è l’orizzonte di Gregorio, quanto poco egli possiede la visione dall’alto di un grande insieme interdipendente […]. L’impero non esiste più; Gregorio non è situato più in un luogo dove affluiscono tutte le notizie dall’orbis terrarum, scelte e preordinate secondo la loro importanza per lo stato. […]. A malapena abbraccia con lo sguardo la Gallia; una gran parte della sua opera, senza dubbio la più preziosa, è occupata da ciò che lui stesso ha vissuto nella sua diocesi, o di cui gli è giunta notizia dalle contrade vicine; il suo materiale si limita essenzialmente a ciò che ha visto coi propri occhi.2
Dall’epoca che a sua volta aveva raccontata Ammiano Marcellino (332 c.- 400 c.) e di cui si parla nel capitolo precedente, cioè dalla seconda metà del quarto secolo, il cambiamento principale è una perdita di sicurezza storiograficae stilistica − come Auerbach ha minuziosamente fatto vedere nei brani di Gregorio. Eppure non c’è solo perdita:
è un risvegliarsi della sensibilità immediata. Lo stile e la formulazione del contenuto nella tarda antichità erano diventati convulsi; l’eccesso di mezzi retorici e la tetraggine dell’atmosfera che si era diffusa sugli eventi conferiscono agli autori tardo-antichi, da Tacito e Seneca fino ad Ammiano, qualcosa di faticoso, di forzato, di sovraccarico […]. Quando scrive Gregorio, la catastrofe è avvenuta, l’impero crollato, l’organizzazione infranta, la cultura antica distrutta − ma la tensione si è sciolta, e più liberamente, più immediatamente, non più oppresso da compiti insolubili, non più afflitto da pretese irrealizzabili, il suo animo sta di fronte alla realtà vivente, pronto a coglierla in quanto tale…3
É evidente che viene postulata una corrispondenza tra stile letterario e referenti politici; di questi, conta in particolare « la posizione disperatamente difensiva, nella quale la cultura antica era costretta sempre di più»4.Più precisamente, viene stabilita una geniale equazione a quattro termini: la prosa di Ammiano sta all’oppressione delle insostenibili responsabilità imperiali, come quella di Gregorio a un’atmosfera scaricata e liberata. E ciò, sebbene la fine della tensione faccia tutt’uno con uno scatenamento di rozzezza e brutalità − Auerbach lo ripete, subito dopo aver detto che leggendo Gregorio«è come se respirassimo l’atmosfera del primo secolo del dominio dei Franchi in Gallia».5Venendo al problema che sarà il nostro, è singolare che per entrambi gli autori da lui così messi in contrasto lo studioso possa tuttavia parlare di «realismo». Quello di Ammiano è «un realismo cupo, altamente patetico, che è del tutto estraneo all’antichità classica», salvo precedenti che mescolano già, come Apuleio,«l’arte retorica la più raffinata e un realismo stridente e fortemente deformante»6.Quello di Gregorio è «il realismo della chiesa, quale forse per la prima volta fa la sua apparizione in letteratura […], nutrito di esperienza quotidiana e vigoroso».7Ci servirà da qui in poi aver definito quest’ultimo, sinteticamente: [1] realismo da esperienza immediata e localmente circoscritta.
Retrocedendo nel libro e nella storia, è ovvio che nel secondo capitolo Tacito, ben più “classico” di Ammiano, venga situato agli antipodi. Cioè, dalla parte di quella visione degli eventi per cui Auerbach differenzia la storiografia antica dalla moderna come si differenzia il «moralismo» dallo «storicismo»: come una storiografia cioè che non vede «forze, ma solo vizi e virtù, successi ed errori; essa pone i problemi non in modo attento allo sviluppo storico spirituale o materiale, ma piuttosto in modo moralistico».8 In tal senso, nondovrebbe affatto valere come attribuzione di realismo un riconoscimento come il seguente: «Tacito scrive guardando dall’alto la moltitudine degli eventi e degli affari, li ordina e li giudica da uomo di classe sociale superiore e di cultura superiore».9 Eppure, altrove nel libro e in casi abbastanza disparati, sono proprio ampiezza di sguardo, centralità di posizione e capacità totalizzante a costituire le condizioni di un qualche realismo. La parola stessa, certo, non compare riferita alla Bibbia da questo punto di vista:
Il mondo delle storie della Sacra Scrittura non si limita alla pretesa di essere una realtà storicamente vera − esso afferma di essere l’unico mondo vero, destinato a dominare da solo. Tutti gli altri teatri, vicende e ordinamenti non hanno nessun diritto di presentarsi come indipendenti da esso, ed è promesso che essi tutti, in assoluto la storia di tutti gli uomini, verranno a ordinarsi nella sua cornice e a subordinarvisi.10
Ma fuori dall’unicità di questo quadro sacro, prima settoriale e più tardi universale, non ho bisogno di ricordare al lettore di Mimesis che Dante, Boccaccio, Shakespeare, Balzac sono ampiamente coinvolti nell’uso che viene fatto della nozione di realismo − in sommo grado il primo e l’ultimo. Nel caso del teatro elisabettiano, a cui appartieneShakespeare, la pluralità di oggetti letterariamente disponibile arriva fino a includere le combinazioni della fantasia:
nessuno degli scrittori di questa cerchia culturale [il realismo franco-borgognone] abbraccia e padroneggia con lo sguardo l’intera realtà mondiale del suo tempo come faceva Dante o anche Boccaccio…11
il teatro elisabettiano ci offre un mondo assai più multiforme del teatro antico; a sua disposizione quali possibili oggetti stanno tutti i paesi e le epoche ed anche tutte le combinazioni della fantasia…12
…l’unità politico-culturale del paese gli dette [a Balzac] da questo punto di vista un poderoso anticipo rispetto alla Germania; la realtà francese, pur nella sua molteplicità, si lasciava percepire come un tutto.13
A controprova, il realismo è nominato per negarlo o limitarlo nel caso di Schiller:
Le circostanze contemporanee in Germania si prestavano male a un realismo di grande respiro; l’immagine della società non era unitaria, la vita dell’insieme si espletava in un confuso miscuglio di piccoli “paesaggi storici” e parcelle di territorio formatesi in base a circostanze dinastico-politiche.14
Otteniamo quindi l’esatto opposto dell’accezione precedente di realismo, se definiamo altrettanto sinteticamente quest’altra accezione: [2] realismo da dominazione d’una totalità, mondiale o nazionale, metastorica o contemporanea.
Risalgo allora al primo capitolo, che comprensibilmente, per potenza e per posizione, ha contribuito non poco a fissare una vulgata, un intendimento medio del libro. Proprio quella vulgata che sto cominciando a mettere in discussione − e che potrebbe essere riassunta, per la parte che interessa qui, come segue. Auerbach contrappone modalità di rappresentazione rispettive dell’Odissea e della Genesi; lo fa in modo suggestivo e persuasivo, con imparzialità perfino ostentata, ma si sente lo stesso che una sua preferenza profonda va al testo biblico; siccome il resto del libro consisterà nell’elaborare la nozione di realismo e nel farne l’apologia, ergo la Genesi sarebbe preferibile all’Odissea in quanto più realistica. Di fatto la parola, risparmiata durante la cruciale analisi comparativa, fa la sua apparizione solo verso la fine del capitolo; e dei due versanti che si profilano, è riferita solo al versante greco-romano, non a quello giudaico-cristiano: «il realismo domestico, la rappresentazione della vita quotidiana» in Omero, «il realismo omerico», «il realismo romano»15. Ma rileggiamo la magnifica famosa formulazione delle due modalità rappresentative:
Da una parte fenomeni compiutamente formati, uniformemente illuminati, determinati nel tempo e nello spazio, collegati senza lacune in primo piano; pensieri e sentimenti compiutamente espressi; eventi che si compiono con pieno agio e scarsa tensione. Dall’altra parte viene elaborato, dei fenomeni, soltanto quel che è importante allo scopo dell’azione, il resto rimane nell’ombra; i punti culminanti decisivi per l’azione sono i soli accentuati, quel che sta in mezzo è come non ci fosse; luogo e tempo sono indeterminati e da interpretare; pensieri e sentimenti restano inespressi, sono suggeriti solo dal silenzio e da discorsi frammentari; il tutto […] resta enigmatico e fitto di sfondi.16
Quale delle due modalità è realistica? se lo sono entrambe, quale lo è di più? A voler ricavare definizioni sintetiche, come ho già fatto due volte, da questo passo e da tutto ciò che del primo capitolo esso sintetizza, le difficoltà sorgono proprio sul versante del testo biblico. Ottengo infatti, in buona logica, qualcosa come: [3] realismo da problematicità, enigmaticità, ellitticità di presentazione delle cose;ma corrisponde ad accezioni di realismo documentabili, nel seguito del libro, una tale definizione? Enigmaticità ed ellitticità, qui obbligatorie da menzionare, sarebbero difficili da documentare altrove; quanto alla problematicità, fa almeno in parte doppione con altre prevedibili definizioni richieste dai capitoli successivi.
Sul versante del testo omerico, invece, in buona logica ottengo: [4]realismoda evidenza sensoriale, completezza, plasticità di presentazione delle cose. Una definizione sintetica non difficile da documentare in seguito, questa sì, e non superflua rispetto ad altre. Vero è solo che si tratta di un’accezione di realismo applicabile per lo più a certi autori; autori verso i quali l’ammirazione di Auerbach è proporzionale alla sua obiettività e al senso delle sfumature da lui prodigato dovunque, ma che sono chiamati in causa, pur sempre, per fare da esempi negativi o limitativi rispetto ad altre accezioni di realismo. E queste sono a loro volta le accezioni, non mi piace dire a lui più care, ma di sicuro le più partecipi o costitutive dell’originalità della sua ricerca. Certo, obiettività e senso delle sfumature immettono spesso nel discorso giudizi contrari a ogni schematica aspettativa; se, per esempio, riandiamo alla frase che ho citato prima su Tacito, troviamo riconosciuta immediatamente dopo, insieme al genio di lui, «l’incomparabile cultura sensoriale-visuale dell’antichità».17 O viceversa, a proposito d’un passo delle Confessioni di Agostino la cui espressività intima e drammatica viene dichiarata impensabile nell’antichità classica, si dice che in lui manca quasi del tutto «la descrizione sensibile degli avvenimenti esterni», e sì che il passo in questione «avrebbe dato abbastanza occasioni al descrivere»18. Di nuovo: da che parte sta il realismo, posto che debba stare da una parte sola? Ma andiamo ora a un caso come quello di Chrétien de Troyes: il tenere debitamente conto dell’atmosfera fiabesca dominante non esenta Auerbach, come ci si potrebbe aspettare, dall’interrogare un brano dell’Yvain secondo altri criteri ai quali dobbiamo ancora arrivare. Naturalmente non ci sorprende che, a quei criteri, il brano per lui non risponda affatto; e nondimeno resta un margine entro cui è proprio all’ultima accezione di realismo che esso risponde in buona misura:
L’autorappresentazione della cavalleria feudale nelle sue forme di vita e nei suoi modelli ideali è il vero proposito del romanzo cortese; la rappresentazione indugia anche sulle forme di vita esteriori, e in simili occasioni essa abbandona la nebulosa lontananza della fiaba per darci con piena evidenza immagini dei costumi contemporanei.19
E saltiamo a quanto c’è di più lontanoo più opposto, storicamente, rispetto al fiabesco di Chrétien: lo spirito razionalisticamente criticodi Voltaire,che ne anima i contes philosophiques come tutta l’opera,e lo rende irrispettoso fino alla spietatezza verso tradizioni e istituzioni. Malgrado la distanza, e malgrado inoltre in questo secondo caso l’atteggiamento di Auerbach sia più severo se non addirittura ingiusto, vedo un’analogia fra i due casi. La vedo precisamente nel modo d’introdurre l’ultima accezione di realismo; un po’ come s’introduce una doverosa concessione:
E’ innegabile che di realtà quotidiana se ne trova in molti dei suoi scritti, variopinta e vivace; ma essa è incompleta, consapevolmente semplificata, e perciò, malgrado la serietà dell’intenzione didattica, giocosamente superficiale. 20
Si profila una serie di autori, come vedremo più in là, che malgrado grandi distanze non solo temporali qualcosa accomuna: qualcosa che rischia di rendere meno integra e genuina l’obiettività di Auerbach. Di tutta questa serie,èverso Cervantes che gli viene più spontanea a dispetto di tutto un’ammirazionecalorosa. Cos’è, si chiede, che merita di esser chiamato «propriamente cervantesco»?
