[ Presentiamo di seguito un articolo che riprende – in forma rielaborata – parte di una tesi di laurea su Letteratura e censura che indaga il rapporto sempre controverso e conflittuale tra statuto di verità e di finzione dei testi letterari, livelli di ricezione e potere politico. E’ la prima volta che presentiamo sul nostro sito un articolo interamente tratto da una tesi di laurea, e inauguriamo con oggi un esperimento in cui crediamo fortemente: far spazio nel nostro sito anche alle giovani e giovanissime voci che, come noi, abbiano voglia di indagare e capire il rapporto tra la Letteratura e il Mondo. ]
I.
Se parliamo di letteratura e censura, di questo rapporto contrastivo che vediamo chiaramente emergere in occasione di processi intentati contro delle opere letterarie, possiamo prendere la questione e studiarla da diversi punti di vista: storiografico, socio-culturale, persino giuridico. Nel corso della mia indagine mi sono chiesto se potesse risultare fecondo un percorso diverso, di tipo interpretativo, che puntasse cioè non tanto a “fare la cronaca” dei processi, a indagare le metodologie e le istituzioni censorie, o i mezzi a cui gli scrittori ricorrono per sfuggire alle sue maglie, ma che cercasse piuttosto di analizzare il discorso censorio, vagliando la possibilità di utilizzarlo come uno strumento utile a farci comprendere meglio i testi che va a colpire. Vale a dire se, in una certa misura, possiamo leggerlo come una critica letteraria.
Generalmente, parlando della censura, il mondo delle lettere (scrittori, lettori, studiosi) ne critica l’azione repressiva, l’ottusità con cui si rapporta al testo, il suo misconoscimento dello statuto di finzione del discorso letterario. Azione naturalmente doverosa e meritoria, e che tuttavia rischia di farci perdere qualcosa. Chi scrive ritiene che i testi letterari, in una maniera peculiare che li distingue da altri linguaggi e discipline che possono incorrere nella scure censoria (il saggio filosofico, il trattato politico, il libello propagandistico), parlino del mondo – il che ovviamente non significa che lo riflettano semplicemente, anzi – in virtù dei meccanismi empatici e cognitivi che vengono attivati nell’esperienza della lettura. Gli episodi di censura, la serietà e la preoccupazione con cui i censori si rapportano alla letteratura, dimostrano il potere insito nelle rappresentazioni estetiche, la loro capacità di colpire profondamente gli immaginari degli individui e di problematizzare la loro visione del mondo. In contrasto con quanto sostenuto e rivendicato anche da molti scrittori, e cioè che la sfera estetica è autonoma dalla politica, dalla morale e dalla religione, o addirittura che la finzione è del tutto autoreferenziale (“è solo letteratura, sono solo fantasie, non prendetela troppo sul serio”), la censura si dimostra ben consapevole del potere corrosivo che le rappresentazioni letterarie possono esercitare su istituzioni, norme morali, valori condivisi, idee convenzionalmente accettate. Facendo riferimento alla celebre definizione di Coleridge, potremmo dire che se la letteratura è il luogo in cui accade la “sospensione volontaria dell’incredulità”, la censura tende ad attribuire consistenza alla finzione, a temerne la realta.