È in primo luogo qualcosa di spontaneamente sensibile: una energica capacità di rappresentarsi vivacemente esseri umani molto diversi in situazioni molto svariate […]. Questa capacità la possiede in modo così immediato e forte, e al tempo stesso così indipendente da qualsiasi altra intenzione, che quasi tutto ciò che era realistico in epoche precedenti sembra, al confronto con lui, limitato, convenzionale o dimostrativo. Altrettanto sensibile è la sua capacità di escogitare o immaginare continuamente nuove combinazioni di individui e avvenimenti − […] nessuno in precedenza aveva messo in gioco l’autentica realtà quotidiana entro un simile brillante e accidentale gioco combinatorio.21
Dunque il meno che si possa dire, della nostra quarta accezione di realismo, è che essa prolunga attraverso il libro l’imparzialità mostrata nel primo capitolo verso Omero − volta per volta scendendo alla concessione doverosa o salendo alla calorosa ammirazione. Ma si può dire di più. Chi ha letto Mimesis con sufficiente attenzione o lo ha riletto, sa che quest’ultima accezione si separa male da un’altra ancora, che stavolta faccio più presto a definire preventivamente: [5] realismo da adeguazione dell’espressione linguistica a pluralità e complessità di rapporti. E qui si rende necessaria una digressione solo apparente. Ho ricordato all’inizioche Auerbach scrisse il suo ultimo libro anche perché Mimesissorvolava su quasi cinque secoli di letteratura, fra Gregorio di Tours e l’avvento scritto del volgare; ora, in Lingua letteraria e pubblico…, la parola realismo appare di rado e il concetto non fa più da guida all’indagine − cosa che dà da riflettere. Ma è lì che diventa spiegabile l’antecedente omissione di quel mezzo millennio, e spiegabile proprio per via d’un rapporto in negativo con l’accezione di realismo appena enunciata: cioè per via d’una singolare, statutaria e duratura inadeguatezza d’espressione linguistica. Auerbachtorna su Gregorio; a lui solo accredita la giusta consapevolezza di avere
trovato una forma scrivibile di latino che resta in contatto con la lingua popolare, anzi verosimilmente è sentita come tratta da essa.22
Perciò suggerisce in breve un’ipotesi grandiosa − una di quelle ipotesi per cui la massima “non si fa la storia coi se”sembra capovolgersi nel suo contrario, nell’utilità di mettere a confronto ciò che è stato con ciò che avrebbe potuto essere:
Ci si può chiedere cosa sarebbe successo se egli [Gregorio] avesse avuto dei successori; se in questo stadio dello sviluppo partito dal latino volgare si fosse formata una lingua scritta, che di certo sarebbe stata ancora una Koiné romanza. Ma per quanto ne sappiamo, non ebbe successori. Il secolo VII non ne produsse nessuno sul continente [cioè, ad eccezione dell’insulare britannico Beda il Venerabile], e il latino scritto divenne totalmente informe. Poi però arrivò la riforma carolingia; il fondamento del suo programma educativo era un latino corretto destinato alla liturgia e alla lingua scritta. Così essa separò definitivamente quest’ultima dai volgari dei paesi romanzi.23
Di quella riforma (avviata alla fine del secolo VIII) sarebbe assurdo, dice Auerbach, misconoscere la necessità storica; rendiamoci conto tuttavia che costò cara.A parità di sopravvivenza ufficiale senza più contatto coi volgari parlati, da rozzamente informe il latino passò a frigidamente formale, il che non gli restituì adeguatezza come strumento espressivo e fossilizzò a lungo le cose. Certo, Eginardo può prendere a modello Svetonio per la sua biografia di Carlo Magno, e scrivere un latino molto più puro di quello dei tempi merovingi:
Ma non appena ne va di precisione e di vivezza, lo strumento fa difetto […]. Il ritmo diventa falso, le parole mancano, la loro connessione non si adatta alla connessione di una frase o di un dialogo carolingio autentico. Render conto di fatti della vita in una lingua diversa da quella nella quale i fatti si sono svolti, di per sé non è facile: se poi s’impiega per il resoconto lo stile di un’epoca estranea, la lingua di una cultura da lungo tempo distrutta, l’aspetto vivo dell’evento nel resoconto va perduto […]. Gregorio di Tours, talvolta ancora Beda e Paolo Diacono sono molto più vivi.24
Auerbach prosegue con un vero pezzo di bravura linguistico-storico: cita una lettera piena di risvolti fattuali dell’abate Lupo di Ferrières (morto nell’862), e più che commentarla fa come se tentasse di riscriverla, vagliando frase per frase l’ovvia impossibilità di farlo. Mette così in evidenza tante di quelle reticenze, ambiguità, relazioni non chiarite fra persone, da rendere inverosimile che tutte quante fossero dovute a precauzioni o che dappertutto il dire di più fosse superfluo. Almeno in parte, vuoti e incertezze ricadono sull’inadeguatezza dello strumento: lo scrivente non dispone della lingua orale sua e del suo destinatario, bensì, come ogni altro scrivente post-carolingio, d’una lingua morta.25 L’esperimento ancora seguente, su una lettera diRaterio vescovo di Liegi e poi di Verona (morto nel 974), èpiuttosto di rimediare all’oscurità contorta parafrasando o interpretando qua e là nel tradurre in tedesco.26 Ma è tempo di tornare a Mimesis.
É sempre la conoscenza dellibro che, a proposito di espressione linguistica, induce a chiamare in causa per eccellenza le divergenti tendenze stilistiche all’ipotassi o alla paratassi (subordinazione o coordinazione sintattica). Che l’una sia tipica delle lingue classiche, l’altra del latino biblico della Vulgata o dei primi autori cristiani,non viene ancora esplicitato durante i confronti dei due primi capitoli fra Genesi e Odissea,fra Petronio, Tacito e il Vangelo di Marco, bensì soltanto nel terzo capitolo a proposito di Agostino. Auerbach prende dal Vecchio Testamento quattro potenti esempi di paratassi, per primo il più famoso: «Dixitque Deus: fiat lux, et facta est lux». Constata in più che, anche in una lingua moderna, la congiunzione paratattica e « non indebolisce la connessione di due avvenimenti, ma al contrario la mette enfaticamente in rilievo» (a paragone di costruzioni ipotattiche con Quando… o Dopo che… o un gerundio).27 Senonché, qualsiasi generalizzazione d’una latente preferenza per la Genesi sull’Odissea discorderebbe dal resto del libro non solo se si traducesse in un premio di realismo assegnato alla prima, ma anche se si appoggiasse, in particolare, alle prevalenze della paratassi o dell’ipotassi. Nel quinto capitolo siamo agli albori della letteratura in antico francese, alla Chanson de Roland,alla ancora anteriore vita di santo del sec. XI, la Chanson d’Alexis. «Il ricorso alla paratassi, in entrambi i testi, va ben oltre la mera tecnica sintattica»; in entrambi i testi, il fenomeno di sintassi va di pari passo con un fenomeno che sta piuttosto tra versificazione e narrazione: la relativa indipendenza di ogni strofe dalla precedente e seguente, non senza ripetizioni, ricominciamenti, ellissi e spezzettamenti nel racconto. Ma l’effetto è ben lontano da quello enigmatico e drammatico della paratassi biblica:
Ogni quadro riceve per così dire la sua propria cornice; ognuno è autonomo nel senso […] che in esso nessuna forza propulsiva spinge verso il successivo; e negli intervalli c’è il vuoto, non un vuoto oscuro e profondo in cui accadono e si preparano molte cose, in cui si trattiene il fiato per la trepidazione dell’attesa, com’è talvolta nello stile biblico con le sue pause che fanno riflettere − piuttosto una durata piatta, incolore, inessenziale, talvolta solo d’un attimo, talvolta di diciassette anni, talvolta del tutto indeterminabile.28
Di contro l’ipotassi può bene, nella lingua e nell’epoca dove si esplica al meglio la sua capacità di articolare il pensiero e precisare le relazioni, scontare questa capacità con una presa meno diretta sulla concretezza del reale:
Il latino scritto dell’epoca aurea, specie la prosa, è infatti una lingua organizzatrice quasi all’eccesso, in cui la materialità e sensorialità dei fatti viene più guardata e ordinata dall’alto che non resa percepibile appunto nella sua sensorialità materiale. […] la tendenza a riferire i semplici dati di fatto […] e trasferire invece tutta la precisione e il vigore dell’espressione nei legami sintattici: così che lo stile acquista una sorta di carattere strategico, con articolazioni estremamente chiare, mentre fra l’una e l’altra la materia fattuale è sì dominata ma non propriamente resa percepibile ai sensi.29
Ma quella modernità linguistica che Auerbach fa cominciare con Dante non passa solo, per esempio, dal rendere alla perfezione il «discorso spontaneo, non stilizzato, quale emerge ad ogni istante nello scambio fra i parlanti quotidiani»30; varie strutture sintattiche che Dante impiega per primo, e che ai nostri giorni sono praticabili senza fatica da ogni scrivente d’una qualche cultura, erano fino ad allora inconcepibili per tutti i predecessori medievali in volgare. Sebbene la nuova, sovrana sicurezza espressiva della Commedia non si identifichi né si riduca certo a questo, una ritrovata padronanza dell’ipotassi vi è comunque abbondantemente ed essenzialmente inclusa. Scelgo, da molte memorabili pagine, la sintesi di una sola frase:
Rispetto a tutti i predecessori, fra i quali pure ci furono grandi poeti, la sua espressione possiede tanto più incomparabilmente ricchezza, presenza, forza e flessibilità, egli conosce ed impiega un numero tanto incomparabilmente maggiore di forme, coglie gli avvenimenti e contenuti con una presa tanto più incomparabilmente sicura e salda, che si arriva alla convinzione che quest’uomo con la sua lingua abbia riscoperto il mondo.31
É in virtù di questa riscoperta o riconquista che a sua volta, «senza la Commedia, il Decamerone non avrebbe mai potuto essere scritto».32 Salva la fortissima diversità di contenuti e di tono, il debito di Boccaccio verso Dante non ha a che fare solo con la totalità di visione della nostra accezione 2 di realismo, e con l’evidenza di rappresentazione dell’accezione 4; chiama in causa anche, o soprattutto, l’adeguatezza d’espressione dell’accezione 5:
Ciò che egli deve a Dante è la possibilità […] di conquistare la posizione a partire dalla quale abbracciare con lo sguardo l’intero mondo dei fenomeni contemporanei, coglierli in tutta la loro molteplicità e renderli in una lingua flessibile ed espressiva.33
E anche l’accezione 5 si rivela trasversale all’intero libro, permette collegamenti fra i primi e gli ultimi capitoli; se per l’accezione 2 si arrivava a Balzac, stavolta non si può che arrivare ancora oltre, a Flaubert. Penso alla magistrale analisi, nel capitolo diciottesimo, d’un paragrafo e poi d’una frase di Madame Bovary il cui tema è l’insofferenza di Emma verso la vita coniugale e il marito; un’analisi troppo serrata per estrarne citazioni brevi che la condensino. Basta dire che i rapportifra voce d’autore da una parte, esperienza e pensiero di personaggio dall’altra,vengono descritti con una precisione che esclude modi di lettura alternativi non pertinenti (la riproduzione dei pensieri d’un soggetto, da romanzo in prima persona, o il discorso indiretto libero). è l’autore a dire ciò che Emma percepisce e prova, ma, insieme, a vedere Emma stessa come facente parte del quadro da lei visto; l’autore che si limita, senza intervenire in proprio, a eseguire ciò di cui il personaggio non sarebbe capace: «far maturare linguisticamente il materiale che lei offre, nella piena soggettività di esso».34 Lo specifico dominio realistico della materia risiede, anche qui, non meno nella gestione del discorso che nelle scelte relative alla psicologia o alla situazione. Riflettiamo: ammesso e non concesso che codici letterari e referenti di realtà siano non solo distinguibili ma separabili in letteratura, l’opinione finora corrente è che Mimesis sia uno studio soprattutto sui referenti. E se fosse piuttosto uno studio soprattutto sui codici? èun fatto di codice anche la paratassi, poderosa nella Bibbia ma monotona nella Chanson de Roland,o l’ipotassi, razionale all’eccesso nellaprosa romana ma messa al servizio del più duttile realismo da Dante.
Il mio lettore si sarà chiesto a questo punto se non mi guidi un subdolo intento di mettere in dubbio la coerenza di fondo del libro di cui parlo − e la cui grandezza è assicurata dal fattoeccezionale, per gli studi letterari, che se ne parla ancora nel cinquantenario dalla morte dell’autore. Ma avendo seguito come filo, sia pure per vie oblique e saltuarie, quella nozione di realismo che è al centro della vulgata o intendimento medio di Mimesis, non ho che da rifarmi ai chiarimenti dati da Auerbach su come intende e adopera la parola e il concetto. Chiarimentidati sempre a posteriori, già questo è significativo, e cioè in sede di conclusioni: non prima dell’ultimo capitolo, poi nella postfazione, infine negli Epilegomena a Mimesis scritti a poco più di sei anni dall’uscita del libro, con cui l’autore rispose in una sola volta a molte recensioni.Nell’ultimo capitolo, ha appena giustificato il suo procedere per campioni, imparentandolo a buon diritto con procedimenti narrativi della Woolf, di Joyce, di Proust e altri; mai invece, prosegue, avrebbe potuto scrivere una storia del realismo europeo senza «restare intricato in discussioni disperanti», soprattutto sulla definizione del concetto di realismo.35 Nella postfazione ribadisce: voler elaborare in modo teorico e sistematico la categoria di realismo serio,
avrebbe prodotto fin dall’inizio della ricerca uno sforzo di arrivare a definizioni, faticoso per ogni lettore (poiché neanche l’espressione “realistico” è univoca), e verosimilmente non me la sarei cavata senza una terminologia insolita e zoppicante.36
Solo negli Epilegomena, difensivamente, scopre sino in fondo il suo atteggiamento riguardo alla questione terminologica (la seconda citazione che farò si riferisce a tutti i termini generali della specie di classicismo, barocco, illuminismo, romanticismo ecc.):
É vero che io non definisco questi termini, e persino che nell’uso di essi non sono del tutto coerente. Ciò è avvenuto intenzionalmente e metodicamente. Il mio sforzo di esattezza si concentra su ciò che è individuale e concreto. Ciò che è generale invece, ciò che paragona, raggruppa o delimita i fenomeni, doveva essere elastico e sciolto; doveva nella misura massima del possibile adattarsi a ciò che volta per volta è individuale, e volta per volta è da intendere soltanto in base al contesto.