Se il contesto risulta irritato dal testo, è perché il testo dice qualcosa che lo riguarda. Questo primo aspetto teorico, se da un lato ci serve per valorizzare la censura come indizio rivelatore della capacità della letteratura di incidere sul mondo, dall’altro non ci dice ancora nulla circa l’utilità della censura nell’ambito dell’interpretazione testuale vera e propria. Se infatti ci proponiamo di leggere il discorso censorio come una critica letteraria, di vedere se e in che cosa essa può risultare utile ai fini di una maggiore comprensione dei testi posti sotto accusa, ci troviamo davanti a una grossa difficoltà: come superare l’estrema parzialità ideologica della censura, che le precluderebbe la possibilità di uno sguardo oggettivo sui testi? Per superare questo problema, di non poco conto, ho trovato utili e pertinenti i concetti di matrice freudiana messi a punto da Francesco Orlando, in particolare quello di letteratura come formazione di compromesso, luogo in cui coesistono fianco a fianco, ambivalentemente, istanze trasgressive di determinate norme e valori morali, sociali e politici, e istanze che invece si pongono al servizio di queste norme e di questi valori. Grazie al modello della formazione di compromesso, siamo in grado non solo di superare la difficoltà iniziale, l’estrema parzialità dello sguardo censorio, ma anzi riusciamo a valorizzarla. La censura diventa così un osservatorio privilegiato da cui guardare al testo poiché il censore, alleato e parte integrante dell’ideologica dominante ed essendo immune o restio a fare concessioni al piacere dell’incantamento letterario, riesce talvolta a cogliere, meglio e prima della critica, le pieghe dell’opera che veicolano i contenuti incompatibili con l’ideologia dominante che egli ha il compito di difendere. La parzialità dello sguardo, pur restando tale, può divenire così un momento rivelatorio dell’intero. Con le parole di Orlando: “L’assunzione entro un testo di contenuti conflittuali in compromesso implacabile o incerto non può non provocare scontri di senso; le letture più tendenziose si legittimano l’una accanto all’altra al plurale, potendosi richiamare a tendenze opposte ma compresenti.”[1]
Proviamo a verificare la validità di questa metodologia usando come testo campione un’opera che al momento della sua pubblicazione dovette subire un processo per accuse quali oscenità e oltraggio alla morale e alla religione: Madame Bovary di Gustave Flaubert. Il discorso censorio in quel caso trovò la sua manifestazione nella requisitoria di Ernest Pinard, che – come del resto fece anche pochi mesi dopo, in occasione del processo contro Baudelaire – prese le parti dell’accusa. Al di là dell’indignazione moralistica a cui improntò la sua arringa, vedremo come il pubblico ministero si dimostrò straordinariamente lucido e persino brillante nel cogliere alcuni aspetti importanti del funzionamento della nuova macchina romanzesca messa a punto da Flaubert, e dei valori veicolati dalle sue scelte stilistiche.
II.
Nel 1856, dopo 5 anni di meticolosa stesura, Gustave Flaubert pubblica in sei puntate sulla Revue de Paris l’opera che lo consacrerà come uno dei più grande romanzieri dell’Ottocento: Madame Bovary. Già in questo primo debutto il romanzo viene tagliato in alcuni punti, giudicati scabrosi e lascivi. Il 24 dicembre 1856 il romanzo viene denunciato per oltraggio alla morale pubblica e religiosa e al buon costume. Di lì a poche settimane si tiene il processo, che termina con l’assoluzione dell’autore, il 7 febbraio 1857. Il romanzo a questo punto esce integralmente in volume, e anche sull’onda dello scandalo diventa ben presto un best-seller.
Il testo come è noto racconta la storia dell’infelicità coniugale di una giovane donna di provincia che, formatasi sui romanzi e sugli stereotipi della letteratura romantica, si scontra con la prosaicità, il vuoto, il grigiore e la noia dell’esistenza quotidiana, che la portano a compiere l’adulterio come una disperata via di fuga, fino alla catastrofe del suicidio finale, dovuto ai debiti contratti per soddisfare i suoi desideri di lusso. Di grande rilievo è la tecnica narrativa usata da Flaubert, fondata sull’impersonalità della narrazione, sull’astensione dello scrittore dal giudicare in forma esplicita le vicende dei personaggi, e su un ampio ricorso al discorso indiretto libero. Elementi che permettono al lettore di vedere in forma seria e problematica l’insoddisfazione della protagonista, rendendo niente affatto scontata la formulazione di un giudizio morale sulla sua parabola. A ciò si deve aggiungere che l’impersonalità della narrazione, il celarsi della coscienza del narratore, se ha attirato sull’autore del romanzo le accuse di connivenza con la protagonista sulla base del principio del silenzio-assenso, ha anche giocato a favore della sua assoluzione, sulla base del principio, ugualmente valido, della distinzione tra l’intenzione d’autore e i caratteri e le vicende dei personaggi. Anche in questo caso le due opposte posizioni non si escludono a vicenda ma sono ambivalentemente compresenti.
L’assoluzione dell’autore, se ha creato un precedente importante rispetto ad altri casi di processi intentati contro dei romanzi che si daranno in futuro, non significa che la voce dell’accusa avesse per forza “torto”. Basta vedere l’acume critico con cui il pubblico ministero Ernest Pinard passa al setaccio gli episodi, i personaggi, i giudizi morali taciuti e quelli veicolati dal silenzio del narratore.
Come obiezione generale ci diranno: ma, dopotutto, il romanzo è in fondo morale, poiché l’adulterio viene punito. A tale obiezione, due risposte: anche supponendo, per ipotesi, che io consideri l’opera morale, una conclusione morale non potrebbe amnistiare i particolari lascivi che vi si trovano. E inoltre affermo: l’opera fondamentalmente non è morale. Affermo, signori, che i particolari lascivi non possono essere coperti da una conclusione morale, altrimenti potremmo raccontare tutte le orge immaginabili, descrivere tutte le turpitudini di una donna pubblica, facendola poi morire in un lettuccio d’ospedale. Sarebbe permesso studiare e mostrare tutte le sue pose lascive! Significherebbe andare contro tutte le regole del buon senso. Significherebbe mettere il veleno alla portata di chiunque, e l’antidoto alla portata di pochissimi, posto che ci fosse un antidoto.[2]
La requisitoria nega la moralità del romanzo, che invece era stata rivendicata dalla difesa, in nome dell’invito a considerare il romanzo nella sua interezza e soprattutto alla luce della miserevole fine della protagonista. Ma ciò evidentemente non basta a Pinard, che considera le scene in cui Emma si lascia andare all’adulterio lascive e immorali, invitanti all’identificazione piuttosto che alla repulsione. Questo fascino resisterebbe anche allo scacco fallimentare a cui va incontro il tentativo di Emma di conquistare la vita piena, autentica e gioiosa che aveva sognato di vivere e che aveva tratto dalle sue letture. Al di là del tono censorio con cui si rapporta alla sessualità femminile, elemento che testimonia del carattere sessuofobico e misogino della morale borghese che egli difende, il discorso di Pinard risulta interessante perché ragiona su quel gioco di pesi e contrappesi fra istanze in reciproco conflitto che abbiamo chiamato formazione di compromesso. Il ragionamento di Pinard è di tipo ideologico, dunque incapace di accettare la contraddizione e l’ambivalenza che abitano il linguaggio letterario, perciò lo fraintende. In realtà, ciò non è del tutto vero. Il fatto che egli non creda all’efficacia ricettiva delle formazioni di compromesso che pure esistono nel testo (“L’antidoto sarebbe alla portata di pochissimi”), non significa che non le presupponga. Riporto una citazione di Francesco Orlando che può avere una funzione chiarificatrice: “Quando all’intenzione che ha torto è stato lasciato abbastanza spazio per accordarle magari una mezza riuscita, ed infliggerle quindi non più che un mezzo fallimento, logica vuole che non si possano nutrire dubbi sul carattere dimidiato anche della riuscita e del fallimento dell’intenzione opposta, che ha torto”[3]. Alla luce di questo principio, il discorso di Pinard, nella sua parzialità, diventa un momento rivelatore:
Chi legge il romanzo di Monsieur Flaubert? Sono forse uomini che si occupano di economia politica o sociale? No! Le frivole pagine di Madame Bovary cadono in più frivole mani, nelle mani di giovinette, qualche volta di donne sposate. Ebbene, quando la fantasia sarà stata sedotta, quando questa seduzione sarà scesa fino al cuore, quando il cuore avrà parlato ai sensi, credete forse che un freddo ragionamento saprà opporsi a questa seduzione dei sensi e della coscienza?[4]