Il loro valore [dei termini di questa specie]consiste dunque in questo, che essi evocano nel lettore o ascoltatore una serie di rappresentazioni che gli facilita la comprensione di ciò a cui ciascun contesto si riferisce. Esatti non sono.37
Il coraggio della sincerità empirica mantiene Auerbach equidistante da due estremi: la reificazione un tempo frequente, e sempre in agguato, dei termini di questa specie; il rigorismo che col vietarseli si vieta di confrontare, raggruppare, delimitare i fenomeni, e non sa guardarli che a uno a uno. Per qualificare ed elogiare il suo atteggiamento ci vorrebbe quasi un ossimoro, qualcosa come: “scetticismo operativo”. Pure, a chi come me abbia attraversato non impunemente, negli anni sessanta del Novecento, le ambizioni e illusioni scientiste d’uno strutturalismo non ancora degenerato in decostruzionismo, è lecito ancor oggi essere un po’ meno scettico. Non credo impossibile raggiungere un notevole grado di esattezza nell’uso di categorie generali ben definite − purché naturalmente si sia partecipi di quel senso delle sfumature storiche di cui Auerbach è maestro, e non lo si voglia mettere a priori in contrasto con simili tentativi bensì, con intelligenza e passione, al loro servizio. E purché innanzi tutto il gioco valga la candela, ossia il travaglio della generalizzazione coscienziosa sia giustificato dall’interesse dei confronti, raggruppamenti, delimitazioni di fenomeni a cui si mira. Sorrido comunque con simpatia, sapendo quali schematizzazioni sarebbero venute di moda entro un decennio dalla morte di Auerbach, davanti ai suoi scrupoli quando si permette di adottare, per metter ordine in un’analisi, espedienti che si discostano appena dalla discorsività abituale. Si scusa di aver estratto, dai nessi latenti e fluidi della prosa di Montaigne, una forma logica o una successione enumerabile − benché entrambe si stiano dimostrando illuminanti:
Spero che la scomposizione del paragrafo in sillogismi non sembrerà troppo pedante.38
questo, certo, non è che un accorgimento piuttosto meschino, già per il fatto che questi pensieri sono difficilmente separabili e s’interpenetrano continuamente; nondimeno è necessario se si vuol tentare di far emergere tutto ciò che il testo racchiude.39
Ho già contato quasi cinque accezioni diverse se non contraddittorie di realismo in Mimesis, e sono giunto a domandarmi se è uno studio soprattutto sui referenti o sui codici. Vale la pena di fermarci un po’ sulla terminologia, tanto più quanto è più motivato l’uso spregiudicato e flessibile che ne fa Auerbach. Il libro uscì tradotto nel 1951 in spagnolo, nel 1953 in inglese, nel 1956 in italiano, nel 1968 in francese: nessuna delle quattro lingue possiede più che una parola per il concetto di realismo. Il tedesco offre invece la scelta fra tre parole (di ciascuno dei generi grammaticali, maschile, femminile e neutro): der Realismus,die Realistik, das Realistische; l’aggettivo e avverbio realistisch corrisponde a tutte e tre. Come leggera differenza semantica, si può indicare che, rispetto alla poetica e alla prassi letteraria, il primo vocabolo al maschile comporta più un programma o un’intenzione, il secondo al femminile più un effetto o un risultato, il terzo al neutro più una qualità o un carattere. Ma che la differenza sia leggera non vuoldire, come neanche con sinonimi in senso più stretto accade, che all’occhio e all’orecchio dei parlanti della lingua la scelta sia indifferente, intercambiabile, indipendente dai contesti. Inoltre, mentre le altre quattro lingue hanno per il concetto di realtà sostantivi, aggettivi e avverbi della stessa radice latina di realismo, le principali parole corrispondenti in tedesco sono di tutt’altra radice: Wirklichkeit, wirklich. Da tutto ciò derivava, per i traduttori, una costrizione senza scampo a uniformare, talvolta ad appiattire. Maggiore libertà e responsabilità avevano con la batteria dei sinonimi in senso via via più largo, dove era lecito, secondo i contesti non solo semantici ma grammaticali e sintattici, giocare su certi margini d’intercambiabilità. Scelgo di guardare alla traduzione francese, più precisa di quella italiana. Se il sostantivo Darstellungcol verbo e participio relativi è per lo più rendibile con représentation, e così Nachahmung con imitation, e Ausmalungcon peinture, le tre parole francesi in corrispondenza delle tre tedesche si alternano liberamente sia fra loro, sia con altre quattro o cinque parole delle due lingue: in tedesco Stofflichkeit, lo stesso Wirklichkeit, Sinnlichkeit, Anschaulichkeit,o i loro aggettivispesso sostantivati; in francese matérialité o matériel, réalité o réel,o (dove i sostantivi fanno difetto) sensoriel, visuel, concret.Nasce subito la domanda se per caso, volendo distinguere una pluralità d’accezioni di realismo in Mimesis, sia possibile, utile o necessario partire metodicamente da una così ricca varietà lessicale. La risposta è senza ombra di dubbio negativa, come mi è stato prestissimo chiaro avendoci provato.
I lettori affezionati alla vulgata del libro ripiegheranno, nella migliore delle ipotesi, su un residuo d’incredulità: ma è proprio vero che non vi si incontrano tutto il tempo se non tanti distinti realismi? chemai vi si affaccia, in onta a una tale elasticità terminologica, e sia pure come illusione, l’ipotesi di un realismo, delrealismo assoluto? Sarei infedele alla lezione d’un maestro delle sfumature se non riconoscessi che l’ipotesi, beninteso a mio parere come illusione, qua e là si affaccia appena, in casi più o meno giustificati.− L’eloquenza dell’agitatore fra le truppe romane, in Tacito:«Percennio non parla il suo proprio linguaggio, parla piuttosto tacitianamente, cioè in modo concentrato all’estremo, perfettamente ben disposto e altamente patetico».Nell’esperienza extraletteraria sarà del tutto improbabile che un’arringa sia a tal punto stringata ed efficace, ma qui l’arringa è resa in discorso indiretto, ammette Auerbach, il che esclude anche «qualsiasi traccia di gergo militare»40; inoltre, storiografia o fictio, quale genio supremo nel dotare i personaggi d’un linguaggio proprio, Shakespeare o Proust, fa mai dimenticare che il parlante è un suo personaggio? − Ammiano Marcellino ha forti doti espressive che fanno appello ai sensi: «Tuttavia il suo procedimento non è affatto imitativo, come sarebbe se di fronte ai nostri occhi ed orecchie gli esseri umani venissero fatti sorgere in base alle loro proprie premesse, fatti pensare, sentire, agire e parlare come fosse a partire dal loro essere».41 Se Auerbach non si richiamasse subito, anche qui, all’eloquenza classica cioè ad un codice, coglieremmo in flagrante nella frase l’ideale di personaggi rappresentati direttamente in base a presupposti propri, a un loro essere: in altre parole, di referenti di realtà non filtrati da nessun codice letterario. Può mai avverarsi un tale ideale? − La partenza del cavaliere in Chrétien de Troyes:«Ma se Calogrenant fosse veramente partito come lui lo rappresenta, si sarebbe imbattuto già allora in tutt’altre cose che quelle di cui ci informa. Seguono i dovuti riferimenti storici, e il commento che a quei tempi «le cose andavano in tutt’altro modo che nel romanzo cortese», nel quale non si ha una «realtà poeticamente formata» ma un’evasione nel fiabesco.42 Affermazioni vere, ma di verità pari alla loro tenuità d’informazione, quasi sottintendessero una tautologia: il genere letterario romanzo cortese è il genere letterario romanzo cortese. − C’è perfino una sorta di controesempio, dove il realismo,facendo più vero del vero attestabile, si tradirebbe come inventato. In Gregorio di Tours, due fuggitivi si nascondono dietro un cespuglio ma proprio lì sostano i loro persecutori, uno dei quali parla “mentre i cavalli versavano l’urina”. «Si vede come Gregorio, per dar vita a ciò che racconta, inventa cose del genere spontaneamente, a partire da ciò che serve alla sua fantasia − lui non era mica presente!».43Ma tanto meno era presente Erich Auerbach, nelle occasioni impossibili da ricostruire in cui lo storico riceveva informazioni sull’episodio; sola certezza, Gregorio era padrone di inserire o no quella circostanza.
Non ho nessun motivo di sollevare spunti critici analoghi davanti ad altri passi. Due volte ci s’imbatte in un problema eterno della storia letteraria: quando i testi rappresentano fenomeni nuovi, come concepirne la novità? O quei fenomeni preesistevano non rappresentati, e solo ora accedono alla letteratura; o sono cominciati solo ora nella realtà, e la letteratura a sua volta comincia a farli propri. In altre parole, la novità sta nel codice o nei referenti? La tendenziosità antireferenziale imperante da trenta o quarant’anni non può appagarsi che d’una terza soluzione, più idealistica: solo la parola, letteraria o no, inventando conferisce l’esistenza. La soluzione di Auerbach è invece naturalmente la prima, che, a conferma d’un suo orientamento da me già suggerito, fa leva sul codice. La disperazione in cui vive Emma Bovary non ha cause catastrofiche, i desideri di lei restano nel vago: «una disperazione così poco concreta può certo sempre essere esistita, ma prima non si pensava a prenderla sul serio in opere letterarie».44 A maggior ragione, preesistevano alla Woolf quei frammenti e riflessi di cui è intessuto To the Lighthouse: «Appaiono parti dell’evento e collegamenti con altri eventi, che prima si intuivano appena, non si guardavano e osservavano mai − e che pure sono determinanti per la nostra vita reale».45 Più spesso s’incontra, in Mimesis, un procedimento caduto in desuetudine durante gli ultimi decenni: il valore di verità dei testi viene misurato direttamente sull’esperienza. Prende forma di vera e propria massima a proposito del Tartuffe di Molière: «l’esperienza mostra» che l’impostura più grossolana può aver successo quando soddisfa desideri segreti di chi la subisce;46 altrove, è concepito pure su larga base transstorica «il principio euristico» di Montaigne, il suo ambire alla conoscenza generale dell’uomo partendo da quella particolare di sé.47 Altri richiami all’esperienza sono più legati a un’epoca e a un codice. Avvengono rispettivamente: o per individuare un’alternativa storica mancante − atrocità come quelle che racconta Ammiano sono successe «quasi sempre e dovunque», pure è oppressiva in lui l’assenza d’un qualsiasi contrappeso di umanità e speranza;48 o per giustificare una reazione presunta nei lettori − il Ciappelletto di Boccaccio mente con impulsiva leggerezza, che molti uomini lo facciano è «conforme all’esperienza», pure ci si aspetterebbe almeno dall’autore una presa di posizione adeguata;49 o per prestare significato a una persistenza lessicale −l’identificazione fra il naturale e il culturale nel Seicento francese ci è difficile da comprendere, pure ci capita talvolta ancora oggi di lodare la naturalezza in un uomo colto.50
Nel passo su Ammiano, il pessimismo storico ripara dietro un amaro understatement: «le epoche in cui la vita è un po’ più sopportabile non sono troppo frequenti».51 Ma più volte il richiamo è a quell’esperienza politica che era attuale per Auerbach, e che, restando unica in ogni tempo nel combinare ferocia e pianificazione, rappresenta il colmo d’orrore nella storia dell’umanità. L’avvento del nazismo in Germania è chiamato fin dal primo capitolo a esemplificare, in antitesi alle semplificazioni di ciò che è leggendario, le complicazioni costitutive di ciò che è storico: «una quantità di motivazioni contraddittorie in ogni individuo singolo, un oscillare e un ambiguo andare a tentoni nei gruppi».52 Più in là, in un preciso contesto, se Auerbach dice che la sollevazione militare del libro XX di Ammiano non gli avrebbe fornito il confronto giusto, è perché sospetta che si trattasse d’una dimostrazione di massa abilmente provocata, «come abbiamo imparato fin troppo bene dalla storia più recente»;53ma gli sarebbe venuto un tale sospetto, possiamo chiederci, se avesse scritto in altri anni? Quella stessa storia recente ha mostrato che, una volta creatasi ostilità contro una minoranza, tutte le ingiustizie della propaganda «sono sentite come tali in modo semicosciente, nondimeno salutate con sadica gioia»; la campagna di diffamazione ottocentesca raccontata in una novella di Keller appare, al confronto, come «un leggero intorbidamento in un chiaro ruscello rispetto a un mare di sporcizia e sangue».54Germinal resta un libro spaventevole dopo più di mezzo secolo, «i cui ultimi decenni ci hanno regalato una sorte che nemmeno Zola poteva sognarsi».55 A poche righe dalla fine, la notizia che Mimesis è stato scritto a Istanbul durante la guerra viene data in apparenza a un solo scopo: dire che mancava una biblioteca adeguata, e questo può aver causato disinformazioni sperabilmente circoscritte, ma d’altra parte era forse la condizione stessa per intraprendere un simile libro.56 Non si dice né che a Istanbul l’autore aveva riparato per salvarsi la vita, né che la grandiosità di visione del libro la si deve ancora di più al senso del precipizio d’una civiltà, che non alle mancate tentazioni di annegare nelle bibliografie specialistiche.
Dopo tutte queste precisazioni di metodologia e terminologia, ci si aspetterà che la rassegna delle accezioni di realismo in Auerbach proseguarassomigliando sempre più a una serie di codici: dai quali l’infinita varietà oggettiva del reale, affinché diventi letteratura, è ritagliata come da forme relativamente stabili e non infinite. Nel proseguire la rassegna e individuare queste forme, seguirò un ordine di prossimità ideali: poche volte quindi rispettoso dell’ordine cronologico, e con esso di quello sintagmatico − l’effettiva successione dei capitoli, paragrafi, frasi, parole di Mimesis. Sarà al contrario un ordine paradigmatico, che, scomponendo liberamente la successione delle parti, faccia emergere costanti tanto meno visibili e più vere quanto più imprevedibilmente sparse. (Sia detto fra parentesi: è il procedimento che ho speso la vita ad applicare ai testi della letteratura, mentre per la prima volta lo applico a uno studiosulla letteratura; ma riflettere sulle premesse di legittimità d’una tale trasposizione metodologica ci porterebbe, temo, troppo lontano). Ripartiamo dall’accezioneche sicuramente in tutto il libro è la più marcata di unicità, posta com’è sotto il segno dello stupefacente e del paradossale. I personaggi del decimo canto dell’Infernodi Dante (e non di quel solo canto, anzi, in senso meno stretto, nemmeno di quella sola cantica),
non fanno l’effetto di essere morti, come invece sono, bensì viventi. Qui giungiamo all’aspetto più sorprendente, anzi paradossale, di quel che viene chiamato il realismo di Dante. Imitazione della realtà vuoldire un’imitazione dell’esperienza sensoriale della vita terrena, fra i cui tratti più essenziali sembra contare la sua storicità, il suo trasformarsi e svilupparsi […]. Ma gli abitatori dei tre regni di Dante conducono un’esistenza immutabile…57
L’ultima espressione è presa da una densa pagina dell’Estetica di Hegel, come l’idea che Dante introduca nell’immutabile il movimento delle azioni e passioni umane. Sviluppando questa contraddizione, Auerbach la rende così illuminante che volentieri trasferiamo alle sue pagine l’ammirazione da lui riservata allo spunto di Hegel; spiega a lungo ed a fondo per quali ragioni, insieme teologiche e poetiche, quei morti possano produrre l’effetto di essere alla lettera più viventi dei viventi. Sia la parola storicità che la parola realismo acquistano un senso inapplicabile a qualunque altro autore e testo:
…per le anime dei morti il pellegrinaggio di Dante è l’unica ed ultima occasione, per tutta l’eternità, di parlare a un vivente; una circostanza […] che nell’immutabilità del loro destino eterno introduce un attimo di drammatica storicità.58
…questo realismo proiettato da Dante nell’immutabile eternità…59
Questo [la concezione figurale della storia condivisa da Dante] spiega il soggiogante realismo dell’al di là dantesco.60
…come questo realismo dell’al di là si distingue da ogni altro puramente terrestre. 61
Ho citato così frammentariamente da rendere più perentorio che altrove il rimando al testo integrale. Ma a noi tanto basta per definire la nuova accezione: [6] realismo da irruzione di storicità umana nell’immutabilità dell’oltretomba.
Storicità − si preannuncia come prossima l’accezione più divulgatadel libro, o meglio una delle due che lo sono di più. Se lamia critica d’una vulgata centrata sul realismo tende ad aprire la nozione dal singolare al plurale, è il momento di riconoscere che in questo senso la vulgata racchiudeva già, come ogni luogo comune, un nucleo di verità. Riassunta infatti al completo (anziché con riferimento al primo capitolo come mi era servito a scopo parziale più sopra), essa non postula in realtà un centro solo ma due: per la tarda antichità e il medioevo, un realismo di origine biblico-evangelica fondato sulla figura di Cristo; dopo il primo Ottocento, un realismo di origine politico-sociale segnato dallo scatto di coscienza storica. Una coscienza storica sotto varie forme, peraltro, si preannuncia per Auerbach in autori molto anteriori all’Ottocento, non si manifesta tranne che nel caso di Dante in modalità esclusive a un autore unico, e viene spesso individuata anche in negativo ossia per via di effetti della sua assenza. Perciò la strategia migliore non è partire da un’accezione sintetica di realismo storico, salvo poi ad articolarla secondo vari punti di vista; bensì distinguerne tante quanti sono i punti di vista d’interesse sufficiente, dando la precedenza all’accezione di portata più generale. Abbiamo visto che nel primo capitolo, dei due testi fondatori della futura tradizione unitaria occidentale, è Omero a dare il modello d’un realismo qualificato dall’evidenza sensoriale. Invece, secondo la polarità fra ciò che è leggendario e ciò che è storico, Omero si situa invariabilmente al primo polo; mentre la narrazione biblica non solo si situa all’opposto, ma è come se oltrepassasse la polarità stessa grazie al senso del divenire che la accompagna:
E molto spesso, quasi dovunque, questa capacità di sviluppo dà ai racconti del Vecchio Testamento un carattere storico, perfino là dove si tratta di una tradizione puramente leggendaria.62
Uno dei caratteri che fanno del romanzo di Petronio un unicum entro la letteratura latina è quel tanto di senso storico che, pur unilaterale, circola nelle instancabili chiacchiere del convitato di Trimalcione:
Il nostro convitato […] ha veramente in mente il mutamento storico, il cambio di fortune. […]. Il suo senso storico è unilaterale, dato che gira solo attorno al possesso del denaro, ma è autentico.63
In tal senso è difficile trovare nelle letterature antiche un brano che mostri un movimento interno alla storia con la forza di questo. […]. Così [Petronio]ha raggiunto il limite estremo fino a cui il realismo antico si è spinto…64
Incrociare sotto il segno del realismo storico un memorialista del Settecento francese sarebbe sorprendente, se Saint-Simon non fosse lo scrittore che è: eccentrico nel suo tempo fino a dare l’idea d’un anacronismo assoluto, pervenuto dalla clandestinità al successo più di mezzo secolo dopo la morte. E sono proprio queste singolarità, grandezza a parte, ad attirargli una predilezione di Auerbach tradotta in pagine fra le migliori. Il vertice è dopo una citazione dal colloquio a quattr’occhi che il duca ha col gesuita Le Tellier − promotore cinico di violente intolleranze politico-religiose, e tuttavia integralmente disinteressato riguardo alla propria persona, fanatizzato unicamente dagli interessi dell’ordine a cui appartiene. Anche l’ultima frase che riporto racchiude senza dubbio un richiamo ai totalitarismi del Novecento; ma l’accostamento è qui più che altrove insito nelle cose, in una mostruosa continuità della storia moderna che la Compagnia di Gesù potrebbe aver inaugurata:
nell’uomo che [il duca di Saint-Simon]hadi fronte «bec à bec», vede istintivamente un’unità fatta di corpo, di spirito, d’una situazione di vita e della storia d’una vita; questo gli dà una forza di penetrazione che trapassa l’uomo per addentrarsi fino al vero oggetto politico, e tanto in profondità che talvolta la parte di quest’oggetto realmente presente […] svanisce al suo sguardo, e al di sotto si dischiudono intuizioni molto più profonde e generali; […] vede con viva pienezza l’essenza del gesuitismo, anzi al di là di essa l’essenza di ogni comunità solidale rigidamente organizzata.65
Finalmente eccoci arrivati a Stendhal, al secondo centro del realismo entrato nella vulgata − e dicendo finalmente non concedo se non questo dato di fatto, relativo alla fortuna del libro, alla pretesa costruzione teleologica di esso. In nessun altro capitolo comunque, dopo le lunghe citazioni che regolarmente li avviano, si va entro quattro righe così dritto all’essenziale:
Quel che ci interessa nella scena è questo: essa sarebbe press’a poco incomprensibile senza la conoscenza la più esatta e particolareggiata della situazione politica, della stratificazione sociale e delle relazioni economiche di un momento storico perfettamente determinato, ossia la situazione della Francia poco prima la rivoluzione di luglio…66
Dall’affermazione e dalla dimostrazione puntuale d’una tale novitàescono per Auerbach due domande: perché essa si verifica proprio allora e non prima? perché proprio ad opera di quel singolo uomo e scrittore? La risposta alla seconda domanda non può essere che più problematica e ipotetica; quanto alla prima domanda, di nuovo, è presto detto
quali furono le circostanze che, in questo momento e ad opera un uomo di quest’epoca, consentirono che si destasse il realismo moderno tragico, fondato sulla storia in corso: si trattò del primo dei grandi movimenti del tempo moderno a cui presero consapevolmente parte grandi masse umane, la rivoluzione francese con tutti gli scuotimenti, propagatisi nell’intera Europa, che ebbe come conseguenza.67
E nel ribadire la priorità di Stendhal chiamando a confronto quasi una decina di grandi nomi del Settecento europeo, Auerbach ricorda solo per inciso che successivamente invece, che oggi quindi, situare nella storia un racconto è divenuto qualcosa di ovvio:
Nella misura in cui il realismo moderno serio non può rappresentare gli uomini se non inseriti in una realtà d’insieme politica, sociale ed economica in costante sviluppo − come oggi si verifica nel primo romanzo o film venuto −, è Stendhal il suo fondatore.68
Segue immediatamente Balzac, che fa la stessa cosa in modo ancora altrettanto nuovo, che fa anche di più o dell’altro,69 e sorpassa di molto Stendhal «nel collegare organicamente l’uomo e la storia».70 In Flaubert l’ambientazione storica avviene «in modo sì meno vistoso che in Stendhal o Balzac, nondimeno impossibile da misconoscere»71; diciamo che ha già cominciato a farsi via via scontata. A quest’accezione, intesa nella sua portata più generale, è semplice dare un nome: [7] realismo da storicizzazione di ciò che è rappresentato.
Ed ora ecco accezioni più particolari. Saràstrategicamente meglio distinguerle anche nei casi in cui per Auerbach sono significative per lo più in negativo, determinano insomma con la loro assenza o coi loro limiti l’assenza o i limiti di un realismo. Non è questo il caso di Petronio, dove, secondo la prima delle accezioni in questione, nella mobilità del mondo si specifica il senso storico che sappiamo:«Per lui il mondo è agitato da un movimento costante, niente è sicuro, ma soprattutto agiatezza e posizione sociale sono instabili all’estremo».72 E non è il caso di Shakespeare, dove «non c’è come sfondo un mondo quieto, bensì un mondo che, in preda alle più molteplici forze, si rigenera continuamente».73 Ma il contrario della mobilità, la staticità, silenziosamente caratterizza lo sfondo dell’azione nel romanzo di Goethe pur indicato come la sua opera più realistica, Gli anni d’apprendistato di Wilhelm Meister:
Quando apprendiamo qualcosa sul padre di Wilhelm, su suo nonno, sul padre del suo amico Werner, sulle loro abitudini, collezioni, affari ed opinioni, abbiamo l’impressione di trovarci in una società del tutto ferma, trasformata del tutto gradualmente solo dal succedersi delle generazioni.74
Nella narrativa tedescaposteriore, che non ha goduto di esportazione letteraria europea come quella francese contemporanea, ma che il filologo romanzo Auerbach conosce ed ama, una tale staticità si perpetua per tutto l’Ottocento:
Due figure così fondamentalmente diverse come Gotthelf […] e […] Hebbel […] hanno questo in comune, che lo sfondo storico degli eventi da loro rappresentati sembra del tutto immobile; le fattorie dei contadini bernesi sembrano destinate a giacere ancora per secoli nella stessa quiete, mossa solo dal cambio delle stagioni e delle generazioni, in cui già per secoli sono giaciute…75
Un anacronismo anacronistico, senza gioco di parole: l’anacronismo è nell’oggetto di rappresentazione, ed è anacronistico secondo la storia letteraria. Tale diventa sempre di più nel corso dell’Ottocento − ma solo se guardato dall’esterno rispetto alla letteratura tedesca; sono, questi, propriamente giudizi su Goethe, su Gotthelf e Hebbel, o sono piuttosto valutazioni comparative a maggior gloria indiretta di Stendhal, Balzac e Flaubert? Giudizi di valore artistico, innanzi tutto, non vogliono essere. Negli Epilegomena,Auerbach risponde al rimprovero di aver posposto la letteratura tedesca a quelle romanze; i francesi dell’Ottocento, dice, erano decisivi per i problemi del suo libro, e la sua ammirazione per loro era grande: «Ma per mio piacere e ricreazione preferisco leggere Goethe, Stifter e Keller».76 Rileva del resto una staticità di sfondo analoga in Dickens − in quello fra i narratori d’una terza letteratura che fu più presto largamente esportato, come i francesi, e a differenza dai tedeschi posteriori a Goethe. E il rilievo si estende all’intera narrativa inglese del secolo, in misura attenuata dalle diverse condizioni politiche del paese:
…ancora in Dickens, […], malgrado il forte sentimento sociale e lo spessore suggestivo dei suoi milieux, a stento si avverte qualcosa del movimento politico-storico sullo sfondo.77
Il calmo sviluppo della vita pubblica durante l’epoca vittoriana si rispecchia nel più ridotto movimento dello sfondo contemporaneo sul quale si svolgono gli avvenimenti della maggior parte dei romanzi.78
Esiste dunque, dove esiste, e caratterizza i testi in negativo dove non esiste, un’accezione così definibile: [8] realismo da mobilità anziché staticità di sfondo sociale.
Una seconda accezione più particolare del realismo storico è individuata, le poche volte che lo è, quasi esclusivamente in negativo; non per questo è da trascurare. Come sempre, Auerbach fa riferimento all’atmosfera fiabesca prevalente in Chrétien de Troyes − ma non si accontenta di un alibi pur così distanziante:
…tutte le immagini variopinte e viventi di realtà contemporanea […] sono sprovviste di ogni fondamento di realtà politica; i rapporti geografici, economici, sociali sui quali essi poggiano non vengono mai chiariti; emergono senza nessuna transizione dalla fiaba e dall’avventura…79
Nel caso di Molière, analogamente, è il genere comico che potrebbe contare come sufficiente alibi e non conta affatto;e nemmenoconta la forza critica dell’analisi morale, che pure gli viene accreditata:
Manca ogni ombra di politica, di critica sociale ed economica, o di esame dei fondamenti politici, sociali, economici della vita; la sua critica dei costumi è puramente moralistica, cioè assume come data la struttura esistente della società, ne presuppone la giustificazione, la durata e la validità generale, e sferza come ridicole le stravaganze che capitano all’interno di essa.80
Dopo questo, non ci aspetteremmo che a Racine l’obiettività di Auerbach valga una comprensione più intima, e invece dovremo tornarci sopra.Ma aben maggior ragione era naturale che venisse avvertito, nelle sue tragedie, come il moralismo dissolva a priori ogni senso politico:
Questa presentazione di eventi politici fatta al modo tipico di un moralista, tale da escludere ogni attenzione a ciò che è fattuale e problematico ed ogni immissione nella concretezza pratica degli affari di governo…81
Infine con Prévost risiamo nel Settecento, e anche sul secolo di appartenenza torneremo. A me sembra che le pagine su Manon Lescaut siano praticamente le uniche, nel libro, dove Auerbach ha mancato di cogliere l’essenziale, o di riconoscerlo almeno in margine ad altre direttive del suo discorso. La complessità passionale avrebbe dovuto assicurare al romanzo,da parte sua, un apprezzamento della specie che vedremo tributata a Racine; e ciò quand’anche il movimentato sfondo sociale non vi introducesse un tutt’altro tipo di realismo − di cui Racine è la negazione. Stranamente, invece, alla complessità passionale Auerbach resta cieco, fino a scrivere che «l’argomento come la rappresentazione sono assai lontani da ogni approfondimento esistenziale». Lo sfondo movimentato, da solo, non si sa più quanto valga. All’importanza del denaro si accenna senza sottolineare che ricchezza e povertà interferiscono irresistibilmente nella fedeltà di Manon e minimamente nel suo amore; senza quindi mostrare d’accorgersi della straordinaria originalità d’una tale interferenza, rispetto al codice romanzesco precedente:
Persone di tutti i ceti a formare l’ambiente, faccende d’affari e tratti d’ogni genere del costume contemporaneo s’intrecciano nell’azione; […]. In Manon Lescaut si parla molto di denaro… […]; tutto va in modo decisamente realistico.82
Ma oltre che in Prévost, e oltre che in negativo, quest’accezione può presentarsi in positivo e restare mal distinguibile da più d’una delle altre precedenti e seguenti. La definiamo: [9] realismo da precisazione di fondamenti economici, politici, geografici.