Pinard esprime qui le sue preoccupazioni relative alla ricezione dell’opera, e nelle parole della sua accusa vediamo emergere nettamente il motivo della critica platonica alla letteratura, vista come un’eccitazione irriflessa dei sensi. Essa andrebbe a colpire come un “veleno” le “menti deboli”, le giovani donne sognatrici e sfaccendate, incapaci a detta di Pinard di arrivare a formulare un giudizio critico razionale e ponderato sulla materia romanzesca. Se proviamo a vedere al di là del maschilismo che impronta il suo discorso, ci accorgiamo che in realtà Pinard coglie qui una doppia verità. La prima è di ordine generale, e cioè la consapevolezza di quella che è la vera posta in gioco dell’atto della lettura, e cioè i meccanismi di identificazione tra personaggi e lettori, le loro corrispondenze (rivelate o indotte). La seconda riguarda più da vicino il romanzo di Flaubert. Da cosa nascono gli accorati timori di Pinard sul rischio che il romanzo abbia un effetto-contagio? Dopotutto non era certo la prima volta che la letteratura dava rappresentazione dell’adulterio. Ma – e non è davvero una differenza di poco conto – era la prima volta che ci veniva presentato come lo fa Flaubert. Se infatti l’adulterio aveva trovato prima di allora rappresentazione soprattutto nell’ambientazione mitica, che fungeva da elemento distanziante, oppure per mezzo dell’abbassamento comico, Flaubert ce lo rappresenta invece in forma seria e problematica e sceglie come teatro della vicenda un’ambientazione assolutamente quotidiana quale la campagna francese. Emma, la moglie di un comune medico di una cittadina di provincia, è in tutto e per tutto simile alle sue lettrici, il che favorirebbe in maniera fortissima e immediata l’identificazione del pubblico con le sue inquietudini e insoddisfazioni. Le concitate preoccupazioni di Pinard non mancano di notarlo, e peraltro trovano un effettivo riscontro nella ricezione del pubblico, documentata tra l’altro da alcune lettere che Flaubert ricevette dalle sue lettrici.[5]
Veniamo ora a uno dei punti chiave della requisitoria di Pinard: la confutazione della moralità del finale.
Sostengo che il romanzo di Madame Bovary, considerato dal punto di vista filosofico, non è affatto morale. Indubbiamente Madame Bovary muore avvelenata; ha molto sofferto, è vero; ma muore nell’ora e nel giorno che ha stabilito, ma muore, non perché sia un’adultera, ma perché l’ha voluto lei; muore in tutto il fascino seducente della sua giovinezza e della sua bellezza; muore dopo aver avuto due amanti, lasciando un marito che l’ama, che l’adora, che troverà il ritratto di Rodolphe, che troverà le sue lettere e quelle di Léon, che leggerà le lettere di una donna due volte adultera, e che, dopo, l’amerà ancora di più oltre la tomba.[6]
Qui Pinard pare davvero nel giusto. Egli rimarca come la miserevole fine della protagonista non abbia il valore di un’espiazione, di una penitenza conseguente al peccato da lei commesso, bensì sia una nuda sconfitta, frutto di meri rapporti di forza a lei sfavorevoli, giungendo alla conclusione che la morte di Emma sia ben lontana dal risanare quella morale che la vicenda romanzesca aveva precedentemente corroso. Emma muore, ma anche nel momento della fine mantiene comunque, per quanto è concesso a chi non ha vie di scampo, il dominio sulle proprie azioni. E muore non a causa degli adulteri commessi, bensì per via delle tendenze autodistruttive insite nel suo stesso comportamento – su tutte la spericolata leggerezza con cui contrae debiti con il mercante Lheureux per soddisfare i suoi desideri di lusso. La stessa descrizione crudamente materialistica del cadavere di Emma e la cerimonia del funerale, ridotto a mero rituale, sembrano chiudere nichilisticamente la possibilità che una qualche giustizia divina venga a sostituirsi a quella umana, già latitante in tutto il romanzo.