Non trascuriamo neanche, col pretesto che la si esplicita una volta sola e in negativo, quasi fosse un contrario anticipato della novità apportata da Stendhal, un’altra accezione avente a che fare col “ritardo” della Germania. Oltre alla mobilità o stabilità dello sfondoevocato, oltre alla precisazione o imprecisione dei fondamenti fattuali, resta un terzo bivio: che il realismo storico si misuri con la contemporaneità anziché evadere lontano dalpresente, e se lo fa, che lo faccia con risoluta concretezza o non sappia superare restrizioni di vario tipo. Cabala e amore (o Luisa Miller), «tragedia borghese» di Schiller, apre il capitolo tedesco perché in esso ha il merito di rappresentare una scelta unica in questo senso. Auerbach non giudica l’opera un capolavoro e non lo nasconde, la analizza nei suoi difetti; nondimeno:
Più tardi, nell’epoca goethiana, non si è più tentato di concepire tragicamente un ambiente borghese medio del presente, sulla base del suo stato sociale attuale; […]. Lo stesso Schiller, e in generale l’orientamento della letteratura tedesca, si distolsero da un realismo del presente che […] rappresentasse in modo preciso e concreto l’aspetto politico ed economico. [La mescolanza degli stili sotto il segno di Shakespeare] si manifesta quasi soltanto in argomenti storici o poetico-fantastici; quando tratta del presente, si chiude in un settore ristrettissimo, non politico, o si dà come idillica, o ironica, rivolta esclusivamente alla dimensione personale.83
Non c’è da esitare sulla definizione: [10] realismo da rappresentazione della contemporaneità.
Le ulteriori accezioni che vorrei presentare non cessano di far leva sul mutamento storico, ma sono definite, più direttamente delle ultime cinque, da sospensioni o abolizioni della classica e più che millenaria “separazione degli stili”. O meglio, rispetto ad essa, da una intrinseca, più o meno radicale estraneità: quale la imposero, in secoli lontani la coincidenza dell’umile e del sublime nella persona di Cristo, nei secoli più vicini una concezione del mutamento che ebbe origini rivoluzionarie. La partecipazione che suscita la scena del Vangelo di Marco le viene dal rappresentare qualcosa che mai prima era stato rappresentato:
la nascita di un movimento spirituale nelle profondità del popolo di tutti i giorni, in seno agli eventi contemporanei quotidiani…[…]. Questi eventi temporali che si svolgono nel quotidiano sono, per gli autori del Nuovo Testamento, eventi rivoluzionari di portata mondiale, e lo diventeranno per chiunque più tardi.84
Nel secondo dei brani tratti da Germinal di Zola, c’è tutt’insieme risveglio dalla rassegnazione alla coscienza sociale,germinare di speranze e progetti, atteggiamenti diversi secondo le generazioni, misera tristezza e tanfo del locale, accatastamento umano, linguaggio di semplice efficacia che si va formando:
la somma di tutto questo dà un quadro tipico della classe operaia ai primi tempi del socialismo, e oggi nessuno vorrà più contestare seriamente che l’argomento abbia un significato storico mondiale.85
Oserò supporre che, fra la seconda frase citata su Marco e quest’ultima su Zola, Auerbach sia stato conscio d’una simmetria che poteva non disturbare il suo antischematismo solo a condizione di scaturire spontaneamente dai fatti? Registriamo, quand’anche si affacciasse queste due volte sole, un’accezione di portata entrambe le volte rivoluzionaria, entrambe le volte mondiale: [11] realismo da mutamento storico presentato nella sua partenza dal profondo del popolo.
Ne è immediata conseguenza, ignara o immemore della separazione degli stili latina o francese, una promozione di personaggi che non ne sarebbero stati degni secondo il fondamento della regola in una gerarchia sociale. Beninteso, ai personaggi di basso rango non era mai stato precluso l’accesso in sé alla rappresentazione, possibilissimo entro i generi letterari e i livelli stilistici previsti per la loro dignità limitata o ignobiltà. Precluso era l’accesso al serio, al tragico, al sublime. Non è né artificio né caso se la rassegna dei passi qui pertinenti, uscita dalla mia sperimentale schedatura di Mimesis, riparte proprio da Marco per arrivare proprio a Zola. Il rinnegamento di Pietro:
La scena, assolutamente realistica in base al suo sfondo e ai personaggi che vi agiscono − si badi in particolare al loro infimo rango sociale − è della più profonda problematicità e tragicità.86
Nella rappresentazione sacra Mistère d’Adam,della fine del secolo XII, il colloquio ha un bello svolgersi fra il primo uomo e la prima donna del mondo, avere l’importanza che ha per il genere umano, costituire quindi un momento sublime. Tutto ciò non cambia niente all’umiltà di linguaggio d’uno spettacolo rivolto al popolo; chiunque assistesse doveva essere in grado d’immedesimarsi paritariamente nei protagonisti del mito. La contraddizione così formulata da Auerbach è però reversibile; il linguaggio ha un bell’essere umile, ciò non cambia niente alla sublimità del colloquio:
Il colloquio fra Adamo ed Eva, questo primo colloquio di portata storica mondiale fra uomo e donna, diventa un evento della più semplice, quotidiana realtà; diventa, per quanto sublime, un evento da stile semplice, basso.87
Non che non sia possibile anche durante il medioevo un esempio in negativo, dove sono paralleli al rango sociale, più che livelli di stile, ruoli differenziati nel racconto. è il romanzo cortese alla Chrétien de Troyes, che la materia arturiana con la sua provenienza celtica sottrae in buona parte all’ambito religioso, allontana relativamente dalla tradizione cristiana:
solo persone di rango cavalleresco cortese sono degne dell’avventura, solo a loro dunque può acccadere qualcosa di serio e significativo; chi non appartiene a questo rango può comparire solo come comparsa, e anzi per lo più in ruoli comici, grotteschi o spregevoli.88
Quasi sette secoli dopo, con tutte le varianti fra i realismi di genesi cristiana e quelli moderni, il fatto nuovo in Le Rouge et le Noir è che Stendhalpromuova al tragico il figlio d’un carpentiere; indissolubile dall’altro fatto nuovo, l’inserzione della vicenda nell’attualità storica:
che venga situata con tanta coerenza e sin dai suoi fondamenti nella più concreta storia del tempo, e venga sviluppata a partire da essa, l’esistenza concepita tragicamente d’un uomo di basso rango sociale, come qui quella di Julien Sorel, è un fenomeno del tutto nuovo e in sommo grado significativo.89
Né contadino né operaio, però, il figlio d’un carpentiere non è un proletario:
Nei primi grandi realisti del secolo, in Stendhal, Balzac e ancora in Flaubert non appaiono quasi gli strati più bassi del popolo, anzi il popolo stesso… […]. Ma l’irruzione della mescolanza realistica degli stili compiuta da Stendhal e Balzac, non poteva fermarsi di fronte al quarto stato…90
Infatti, a continuazione immediata della frase citata sopra sul secondo dei brani da Germinal di Zola, può stupirci che Auerbach ponga una domanda ancora in termini di separazione degli stili; ci aspetteremmo la constatazione che quest’ultima nel 1885 è radicalmente abolita. Ma la risposta che lui si dà pretende addirittura di più; cioè che frasi di terribile ovvietà, laconica crudezza e stringatezza popolare,in discorso diretto, sono ormai divenute esse stesse stile alto. Con la sua sensibilità istintiva alla lunga diacronia,risale al neoclassicismo di due secoli prima e va a prendersi il termine di paragone più eloquentemente lontano:
Quale livello stilistico è da attribuire a un simile testo? è, senza alcun dubbio, grande stile tragico a base storica… […]. Frasi come quelle di Maheu… […] sono diventate grande stile; un lungo cammino dal tempo di Boileau, che poteva rappresentarsi il popolo solo grottescamente digrignante nella più bassa farsa.91
Lungo quasi due millenni, quest’ultima rassegna ha isolato quello che possiamo chiamare, includendovi testi di tensione meno alta: [12] realismo da serietà come minimo,tragicità come massimo, nel presentare personaggi socialmente bassi.
La scala fra l’alto e il basso, quale era contemplata nella prassi ancor più che nella normativa classica, non attraversa solo differenze di rango sociale. Attraversa anche gerarchie che scendono dall’anima al corpo, dallo spirituale al materiale, dal morale al fisico. Al limite, dall’astratto al concreto; e perciò interessa distinguerle dalle precedenti, sebbene un giusto parallelismo storico potrebbe farci aggiungere: dal signorile al servile − molte funzioni relative al corpo e alla materia venendo delegate, in varia misura ma in ogni epoca, a persone di rango inferiore. Perciò trovo in Mimesis due soli esempi specifici, entrambi non interamente riducibili al sociale. Il primo in positivo, nel decimo capitolo; un capitolo che risente della fascinazionedi Huizinga, Autunno del Medio Evo (e come non rimpiangere che Auerbach abbia preferito testi francesi relativamente secondari al capolavoro spagnolo di fine Quattrocento, La Celestina? sarebbe parso, io credo, fatto apposta per lui). Sta per riferirsi a una cultura alto-borghese della Francia settentrionale e della Borgogna, quando scrive:
…la rappresentazione della vita contemporanea reale ora si volge con particolare amore e grande arte verso l’intimità domestica e quotidiana della vita familiare. […] [e questo anche nei casi] in cui si tratta di ambienti nobili feudali, o persino principeschi.92
Il secondo esempio invece non solo è in negativo, ma direi che rappresenta quanto di più negativo possibile, rispetto a tutta la costellazione dei realismi che si danno il cambio in Mimesis − dove è davvero per legge di contrasto che gli spettava un posto. Sempre in attesa che Racine abbia il suo turno per comparire in positivo, entro i vasti confini della costellazione, sta di fatto che le sue tragedie non tralasciano solo ogni precisazione di fondamenti politici. Osservano in più una proscrizione del quotidiano così austera da tacere o trasfigurare le più elementari coordinate corporali, orarie, stagionali, metereologiche, visive:
… indicazioni sul corso quotidiano della vita, sul dormire, mangiare e bere, sul tempo che fa, il paesaggio e l’ora del giorno mancano quasi completamente, e dove compaiono sono fuse nello stile sublime.93
Così che, secondo quella precedente accezione di realismo come secondo quest’altra, è più che giustificata nelle pagine su Racine la misurazione di distanze conclusiva:
La tragedia classica dei francesi rappresenta il grado estremo di separazione degli stili, di allontanamento del tragico dal reale quotidiano, che la letteratura europea abbia prodotto. 94
La nuova definizione che occorre, sovrapponendosi in parte a più di un’altra, negherà implicitamente questa classicistica negazione: [13] realismo da cura e compiacimento nel presentare aspetti corporalmente bassi.
Il corpo, soggetto alla morte, da ciò stesso è nobilitato all’interno d’una tradizione che dà credito all’al di là; ma solo a patto di non insistere sugli aspetti fisici di questa soggezione, quando sia vigente in letteratura una separazione fra livelli di materie e di stili. Ecco perchéla corporalità di per sé dà luogo in Mimesis a un’accezione sensibilmente diversa dalla precedente, se ciò che di basso emerge in primo piano non è vita quotidiana ma è precisamente la fisicità della morte. Sempre a proposito del Quattrocento francese, Auerbach ascrive al realismo tardo-medievale una diffusione di questa tematica e un modo di sentirla nuovi, tali da averlo indotto a introdurre solo nel decimo capitolo l’aggettivo tedesco kreatürlich95 − traducibile alla lettera in italiano con creaturale. La differenza dall’accezione precedente non si riduce all’opposizione fra quotidianità vitale e caducità melanconica o macabra; sta nell’accento che qui batte soprattutto sull’universalità, sul fatto che gli aspetti in questione della condizione umana sono parte ineluttabile di essa. Sebbene l’epoca nutrisse grande rispetto per i ranghi sociali e per gli ornamenti che li rivestono, tuttavia:
…sotto questa veste non si nasconde altro se non la carne, che età e malattia sfigureranno, morte e putrefazione distruggeranno.96
Momento universale per eccellenza secondo Auerbach, al punto da esser vincente se entra in conflitto con l’individualità degli esseri umani, e addirittura con la psicologia. In una delle Cent nouvelles nouvelles,la caratterizzazione pur vivace dei personaggi «è puramente “creaturale”, cioè […] priva di qualsiasi individuazione»;97nel narratore che occupa metà del capitolo, Antoine de la Salle, o in Froissart cronista del secolo precedente, la psicologia pur penetrante «è ben più creaturale che individuale».98Col suo persistere nel Cinquecento, questo realismo creaturale
fornì al Rinascimento un vigoroso contrappeso contro le forze inclini alla separazione degli stili, quali si svilupparono dall’imitazione umanistica dell’antichità.99
Così, in Rabelais, la rivalutazione anticristiana della natura e della vitafa che la continuità della tendenza sia riconoscibile dietro, e malgrado, un netto rovesciamento del senso che la tendenza prende: essa
non insiste più, come il corrispondente realismo del medio evo al suo termine, sulla fragilità e precarietà del corpo e di tutto ciò che è terrestre; il realismo creaturale ha assunto in Rabelais un senso del tutto nuovo, nettamente opposto a quello medievale… […]. In quanto parte della natura l’uomo si rallegra di vivere e respirare, delle funzioni del suo corpo e delle forze del suo spirito, e come le altre creazioni della natura soccombe alla disgregazione naturale.100
I due sensi opposti, quello caduco-religioso e quello vitalistico-naturale, possono nondimeno, all’altezza di astrazione delle nostre definizioni, confluire in una definizione sola: [14] realismoda soggezione del corpo all’universalitànaturale della decadenza.
Ho detto sopra che, in Lingua letteraria e pubblico…, raramente Auerbach parla di realismo. Tanto più è significativo che la parola serva una volta a confrontare due scene dei dialoghi di Gregorio Magno: l’una scena, rispetto all’altra, è «realistica in altro modo». Va ricordato che i Dialogi de vita et miraculis patrum italicorum (fine secolo VI), fra i testi che inscenano un soprannaturale cristiano,offrono il repertorio più copioso e acritico d’una ingenua fede nei prodigi. Una monaca mordeuna lattuga senza essersi fatta il segno della croce, e ne esce un diavolo; ma per avvertire qualcosa di realistico basta ad Auerbach che il diavolo morso si lagni, per bocca della monaca, in tono così popolare da far trasparire il volgare nel latino.101 Tornando a Mimesis: lo stessoAuerbach mette in dubbio cheRabelais, dove «la realtà quotidiana è inserita nel fantastico più inverosimile»,102 fosse un autore da includere nella sua ricerca. Certo, non lo sarebbe stato in un libro sul realismo come lo intende il senso comune. Senonché, «la quotidianità non può essere misconosciuta in lui giacché, integrata nel suo mondo surreale, la fa apparire tutto il tempo»;103 e grazie alla serietà della sua gioia di scoprire, pregna di tutti i possibili, adeguata a ogni esperimento sul reale e sul surreale, «è legittimo chiamare alto stile la sua mescolanza di stili, la sua buffoneria socratica».104 Quanto a Cervantes, fra le varie possibilità che lo hanno stimolato a scegliere il tema del suo romanzo c’è il «miscuglio di fantastico e quotidiano»105 − prescindendo, giustamente, dal fatto che il fantastico ha verità solo nella mente di don Chisciotte. Ma occorre andare a Shakespeare per capire come la sconcertante inclusione dell’irreale nel realismo sia parte coerente di un’ennesima accezione. Secondo cui è realistica ogni ricca e profonda integrazione d’una vicenda in un ambiente, umano o naturale, inclusi esseri ultraterreni:
Il teatro di Shakspeare non comporta isolati colpi del destino, che cadano per lo più dall’alto e le cui conseguenze involgano poche persone, con limitazione dell’ambiente circostante alle poche persone strettamente necessarie per il progresso dell’azione – piuttosto offre implicazioni reciproche all’interno del mondo, che scaturiscono da condizioni date e dal gioco d’insieme dei caratteri variamente formati, e alle quali prendono parte anche l’ambiente, persino il paesaggio, anzi addirittura i fantasmi dei morti ed altri esseri soprannaturali…106
Scopriamo ora in che cosa, per Auerbach, Balzac non si limita come Stendhal a situare gli uomini entro quadri storici e sociali ben determinati. Oggetti e persone prendono in lui un secondo significato, irrazionale e più sostanziale, che l’aggettivo «demònico» qualifica meglio d’ogni altro. La presentazione della sua Madame Vauquer più o meno implicitamente esorbita, in direzioni d’imprevista irrealtà, dalla mediocrità piccolo-borghese della pensione di cui è la padrona:
…streghe allegoriche si celano in mezzo a questa quotidianità triviale, e al posto della vedova paffuta e mal vestita, si vede, per un attimo, emergere un ratto.107
Indissolubile da uno «storicismo atmosferico» della sua generazione (la stessa di Victor Hugo),che fu facoltà di sentire «fortemente e sensualmente l’unità [di stile e d’atmosfera] delle epoche anteriori», quello di Balzac è un «realismo atmosferico»; ecco cosa vuoldire:
ogni ambiente diventa per lui un’atmosfera morale e fisica che imbeve paesaggio, dimora, mobilio, oggetti, vestiario, corpo, carattere, relazioni, opinioni, attvità e destino degli individui…108
Un secolo dopo scrive Virginia Woolf. Nell’ultimo capitolo di Mimesis, l’analisi del suo brano impressiona come particolarmente magistrale, a meno di vent’anni dal romanzo; dimostra che Auerbach era più sensibile agli aspetti di continuità che non agli aspetti di frattura, tra il modernismo d’una scrittrice come lei e ciò che si suole attribuire come realismo ai narratori dell’Ottocento. Anche in lei c’è dunque un realismo, o più d’uno; eppure, in un breve paragrafo verso la metà del brano, è impossibile per lo studioso decidere a chi appartenga la voce che parla, esclusa tanto quella d’autore quanto ogni voce di personaggio: «Colui che parla qui, chiunque sia…». Un trapasso inavvertito dall’ambientale al surreale (qualcosa di meno del soprannaturale, ma che va nello stesso senso), è la soluzione formulata da Auerbach; nel suo fluido sistema concettuale, un tale trapasso non mi sembra poi così lontano da quelli che a grandi distanze aveva segnalato in Shakespeare o in Balzac. Non posso che citare troppo poco:
Never did anybody look so sad non è una constatazione oggettiva; è la riproduzione, che sfiora il surreale, dell’emozione di qualcuno che guarda il viso di Mrs. Ramsay.109
…il paragrafo […] ci aveva condotti in una scena indefinibile, surreale…110
Proviamo a parlare allora, al di sopra d’ogni differenza fra tutti questi ultimi casi, di: [15] realismo da partecipazione dell’ambiente alla vicenda,ambiente sia umano sia naturale sia soprannaturale.
Altri tre casi si lasciano più facilmente raggruppare per omogeneità evidente. Tutti e tre comportano indifferenza e violazione rispetto all’ideale classico dell’ordine da seguire, nell’articolare in parti un oggetto di discorso o di racconto o di descrizione; un ideale confinante al limite con quello della chiarezza. L’ordine non rispettato comporterebbe anche una subordinazione ideologica del fisico al morale, virtualmente del corpo all’anima,in successione discendente o ascendente secondo che l’elemento superiore preceda o segua quello inferiore. Ma, per l’appunto, non è vincolato a nessuna subordinazione del genere il discorso che gli Essais di Montaigne svolgono sulla persona stessa del loro autore. Nel suo caso l’osservazione si riferisce proprio e soltanto all’inseparabilità di anima e corpo; e il sincero disordine ci riavvicina alle nostre accezioni corporali, 13 e 14, di realismo, poiché non fa notizia la quota di attenzione dedicata a ciò che è morale bensì a ciò che è fisico:
Montaigne è convinto che in una tale rappresentazione spirito e corpo non devono essere separati […]. Parla dettagliatamente del suo corpo e della sua esistenza corporale perché essa è una parte essenziale di lui stesso, e gli è riuscito di impregnare il suo libro del sapore fisico della sua persona senza mai provocare fastidio. Le sue funzioni fisiche, le sue malattie e la sua morte corporale […] sono talmente fuse, nella loro realtà concreta e sensoriale, col contenuto morale e spirituale del suo libro, che ogni tentativo di separarle sarebbe insensato.111
Quel che nel dotto pensatore Montaigne è messo in pratica più che teorizzato, in Saint-Simon si avrebbe torto di ricondurlo al quasi dilettantismo del privatissimo memorialista. Non ignoranza delle norme o trascuratezza, bensì indisturbata esuberanza di temperamento, fa sì che per il disordine della sua prosa basti a stento ad Auerbach parlare di un «miscuglio ininterrotto di tratti fisici e morali, interiori ed esteriori»112− sebbene parta sempre da questi due poli. Alla luce della sua analisi microscopica delle citazioni, il miscuglio risulta animato da sovrapposizioni, contraddizioni, mancate motivazioni, false apparenze, scorci, ellissi, andirivieni fra i due poli, che agiscono sul lettore come continue minuscole sorprese. Riporto la frase più sintetica:
Non pensa a ordinare la sua materia in base a un qualsiasi modello di ordine etico o estetico, in base a una concezione preesistente di ciò che sta dalla parte del bello o del brutto, della virtù o del vizio, del corpo o dell’anima. Getta nelle sue frasi tutto ciò che sul suo argomento gli viene in mente, man mano che insorge dentro di lui, nella piena fiducia che ogni volta tutto si comporrà in una forma unitaria e significativa; forse che non ha davanti a sé, nella coscienza, la rappresentazione unitaria della persona che descrive, l’immagine complessiva della scena che rappresenta?113
Quantunque già ben prima del 1830 si leggessero avidamente parti dei Mémoires, la grandezza di Saint-Simon scrittore sarà compresa solo dalla generazione romantica, a cui appartiene Balzac. E nel caso di Balzac, per spiegare un disordine analogo, si avrebbe ugualmente torto di mettere, al posto dell’appartata libertà di parola del memorialista, la fretta fluviale del romanziere d’appendice. Non meno ideologicamente consapevole che il partito preso di Montaigne, molto di più che quello di Saint-Simon, il postulato di Balzac è l’armonia fra persona e ambiente − non siamo lontani dalla precedente accezione 15 di realismo. Sempre nella descrizione di Madame Vauquer che segue quella della sua pensione, un tale postulato viene sottinteso dovunque e dichiarato saltuariamente:
Un ordine meditato nei diversi affioramenti del motivo dell’armonia non sembra preesistere, e altrettanto poco Balzac sembra aver seguito un piano sistematico nel rappresentare l’apparizione di Mme Vauquer; la successione delle cose menzionate […] non tradisce la minima traccia di composizione; non è stabilita neanche alcuna separazione tra indumenti e corpo, e alcun confine fra tratti fisici e significati morali.114
Nessuna incertezza nell’aggiungere alla serie un: [16] realismo da mescolanza o alternanza indissolubile degli aspetti morali e fisici di persone e cose.
Chiusa la serie che contrapponeva il basso all’alto, in tutti i sensi, e in particolare la corporalità alla dimensione morale, un’altra sola serie resta da aprire; quale? Si sono succeduti, combinati e suddivisi, in tante accezioni di realismo quante mi è parso che valesse la pena di contarne, la totalità e la sensorialità di visione coi loro rispettivi contrari, la storicità, il basso e l’alto, la corporalità, l’ambiente… è giustificata l’impressione, certo implicita nella vulgata di Mimesis, che il grande assente sia l’individuo, a fronte d’un concentrarsi dell’attenzione sulla socialità? che lo siano correlativamente l’interiorità e la psicologia, a fronte d’un concentrarsi dell’attenzione sul mondo sensibile? Sì e no, rispondo. No, perché precisamente l’individuo, l’interiorità e la psicologia saranno in gioco nelle poche accezioni che restano. Sì, perché la volontà di rivendicare la pluralità dei realismi non può indurmi a ignorare un dato di fatto, e a smentire così lo sperimentalismo del mio procedimento − scomposizione paradigmatica, o in parole povere schedatura fedele. Le accezioni che restano, Auerbach non le mette mai a fuoco là dove può dare per scontato il loro dispiegarsi pressoché onnipresente, com’è soprattutto nel romanzo dal Sei-Settecento in poi; non lo fa quasi nemmeno per i grandi romanzi su cui si sofferma. Negli Epilegomena,all’atto di professare il suo scetticismo operativo che fa dipendere dal contesto il significato dei termini di portata generale, fa l’esempio d’un lettore il quale gli obietti «che trova Phèdre più realistica di Madame Bovary».115 Paradosso che cesserebbe di esser tale, o lo resterebbe solo in piccola parte, non appena avessimo convenuto che parliamo di realismo riferendoci principalmente alla realtà dei pensieri, sentimenti, ricordi, discorsi e rapporti personali umani. Ma una sintesi volta a questo realismo (o a questi), dove Racine stesse accanto a Madame de La Fayette, Prévost accanto a Defoe, Stendhal fra Jane Austen e Thackeray, dove emergessero il Goethe di Werther e il Constant di Adolphe, fino agli aspetti pertinenti di Proust, Mann, Musil, Joyce, perché no Kafka, sarebbe stato un altro libro rispetto a Mimesis − non meno voluminoso, di certo, e non meno diffuso su antichità, medioevo e rinascimento. Auerbach sa che è questione d’intendersi sulle parole, e nel libro che di fatto scrive rende spesso omaggio al grande realismo psicologico quando lo incrocia sul suo cammino; ma, nelle accezioni che restano, gli basta additarlo dove è meno scontato o più eccezionale, astenendosi spesso dal chiamarlo realismo. Il tragitto ancora da percorrere, per noi, è tanto più corto quanto più avrebbe potuto essere infinitamente lungo.
Ricominciamo dalla contrapposizione del primo capitolo; e da quel poco che in esso, nel fissare un’accezione fondamentale come la 7, abbiamo già intravisto di storia.Non solo la storia collettiva ma anche quella individuale, ovviamente, si sviluppa sull’asse del tempo. Omero al riguardo è esemplare in negativo; nel «pieno presente spaziale e temporale»116 in cui pareproiettato il suo racconto, la storia individuale si azzera anche di più della collettiva:
Gli eroi omerici ci sono mostrati così poco nel loro divenire ed esser divenuti, che per lo più essi − Nestore, Agamemnone, Achille − appaiono sin dall’inizio in un’età fissa. Perfino Ulisse, che durante un lungo spazio di tempo e i molti eventi che hanno luogo in esso avrebbe tante occasioni di sviluppo storico personale, non ne offre quasi traccia.117
Nei personaggi dell’Antico Testamento invece, secondo la loro fallibilità e secondo la volontà divina, si avvicendano abbassamenti ed elevazioni estreme, trascorre su una ben più storica ampiezza il moto pendolare del destino:
Si ha la sensazione sicura che l’ampiezza di questa oscillazione del pendolo dipende dall’intensità della storia personale…118
Ebbene, per ritrovare questa metafora del pendolo, e con essa un’opposizione fra mobilità e staticità relativa alla storia personale, come altrove alla storia politica, dobbiamo andare alle ultime pagine del penultimo capitolo. Attraversare cioè quasi tremila anni; incluso quasi tutto l’Ottocento, poiché dei russi (in mancanza di presa diretta sulla lingua) Auerbach dice di non poter considerare che il tardivo influsso in occidente. Fa in realtà molto di più, entro quattro o cinque facciate illuminanti. Lascio decidere agli slavisti se ha ragione di ricondurre a radici cristiane due fra i tratti più caratterizzanti del romanzo russo: primo, una «antica concezione cristiano-patriarcale della dignità creaturale di ogni essere umano […], quale che sia il suo rango sociale e la sua situazione», da cui consegue che anche i ricchi commercianti altoborghesi non hanno niente in comune con la borghesia occidentale evoluta e attiva.119 Secondo tratto, i bruschissimi passaggi senza transizione dei personaggi, specialmente in Dostoïevski, da un’uniformità e placidità di vita quasi vegetativa ai più mostruosi eccessi nell’azione e nel pensiero. Ma della verità di quest’ultima osservazione, può giudicare chiunque abbia letto anche in traduzione:
L’oscillazione pendolare del loro essere, delle loro azioni, pensieri, sentimenti sembra molto più ampia che nel resto dell’Europa; anche questo ricorda il realismo cristiano quale abbiamo cercato di caratterizzarlo nei primi capitoli di questo libro.120
Fra l’Antico Testamento eDostoïevski, in Europa, la letteratura è tanta… Per provare a tener conto lontanamente e sommariamente di tutto ciò che Auerbach non cita, non posso che generalizzare più del solito nel definire quest’accezione: [17] realismo da temporalità individuale presentata nella sua evoluzione o nelle sue contraddizioni.