Un altro degli aspetti su cui Pinard si sofferma nella sua arringa e in cui dimostra un discreto acume, riguarda i personaggi “virtuosi” del romanzo, che avrebbero dovuto contenere la condotta adulterina di Emma, o quanto meno cercare di farla apparire al lettore (e soprattutto alle lettrici) come malvagia e ripugnante. La pochezza di questi personaggi fa sì che Emma si ritagli un ruolo di assoluto predominio nel romanzo:
C’è forse nel romanzo qualcuno che possa condannare questa donna? No, nessuno. Questa è la conclusione. Non c’è nel libro un solo personaggio che la possa condannare. Se riuscite a trovare un personaggio virtuoso, o anche solo un principio astratto – uno – in base al quale l’adulterio sia stigmatizzato allora ho torto. Ma se in tutto il libro non c’è un solo personaggio che possa farle abbassare la testa; se non c’è una sola idea, una sola riga in virtù della quale l’adulterio sia biasimato allora ho ragione, il libro è immorale! Sarebbe forse in nome della dignità coniugale che il libro andrebbe condannato? Ma la dignità coniugale è rappresentata da un marito cornuto e contento, che, dopo la morte di sua moglie, incontrando Rodolphe, cerca sul volto dell’amante i lineamenti della donna che ama. Ve lo domando, è forse in nome della dignità coniugale che potete stigmatizzare questa donna, quando nel libro non c’è una sola parola in cui il marito non si inchini di fronte all’adulterio? Sarebbe forse in nome dell’opinione pubblica? Ma l’opinione pubblica è personificata da un essere grottesco, dal farmacista Homais, circondato da personaggi ridicoli che questa donna domina. Lo condannereste forse in nome del sentimento religioso? Ma questo sentimento, lo trovate personificato nel curato Bournisien, prete quasi altrettanto grottesco del farmacista, che crede soltanto nelle sofferenze fisiche, mai in quelle morali, una sorta di materialista.[7]
Il pubblico ministero nota con grande finezza che nessuno dei personaggi “virtuosi” (o che dovrebbero esserlo) che compaiono nel romanzo è in grado di contrapporsi con l’autorevolezza delle proprie parole o con l’autorità conferitagli dai loro ruoli sociali alla condotta della donna, né tanto meno di farla apparire al lettore come meritevole di una condanna morale. Né il curato, né il farmacista, né tantomeno il marito Charles, sono in grado – per riprendere le esatte parole di Pinard,– “di farle abbassare la testa”. La figura del marito borghese viene semplicemente fatta a pezzi nel romanzo. L’inettitudine di Charles, la sua mediocrità e assoluta insipienza si rivela ripetutamente agli occhi di Emma (e dei lettori). Egli non solo si dimostra incapace di comprendere le ragioni dell’inquietudine della moglie; non solo non è in grado di farsi valere e rispettare adeguatamente dai propri genitori e dagli altri personaggi con cui entra in contatto e che spesso lo raggirano, ma dà attivamente ad Emma delle occasioni per tradirlo. Pinard non può che constatare come il dilagare del “vizio” nel romanzo trionfi in virtù dell’inconsistenza dei personaggi “buoni”, dei “poli positivi” di quella che abbiamo definito come la formazione di compromesso.
Questo passo ci dà però l’occasione di riflettere su come anche i silenzi e le reticenze della censura risultino sintomatiche e rivelatorie. Pinard dichiara di non aver trovato un solo personaggio nel romanzo capace di rimproverare o fare fronte all’adulterio di Emma. Ma in realtà due personaggi che nel romanzo riescono a dominare Emma, ingannandola e raggirandola, ci sono: Rodolphe e Lheureux, e si può ben capire perché l’autore della requisitoria non li abbia citati. Il primo è lo scaltro amante di Emma, un furfante che la manipola, che fa leva sulle sue insoddisfazioni per sedurla, che infine la illude e l’abbandona, gettandola in una condizione di prolungata prostrazione psichica. Egli dunque la domina completamente, ma è compartecipe del suo adulterio, ne è anzi la causa attiva. Impossibile dunque per Pinard sfruttarlo in funzione anti-Emma. Figura se possibile ancora più scomoda da valorizzare è quella del mercante Lheureux, che da abile venditore e truffatore sa lusingare e suscitare in Emma quei desideri di lusso che la porteranno ad accumulare una folle quantità di debiti, conducendola alla catastrofe finale. Nel personaggio di Lheureux, tutto teso a solleticare i desideri consumistici dei suoi clienti, vediamo incarnata in forma grottesca quella che oggi chiamiamo la seduzione della pubblicità. Con la sua condotta spregiudicata, improntata a perseguire il profitto a tutti i costi, egli porta alle estreme conseguenze il principio fondante della società borghese che Pinard difende: la ricerca del guadagno e dell’utile.