Come è più realistico sviluppare piuttosto che fissare la personalità umana, dandone a vedere le contraddizioni nel tempo, così è più realistico far penetrare il lettore nell’intimo di essa piuttosto che farlo assistere alle sue sole manifestazioni, mettendo in luce i conflitti interni ad essa nella loro simultaneità. Anche da questa angolazione sincronica anziché diacronica, lo spessore ambiguo e mutevole dei personaggi biblici è opponibile alle passioni, violente ma semplici e subito prorompenti, dei personaggi di Omero:
Quanta ricchezza di sfondi hanno invece caratteri come quelli di Saul o di David, quanto sono intricati e stratificati rapporti umani come quelli fra David e Absalon, fra David e Joab!121
Nelle Confessioni di Agostino, Alipio si lascia trascinare al circo dagli amici, e per un po’ tiene fede alla sua sfida di sedere indifferente a occhi chiusi. Ma appena un gran clamore della folla gli fa aprire gli occhi, finisce presto con l’inebriarsi di crudeltà più di tutti gli altri alla vista del sangue.Il passo si allontana da passi citati prima di autori anteriori e contemporanei, pagani e cristiani, sia perché dischiude una vita interiore sia per l’energia del conflitto che divampa dentro:
Ciò che lo distingue al primo sguardo da quei testi, è il calore del conflitto drammatico e umano; Alipio vive e lotta; accanto a lui non solo i personaggi di Ammiano, ma anche il Pammachio del testo di Gerolamo sono rigidi schemi la cui interiorità non si apre.122
Di tutte le interiorità in preda a conflitti dei quindici secoli successivi di letteratura, Auerbach si ferma specificamente su un’altro unico caso. Che è d’altra parte l’unico in cui realismo voglia dire senso sperimentale della realtà, esercitato su un oggetto di rappresentazione il più prossimo possibile e insieme il più sfuggente: se stesso. Parlo naturalmente degli Essais di Montaigne:
Fa sul serio e parla con forza, quando dice che la sua rappresentazione, per mutevole e molteplice che sia, non si smarrisce mai, ed è vero sì che talvolta contraddice se stesso ma mai la verità. In simili parole si esprime una concezione dell’uomo assai realistica, nata dall’esperienza e in particolare dall’esperienza di sé […]; per cui il modo di lavorare di Montaigne, apparentemente così capriccioso e non obbediente a nessun piano, che segue elasticamente i mutamenti del suo essere, è in fondo un rigoroso metodo sperimentale, l’unico adeguato a un simile oggetto.123
Così si chiude, sulla fine del Cinquecento, una rassegna che da lì stesso avrebbe anche potuto cominciare (certo i moralisti del Seicento vi sarebbero comparsi in negativo per l’impersonalità, le Confessions di Rousseau per la soggettività; si può supporre che Proust avrebbe avuto le carte in regola?). Ma nel libro non c’è altro, per un’accezione a cui è facile dar nome: [18]realismo da rappresentazione dell’interiorità, o dell’introspezione, individuale.
In assenza di spunti per opporre un fuori a un dentro, un prima a un dopo − o meglio: un prima e un dopo a un sempre, la penetrazione dell’animo umano di per sé è oggetto in tutto il libro di un solo riconoscimento veramente significativo. Ne premetto altri due che sono brevi concessioni dettate da obiettività entro contesti limitativi, solo perché in entrambi i casi Auerbach non ha creduto di contraddirsi parlando di realismo. Si ha, presso i grandi autori della storiografia romana,
una conoscenza realistica del cuore umano, fondata sull’esperienza, sobria e tuttavia mai meschina; talvolta si trovano perfino accenni a una spiegazione dei caratteri cercata nella storia personale, come nel ritratto che Sallustio fa di Catilina, e soprattutto in quello di Tiberio secondo Tacito. Ma là è il confine. Moralismo e retorica sono incompatibili con la concezione della realtà quale sviluppo di forze…124
Si fa una concessione analoga ma più asciutta a Molière, che non per la prima volta vediamo malinteso più forse che misconosciuto. Il suo realismo è circoscritto, a che cosa? a ciò che costituisce la grandezza della sua arte:
Il suo realismo, nella misura in cui presenta un lato serio e problematico, si limita al campo psicologico e morale.125
Intrometto un altro riconoscimento vero che trovo in Lingua letteraria e pubblico…, e che della parola realismo fa a meno. Durante la rinascita medievale d’uno stile sublime, le leggende celtiche fornirono un mondo immaginario in cui «ciò che nei rapporti umani è concreto, caratteristico, spirituale ed emana calor di cuore poteva esprimersi incondizionatamente»;126 e novità decisiva fu l’assunzione a livello alto della passione d’amore. La scena più commovente è additata nella Folie Tristan, quando il pazzo finto e travestito va ricordando a Isotta vicende passate dei loro amori che nessuna terza persona può sapere:
Una tale ricchezza di sentimenti, senza ritegno, manifestata sino a volerla esaurire, non solo è inimmaginabile nel medio evo precortese, ma per un tale argomento non la si incontra nemmeno nell’antichità.127
Ed ecco (in Mimesis, non nell’altro libro ideale!) il turno preannunciato di Racine. Per lui, Auerbach non può spendere la parola realismo senza timore di contraddirsi: le frasi sopra citate su di lui documentavano certe accezioni di realismo, per due volte, a perfezione ma esclusivamente in negativo. La sua tragedia era indicata come grado estremo di separazione degli stili nella letteratura europea,moderna e anche antica; a quell’altezza, doveva apparirci quanto di più negativo rispetto a tutta la costellazione dei realismi considerati. Quale migliore occasione, ora, per provare che l’interesse rivolto dallo studioso ai codici può travalicare o dilatare l’ambito dell’interesse rivolto ai realismi? Certo, i principi e principesse di Racine, innalzati da una coscienza del loro rango che non viene meno un istante, dice Auerbach, vengono a occupare l’esatto opposto dell’universalità creaturale umana:
sarebbe del tutto sbagliato se si volesse contestare ad essi naturalezza umana, immediatezza e semplicità, come talvolta hanno fatto i romantici; almeno per Racine un tale giudizio tradisce incomprensione completa, i suoi personaggi sono in modo perfetto ed esemplare naturali ed umani… […]. Succede anzi talvolta che dalla loro stessa posizione esaltata viene ricavato un effetto seducente e profondamente umano; di esempi se ne potrebbero citare molti da Phèdre…128
Meno prevedibile mi pare l’idea che proprio tutto ciò di cui questo teatro si priva, tutto ciò che non c’è,crea le premesse per l’efficacia di ciò che c’è − con lo straordinario paragone fra l’artificialità di esso e la creazione artificiale di condizioni favorevoli, in un moderno esperimento scientifico. Fuor di metafora, qui un antirealismo viene dato come diretta condizione di un realismo. è la massima relativizzazione possibile, dove meno ce l’aspetteremmo, d’un codice letterario o meglio del suo rapporto coi referenti di realtà:
Il potente effetto delle passioni nelle opere di Racine, e anche già di Corneille, si fonda in buona parte sull’isolamento atmosferico, appena descritto, dell’evento; è paragonabile all’isolamento produttore di condizioni le più favorevoli che è d’uso negli esperimenti scientifici moderni; si osserva l’evento svolgersi perfettamente indisturbato e ininterrotto.129
Così chiudo la rassegna, stavolta sulla fine del Seicento; trovare un nome per quest’accezione, con la quale abbiamo sicuramente toccato un limite, è ancora più facile. Non dipende da me se il nome suona un po’ generico: [19]realismo da penetrante conoscenza dell’animo umano.
Facendo più sopra la fantasticheria d’un altro libro ideale sul realismo, insieme a Proust, Mann, Musil, Joyce, Kafka non ho nominato Virginia Woolf: come sappiamo è su di lei l’ultimo capitolo di Mimesis − a provare, se ce ne fosse bisogno, quanto poco la fantasticheria aveva di arbitrario. Più sopra ancora dicevo che Auerbach si dimostra, nel capitolo, più sensibile alla continuità che alla frattura tra il realismo ottocentesco e le «caratteristiche del romanzo realistico nell’epoca fra le due grandi guerre»,130 altrimenti dette modernismo o sperimentalismo narrativo. Il trapasso inavvertito di cui lì parlavo, dall’ambientale al surreale, va vicino alle due ultimissime accezioni che ci restano, strettamente legate. Auerbach motiva da grande storico perché sia proprio in una Europa uscita dalla prima guerra mondiale che compare, presso la Woolf e altri scrittori, «un procedimento che dissolve la realtà in un gioco, dai molti aspetti e dai molti significati, di rispecchiamenti fra coscienze».131 Siamo di nuovo, e in un senso nuovo, ai limiti estremi del realismo. Ma non siamo al di là di essi: lungi dal dissolversi nel nulla, è come se la realtà diffrangendosi si moltiplicasse. L’audacia letteraria risiede non nella pluralità dei soggetti ma nei modi del loro alternarsi, un alternarsi così frequente, imprevedibile e inavvertito che il discorsounisce i soggetti, direi, più di quanto i soggetti non dividano il discorso. Fra i grandi esercizi di lettura, in Mimesis, è questo l’unico alle prese con un testo di non immediata chiarezza:
quasi tutto ciò che è detto appare come riflesso nella coscienza dei personaggi del romanzo.132
non si tratta soltanto di un soggetto della cui coscienza vengano riprodotte le impressioni, piuttosto di molti soggetti che frequentemente cambiano…133
Se è corretto non confonderla con la seguente, chiamiamo quest’accezione: [20] realismo da multiplo rispecchiamento di coscienze.
Quando scrivevano la Woolf e Auerbach, al lettore tradizionalista simili procedimenti dovevano apparire tipici d’una sofisticata maturità, se non decadenza, delle anziane letterature occidentali. L’ultimo e non minimo colpo di scena intellettuale che ci riservano le due pagine finali del capitolo, è il ricollegarli invece a qualcosa di contrario: a un’idea di universalismo planetario che era già stata messa avanti due capitoli prima − e che sembra esser servita più d’ogni altra, all’uomo Auerbach, per capire e fors’anche per sostenere la terribile realtà contemporanea. L’idea che fosse in corso in Europa, almeno dai tempi della rivoluzione francese,
un processo che da allora ha fatto formidabili progressi e permette di profetizzare una uniformizzazione della vita degli uomini sull’intera terra, anzi in un certo senso l’ha già realizzata.134
Da un simile processo prenderà le mosse l’articolo del 1952, Filologia della letteratura mondiale;135 la precocità dell’idea è semplicemente impressionante, oggi che ha assunto aspetti tragici la parola “globalizzazione”. Ma che mai c’entra questo, chiederà a buon diritto chi non abbia letto ancora, con To the Lighthouse? Seguiamo il ragionamento di Auerbach. Per tentare di «penetrare una realtà più autentica, più profonda e persino più reale», la scrittice parte metodicamente da circostanze casuali e poco importanti,136 da «eventi piccoli, poco appariscenti, arbitrariamente scelti».137 C’è sì una «realtà esteriore, oggettiva del presente, volta per volta, che è riferita dall’autore immediatamente e appare come dato di fatto sicuro»; ma non è che un’occasione.138 Ridotta a questo livello minimale, la realtà dell’attimo, mentre da un lato si rapporta più che mai all’individualità di chi la vive, dall’altro la discioglie nell’impersonale e la oltrepassa nell’universale:
così si rese visibile qualcosa d’interamente nuovo ed elementare; proprio la pienezza di realtà e profondità vitale di ogni attimo a cui ci si abbandona senza intenzione. Ciò che accade in tale attimo, si tratti di eventi esteriori o interiori, riguarda sì personalmente gli individui che in esso vivono, eppure riguarda anche. proprio per questo, ciò che è assolutamente elementare e comune in tutti gli uomini…139
Ecco per quale via è raggiunta la dimensione dell’universalità. Può apparire, qui, come un pendant moderno, laico e assottigliato al minimo dellagreve creaturalità tardo-medievale− tanto più che, sia fatto apposta o no, all’una e all’altra simmetricamente approdano le due metà del libro, i capitoli decimo e ventesimo (o diciannovesimo nella prima edizione, senza ancora quello su Cervantes). Nella conclusione del ragionamento s’impone l’insospettato aggancio storico, secolare e mondiale:
Più lo si mette in rilievo [l’istante qualsiasi], più chiaramente viene in luce la componente elementare e comune della nostra vita […]. Da una rappresentazione approfondita e senza intenzioni di questo tipo risulterà messo in rilievo fino a che punto, al di qua dei conflitti, già oggi le differenze fra i modi di vivere e di pensare degli uomini si sono ridotte.140
L’ultima di tante accezioni di realismo, come si vede la più attuale e la più carica di futuro nel pensiero del sopravvissuto Erich Auerbach, sarà dunque: [21] realismo da universalità dell’istantaneo,del casuale,del contingente.
Sono consapevole della quota di arbitrio che ho esercitato nel distinguere le accezioni, e di quanto sia provocatoriamente lunga la mia serie. Non solo è indubbio che un altro al mio posto le avrebbe ritagliate, entro certi limiti, in altro modo; ma sarebbe facile abbreviare la serie, raggruppando meno analiticamente per esempio le accezioni relative alla storicità, o alla corporalità, ecc. A me premeva confutare ogni recezione teleologica o parziale del libro, e perciò mostrare il più minuziosamente possibile come in esso abbia diritto di cittadinanza ognisorta di letteratura − entro lo sterminato ambito che il sottotitolo apriva, non meno a scritture storiografiche, memorialistiche, moralistiche che al poema, al teatro, al romanzo. Un atteggiamento così ecumenico, se in qualche misura ha falsato la recezione del libro, forse ne ha anche reso meno penetrante il successo. è vero che nell’originale e nelle traduzioni Mimesis ha resistito in libreria, decennio più decennio meno, una cinquantina d’anni: sorte rarissima per gli studi letterari. Ma si è mai potuto parlare d’un influsso tangibile e localizzabile di Auerbach, per non dire d’una sua scuola? Una buona controprova si ottiene dal confronto con Bachtin, uno studioso quasi coetaneo, l’unico accostabile ad Auerbach per più d’un aspetto. Per l’ambiziosa interpenetrazione fra uno o due punti di vista centralizzanti, e l’insieme dei millenni di tradizione occidentale; perché anche lui stabilisce contrapposizioni fondamentali tra codici o sistemi più gerarchici, e alternative più libere e parificatrici; perché anche lui attribuisce a grandi fenomeni extraletterari precise conseguenze letterarie, formali e non soltanto tematiche. Ma proprio perché i due sono accostabili, non mi pare che fuori da un eclettismo facile si possa seriamente ammirarlientrambi, o almeno entrambi altrettanto − da che parte vanno le mie preferenze s’indovina. Qui è rilevante solo che Bachtin maneggia i suoi due principali concetti (il carnevalesco, il dialogismo o polifonia) un po’ come si usa brandire le idee nel manifesto di un’avanguardia: con faziosità tanto più efficace quanto più s’incanala in drastici giudizi di valore, che esaltano alcuni autori, filoni, orientamenti e condannano quelli reificati come opposti. è coerente che l’applicazione di quei concetti, stendendosi su secoli e millenni, non si curi troppo di sottoporre a variazioni storiche la loro sostanziale fissità. Siamo lontani dall’obiettività filologica di Auerbach, dal suo senso delle sfumature e dei mutamenti; mentre, ai concetti di Bachtin, proprio la loro semplicità e memorabilità sommaria è valsa quell’inflazione di citazioni quasi rituali a cui da un trentennio assistiamo.
Di contro, se ad Auerbach si può ascrivere qualche parzialità, non giurerei nemmeno che preferisca, almeno sul piano del gusto, la mescolanza alla separazione degli stili. L’unica vera questione è quella con cui, avviata la serie delle accezioni di realismo, mi sono presto scontrato; e più volte sono tornato a sfiorarla in seguito. Cos’è, mi chiedevo, che di fronte a certi autori, a grandi distanze non solo temporali, rischia di rendere lo studioso meno integralmente e genuinamente obiettivo? Elenco questi autori sulla sola base d’una vaga analogia di trattamento in Mimesis: Petronio, Chrétien de Troyes, Boccaccio, Rabelais, Cervantes, Molière, Voltaire. Si nota a prima vista, con la sola riserva del caso di Chrétien, che in tutti abbondano componenti scherzose o comiche o ironiche. D’altra parte, mai come qui pesa la difficoltà di scrivere su Mimesis abbracciando la totalità del libro: in teoria, bisognerebbe possedere conoscenze pari o paragonabili a quelle di Auerbach su ognuno degli autori trattati. Perciò mi limito a dire qualcosa sui due ultimi, Molière e Voltaire, i soli che io abbia studiati − pur non senza la speranza che in qualche modo si possa estendere ciò che dico a più d’uno degli altri. Secondo me, qui fa difetto allo studioso un concetto preciso. Talmente presente nell’esperienza umana che lo si può attingere anche a fonti non libresche, ma è meglio ricavarlo dal primo che lo ha teorizzato per iscritto, da Freud: il concetto di “formazione di compromesso”.Una manifestazione di linguaggio unitaria per due significati in contrasto, dietro i quali ci siano istanze intellettuali o affettive in contrasto.141 Ad Auerbach, che di Freud non ha parlato quasi mai, sembra sfuggire quanto la comicità di Molière sia ambigua, quanta segreta simpatia nasconda per i personaggi più colpevolmente ridicoli; quanto spazio conceda la critica razionalistica di Voltaire all’irrazionale, al superato, nell’atto stesso di criticarlo e superarlo. Sul passo più sconcertante riguardo a Voltaire ha fatto il punto in modo assai convincente, in un recente saggio, Carlo Ginzburg,142 e non sto a ripeterne le argomentazioni. Del resto, appartiene pure al Settecento francese Prévost, l’unico verso cui io abbia giudicato incomprensivo lo studioso; predilige al contrario uno scrittore come Saint-Simon, assolutamente controcorrente fra Sei e Settecento, e su questa base lo avvicina al solitario Vico − per lui tanto importante. Tutte conferme che quel grande secolo analitico, eprovvisoriamente antistorico,avesse qualcosa di respingenteper il profondo senso dell’unità di Auerbach, per il suo monoteismo laico.
Perché oggi un’attualità del libro, più che perdurante, rinnovata? L’idea che la letteraturaparli del mondo non era stata messa in dubbio per quasi ventitrè secoli:dal V-IV a. C., da quando Platone e Aristotele parlarono di mimesi, a fine Settecento e all’Ottocento, quando i romantici tedeschi, poi Poe seguito da Baudelaire e altri grandi francesi, cominciarono a parlare di autonomia del Bello. Questa conquista intellettuale si compiva nello stesso secolo il cui storicismo, radicando l’arte nel tempo come mai s’era fatto prima, prestava al concetto di mimesi più spessore virtuale. Due conquiste quasi contemporanee e nient’affatto inconciliabili, che tuttavia durante l’Otto e il Novecento restarono inconciliate per gl’impedimenti più eterogenei: dalla divisione del lavoro intellettuale a vere o presunte implicazioni politiche. Sul versante dell’interesse per la mimesi, uno della mia età ha assistito prima alla lunga attualità d’un dibattito sul realismo, vincolato a una diffidenza per le indagini formali che in Italia non risparmiò neanche Mimesis. Poi ha assistito, col trionfo del formalismo strutturalista e di orientamenti che si trascinano ancora, al crearsi d’un vero e proprio tabùsulla parola realismo, malfamato indizio di scarso aggiornamento e falsi problemi. Oggi, in apparenza, a una letteratura che parli del mondo non dovrebbe credere più nessuno.Da un lato ci sono gli epigoni dell’autonomia del Bello, per i quali la letteratura parla, ma non del mondo − di che mai parli chiedetelo a loro.Dall’altro lato ci sono i cultural studies, per i quali la letteratura si situa sì nel mondo, ma non è lei che ne parla, dato che non è riconosciuto al suo linguaggio niente di specifico per parlarne. La prima tendenza soprattutto, ma presto o tardi anche la seconda, infieriscono da troppo tempo per non sperare in un prossimo ribaltamento, o comunque rinnovamento: tanto più nella prospettiva planetaria che fu del tardo Auerbach, e che potrebbe rendere letterariamente secondari Europa e Stati Uniti di fronte ai continenti postcoloniali. Che possiamo fare frattanto, se non recuperare allo studio i negletti referenti? Il lettore pervenuto fin qui sa che sollevavo un falso problema, chiedendomi se Mimesis fosse uno studio più sui referentio più sui codici: in verità negli studi letterari è illusorio, o al più provvisorio, qualsiasi isolamento reciproco fra codici e referenti. Guai a concepire questi ultimi, o come quando la grandezza dei modelli ottocenteschi alimentò l’illusionedelrealismo, uno solo, oppure col semplicismo dei cultural studies che mortificano la letteratura a documento fra tanti. Dobbiamo recuperare i referenti proprio in quanto filtrati da codici, da convenzioni letterarie sempre diverse. La lezione di Mimesis èla più rispettosa di fatto, non a parole, dell’alterità storica umana, per la duttilità con cui riconosce caso per caso le parti rispettive, il dosaggio, di mimesie di convenzione.
Francesco Orlando
1 E. Auerbach, Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Francke, Bern 1958 (e cfr. la nota seguente).
2 E. Auerbach, Mimesis.Dargestellte Wirklichkeitin der abendländischen Literatur, Francke, Bern 1959, IV, pp. 84-85. Da questa citazione in poi tutte le traduzioni sono mie, con la regolare ed efficace collaborazione del dott. Alessandro Viti che qui ringrazio. Ho naturalmente tenuto presenti:
per Mimesis, la trad. italiana di A. Romagnoli e H. Hinterhäuser (Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956), e quella francese di C. Heim (Mimésis. La représentation de la réalité dans la littérature occidentale, Gallimard, Paris 1968);
per Literatursprache und Publikum…, la trad. italiana di F. Codino (Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, Feltrinelli, Milano 1960), e quella francese di R. Kahn (Le haut langage. Langage littéraire et public dans l’Antiquité latine tardive et au Moyen Âge,Belin, [Paris] 2004);
per Epilegomena zu “Mimesis”,la trad. italiana di G. Alberti, A. M. Carpi, V. Ruberl (La corte e la città. Saggi sulla storia della cultura francese, Carocci, Roma 2007), e quella francese di R. Kahn (Epilegomena pour “Mimesis”, “Po&sie” n° 97, 3etrim. 2001, pp. 121-22 [il testo occupa le pp. 113-22)].
3Ibid., IV, pp.93-94.
4Ibid., III, p.62.
5 Ibid., IV, p.90.
6 Ibid., III, p.62.
7Ibid., IV, p.92.
8 Ibid., II, p.41.
9 Ibid., II, p.49.
10Ibid., I, p.17.
11Ibid., X, p.247.
12bIbid., XIII, p. 305.
13Ibid., XVIII, p. 441.
14 Ibid., XVII, p. 413.
15Ibid., I, pp.25, 26.
16Ibid., I, pp. 13-14.
17Ibid., II, p.49.
18Ibid., III, p. 73.
19Ibid., VI, p. 127.
20 Ibid., XVI, p. 384.
21Ibid., XIV, pp. 338-39.
22Auerbach, Literatursprache… cit., p. 81.
23 Ibid., p. 83, e cf pp. 88-91.
24 Ibid., pp. 87-88.
25 Ibid., pp. 91-98.
26 Ibid., pp. 99-104.
27Auerbach, Mimesis cit., p. 72.
28Ibid., V, pp.111-12.
29Ibid., IV, p.89.
30Ibid., VIII, p.176.
31Ibid., VIII, p.175.
32 Ibid., IX, p. 210.
33 Ibid., IX, p. 211.
34Ibid., XVIII, pp. 451-52.
35Ibid., XX, p.509.
36Ibid., Nachwort [Conclusione], p.517.
37E. Auerbach, Epilegomena zu “Mimesis”, «Romanische Forschungen», 1954, 65. Band, pp. 15-17 (il testo occupa le pp. 1-18); e cfr. la nota 2.
38 Auerbach, Mimesis cit., p.275.
39Ibid., XII, p.282.
40Ibid., II, p.42-43).
41Ibid., III, p.58-59.
42Ibid., VI, p. 134.
43Ibid., IV, p.87.
44Ibid., XVIII, p.455.
45Ibid., II, p.513.
46Ibid., XV, p.344.
47Ibid., XII, p. 287.
48Ibid., III, p. 62.
49Ibid., IX, p.220.
50Ibid., XV, p.366.
51 Ibid., III, p. 62.
52Ibid., I, p.22.
53Ibid., II, p.56.
54Ibid., XVI, p.378-79.
55Ibid., XIX, p.476.
56Ibid., Nachwort [Conclusione], p.518.
57Ibid., VIII, p.183.
58Ibid., VIII, pp.184-85.
59Ibid., VIII, p.186.
60Ibid., VIII, p.189.
61Ibid..
62Ibid., I, p.21.
63Ibid., II, p. 32.
64Ibid., II, pp.33-34.
65Ibid., XVI, p.398.Traduco con «comunità solidale»l’espressione tedesca Solidaritätsgemeinschaft, che ne riprende quasi letteralmente un’altra, Solidaritätskreis, già citata da Auerbach nel cap. VI attribuendolaall’orientalista Helmut Ritter (cfr. p. 133).
66 Ibid., XVIII, p. 423.
67Ibid., XVIII, p. 426.
68Ibid., XVIII, p.431.
69Ibid., XVIII, p.440.
70Ibid., XVIII, p.447.
71Ibid., XVIII, p.452.
72Ibid., II, p.32.
73Ibid., XIII, p.309.
74Ibid., XVII, p.417.
75 Ibid., XIX, p. 481.
76 Auerbach, Epilegomena… cit., pp. 13-14.
77 Mimesis cit., XVIII, p. 459).
78Ibid., XIX, p. 482.
79 Ibid., VI, p.129.
80 Ibid., XV, p. 348.
81Ibid., XV, p. 358.
82Ibid., XVI, p.374.
83Ibid., XVII, pp.411-12.
84Ibid., II, p.46.
85Ibid., XIX, p.477.
86Ibid., II, p.44.
87Ibid., VII, p.146.
88 Ibid., VI, p. 135.
89 Ibid., XVIII, p.425.
90Ibid., XIX, p. 462.
91Ibid., XIX, pp.477-78.
92Ibid., X, p.237.
93Ibid., XV, p.360.
94Ibid., XV, p.364.
95Ibid., X, p. 237.
96Ibid., X, p. 238.
97 Ibid., X, p. 248.
98 Ibid., X, pp. 247-48.
99 Ibid., X, p.249.
100 Ibid., XI, p. 263.
101Literatursprache… cit., pp. 73-77.
102Mimesis cit., XI, p.265.
103Ibid., XI, p.268-69.
104 Ibid., XI, p.270.
105Ibid., XIV, p. 339.
106Ibid., XIII, p.307.
107Ibid., XVIII, p. 439.
108Ibid., XVIII, p.440.
109Ibid., XX, p.494.
110Ibid., XX, p.495.
111Ibid., XII, p.289.
112Ibid., XVI, p.395.
113Ibid., XVI, p.394.
114Ibid., XVIII, pp.438-39.
115Auerbach, Epilegomena… cit., p. 16.
116Mimesis cit., I, p.9.
117Ibid., I, p.20.
118 Ibid., I, p.21.
119Ibid., XIX, p.484.
120Ibid., XIX, p. 485.
121Ibid., I, p.14.
122Ibid., III, p.71.
123Ibid., XII, p.277.
124Ibid., II, p.43.
125Ibid., XV, p.352.
126 Auerbach, Literatursprache… cit., p.162.
127Ibid., p. 164. In nota Euripide, Apollonio Rodio, Ovidio, Virgilio.
128 Mimesis cit., XV, p. 356.
129 Ibid., XV, p. 361.
130Ibid., XX, p. 507.
131Ibid., XX, p.512.
132Ibid., XX, p.496.
133Ibid., XX, p.498.
134 Ibid., XVIII, p. 426.
135In E. Auerbach, Gesammelte Aufsätze zur romanischen Philologie, Francke, Bern und München, 1967, p. 301 (trad. it. di V. Ruberl, in E. Auerbach, San Francesco Dante Vico, e altri saggi di filologia romanza, Editori Riuniti, Roma 1987, p. ???).
136Ibid., XX, pp.502-3.
137Ibid., XX, p.508.
138Mimesis cit., XX, p. 503.
139Ibid., XX, p.513.
140Ibid., XX, pp.513-14.
141 Rinviene acutamente in Mimesis dispositivi vicini alla formazione di compromesso S. Brugnolo, Approccio filologico e giudizio di valore in Auerbach, in Studi in onore di P. V. Mengaldo per i suoi settant’anni, Edizioni del Galluzzo, Firenze 2007, vol. II, pp. 1265-84 (in particolare 1268-75).
142 C. Ginzburg, Tolleranza e commercio. Auerbach legge Voltaire, in Il filo e le tracce, Feltrinelli, Milano 2006, pp.112-14, 124-26.