Il silenzio di Pinard sembrerebbe configurarsi come un’autocensura – ironia della sorte – dovuta a motivazioni ideologiche. Il peccato di Emma, il suo comportamento immorale, non viene infatti sconfitto e punito dai rappresentanti dell’ordine morale vigente, bensì dai germi autodistruttivi insiti in quel comportamento e, soprattutto, da figure ugualmente immorali ma più scaltre e più forti di lei. In forma iper-semplificata potremmo dire che il male nel romanzo non soccombe al bene, bensì a un male maggiore, il che costituisce una verità romanzesca decisamente poco digeribile per le sentinelle della morale allora al potere[8].
L’arringa di Pinard non poteva certo risparmiare la figura del narratore, e infatti ne denuncia con forza la latitanza morale, il suo essere restio a condannare in forma esplicita le azioni e i pensieri della protagonista. Egli finirebbe così col rendersi complice della condotta adulterina di Emma. In realtà Flaubert inserisce spesso nel romanzo delle massime di carattere generale a commento della vicenda di Emma, massime che indicano una presa di distanza dalla protagonista, una demistificazione del carattere artefatto dei suoi desideri, una lucida e spietata analisi dell’incomunicabilità, del vuoto, dei meschini tentativi di Emma di evadere dalla sua condizione. Ma non c’è in Flaubert alcuna volontà di giudicare Emma secondo i parametri morali borghesi a cui il pubblico ministero si appella. Il censore, grazie alla lente ideologica con cui guarda il testo, riesce dunque a intuire chiaramente i portati non solo estetici, ma anche morali del nuovo stile che Flaubert imprime al romanzo realista. Laddove una critica estetizzante manca il bersaglio, la censura va a segno. Pinard conclude così la sua requisitoria:
E, dico io, che se la morte è la sopravvenienza del nulla, che se il marito cornuto e contento sente aumentare il proprio amore nell’apprendere gli adulteri della moglie, che se l’opinione pubblica è rappresentata da esseri grotteschi, che se il sentimento religioso è rappresentato da un prete ridicolo, allora un’unica persona ha ragione, regna, domina: Emma Bovary. Messalina ha ragione contro Giovenale. Ecco dunque la conclusione filosofica del libro, tratta non dall’autore, ma da un uomo che riflette e approfondisce le cose, da un uomo che ha cercato in questo libro un personaggio che possa far abbassare la testa a questa donna. Non ce ne sono. L’unico personaggio dominante è Madame Bovary.[9]
Veramente difficile dargli torto.
III.
Seguendo le tracce del discorso di Pinard, abbiamo potuto constatare come lo sguardo censorio possa fornire delle preziose piste da seguire in sede di analisi testuale, e come anche quando il suo giudizio sul testo risulti parziale, riesca comunque a centrare bene quali sono le questioni più problematiche e dirimenti che il testo pone. L’occhio del censore, teso a sorvegliare i gusti del pubblico, a preservarne quella salute morale che verrebbe inquinata dalle “cattive letture”, può così fornire dei notevoli contributi a quella branca degli studi letterari che è l’estetica della ricezione. Un argomento su cui Jauss ha già riflettuto nel suo saggio Storia della letteratura come provocazione, soffermandosi sul carattere di rottura dell’orizzonte di attesa di alcune opere, tra cui appunto Madame Bovary. Proviamo a porci qualche domanda: la censura entra in azione solo perché determinati contenuti repressi riemergono? O piuttosto perché questi contenuti riemergono in assenza dei dispositivi interni ai testi che tradizionalmente li controbilanciavano? Esiste una correlazione tra la censura di un’opera e il carattere di rottura delle norme estetiche vigenti in un campo letterario storicamente dato che quell’opera compie?
Jauss nota che in contemporanea a Madame Bovary uscì nel 1857 un altro romanzo, Fanny di Feydeau, che metteva in forma letteraria l’adulterio femminile in un ambiente borghese e provinciale, senza che questo venisse censurato. Come spiegare questa disparità di trattamento? La risposta risiede nella forma romanzesca. “Il provocante contenuto di Fanny servito con il tono semplice di un romanzo di confessione”[10], pur attirandosi delle critiche per alcune scene lascive, se non innocente non venne giudicato meritevole di una severa punizione perché era pienamente compatibile con l’orizzonte di attesa dei lettori di allora, i quali traevano piacere dal “trovare incarnati nelle descrizioni di Feydeau ideali alla moda e desideri proibiti di un ceto influente”[11].
La provocazione di Flaubert, il suo “contraccolpo violento”[12] – per usare l’espressione di Auerbach – rispetto ai precedenti romanzi realisti, consisté invece nell’imprimere alla forma romanzesca uno stile improntato all’impersonalità della narrazione, che ben si prestava a rappresentare in forma seria e problematica le inquietudini di una giovane donna di provincia, la cui educazione aveva posto le basi per un lacerante dissidio tra i suoi desideri e i doveri che il suo ruolo di moglie e di madre all’interno della classe borghese le prescrivevano. Come scrive Jauss:
La sconcertante efficacia dello stile narrativo di Flaubert diviene evidente nel processo: la forma impersonale della narrazione non solo costringeva i lettori a percepire diversamente le cose – <<con esattezza fotografica, secondo il giudizio dell’epoca>> -, ma li gettava al tempo stesso in una strana incertezza di giudizio. Dal momento che il nuovo artificio trasgrediva una vecchia convenzione del genere – il giudizio morale, sempre univoco e garantito, sui personaggi rappresentati -, il romanzo poteva radicalizzare o sollevare per la prima volta questioni della vita pratica che nel corso del dibattimento misero in secondo piano il motivo iniziale dell’accusa, la presunta lascivia.[13]
Questa “strana incertezza di giudizio” in cui erano gettati i lettori di Madame Bovary ci porta a confrontarci con quel disordine etico, con quella confusione cognitiva che secondo la censura costituirebbe il meccanismo principe dell’interazione tra opera e lettori, meccanismo che se non attentamente sorvegliato avrebbe degli effetti nefasti. La Repubblica di Platone, in cui il filosofo ateniese accusa la letteratura di inculcare “nell’anima di ciascuno una cattiva forma di governo” [14] e di dare linfa alla “parte peggiore”, ha in questo senso più di una volta ispirato operazioni di “polizia” del pensiero, che nel corso dei secoli si sono occupate di difendere l’integrità morale degli individui dall’influenza di supposte cattive letture.
Jauss opera una distinzione sul piano estetico tra le opere “culinarie”, di consumo e di intrattenimento, e quelle che provocano una rottura, un mutamento dell’orizzonte di attesa dei lettori, ascrivendo a queste ultime l’attributo di reale artisticità: non di rado accade che opere inizialmente dirompenti, che costringono la comunità dei lettori a ridefinire i confini del proprio orizzonte d’attesa, vengano poi riassorbite nel normale spazio letterario, fino a far dimenticare completamente l’aura di scandalo che ha accompagnato i loro esordi. Se una simile asserzione risulta insostenibile dal punto di vista estetico, come rileva Compagnon[15] (il fatto che il contenuto di Madame Bovary non desti più scandalo e sconcerto nel lettore odierno non vuol dire che non continui a suscitare in lui piacere estetico), può però essere recuperata se intendiamo lo scarto estetico anche come scarto ideologico. Rifacciamoci alla definizione che Jauss dà di scarto estetico:
Se si definisce come distanza estetica la differenza tra l’orizzonte d’attesa e l’apparire di una nuova opera la cui ricezione può avere come conseguenza un <<mutamento d’orizzonte>> – attraverso la negazione di esperienze familiari o la presa di coscienza di esperienze che giungono a espressione per la prima volta -, allora una tale distanza estetica si lascia oggettivare storicamente nello spettro delle reazioni del pubblico e dei giudizi della critica (successo spontaneo, rifiuto o <<choc>>, approvazione isolata, comprensione graduale o tardiva).[16]
Lo scandalo suscitato dallo stile impersonale della narrazione flaubertiana è un sintomo di quell’esteso processo che, con tempi diversi a seconda dei paesi, ha portato dopo il 1848 una larga schiera di scrittori, artisti e intellettuali borghesi a schierarsi contro la propria classe sociale. Se prima di quella data tra lo scrittore e il suo pubblico vigeva un rapporto di consonanza valoriale, adesso il rapporto si incrina. Flaubert fa emergere questa presa di distanza sotto la forma del disimpegno da parte del narratore dal ruolo di giudice, di portatore di un’istanza etica che si pone a commento dell’azione dei personaggi e dell’esito delle loro vicende. Ciò in realtà non è del tutto vero. La rinuncia a ritagliarsi una sua “tribuna di giudizio” all’interno della narrazione non impedisce a Flaubert di lasciare trasparire tra le righe, in maniera graffiante, il suo giudizio sui personaggi, sulla natura delle loro azioni, sui loro moventi reali o fittizi. Ma ciò non conduce al risanamento finale del vecchio ordine etico, che risulta così lacerato, messo a nudo, spogliato della vuota retorica che lo rivestiva. La censura si rende subito conto di ciò, meglio e prima della critica, e diventa così una fonte privilegiata non solo per la storia della ricezione dei testi, ma anche perché coglie in anticipo delle costanti, delle linee di fondo da cui si dirama la storia letteraria, come ad esempio – in questo caso – la posizione ideologica degli scrittori, che assumeranno d’ora in avanti un atteggiamento tendenzialmente polemico verso il proprio tempo e la classe borghese al potere, cui pure appartengono. Non dovremmo forse dire a questo punto, parlando della censura, che il suo fraintendimento estetico è spesso in realtà un intendimento ideologico?
In conclusione, è forse opportuno chiederci se gli episodi di censura, i processi intentati contro alcune opere, lo scandalo che le ha accompagnate, ci possono dare conto o meno della capacità della letteratura di incidere sul mondo, di fungere da forza propulsiva di cambiamenti di tipo politico, sociale, morale, culturale.
Se non si può negare alla letteratura un potere destrutturante e corrosivo nei confronti di determinate istituzioni sociali, che in effetti costituisce la ragion d’essere dell’intervento censorio, ciò non di meno è bene anche chiarire che la critica da essa veicolata, fosse anche la più feroce e graffiante, è in sé cosa assai diversa da un programma riformatore, riformista o rivoluzionario che sia. Il lettore (e lo scrittore) ricava sicuramente piacere dalla messa in scena di un conflitto che porta in superficie contenuti psichici rimossi o repressi, ma questo piacere ha il valore di una liberazione contenuta, di un alleggerimento temporaneo, intrinsecamente connesso allo statuto di finzione dell’opera letteraria. Nessuna opera lo mostra meglio di Madame Bovary: non c’è nel libro un solo passo in cui la protagonista, né tanto meno il narratore, definisca l’adulterio come un mezzo di affermazione femminile contro il dispotismo dell’ordine maschile. Non c’è alcuna consapevolezza di genere, nessuno slancio emancipatorio di carattere generale – nei termini di Orlando, siamo di fronte a un ritorno del represso accettato ma non propugnato[17]. Al contrario, l’universo poetico di Emma, derivato dalle sue letture, è profondamente impregnato di immagini e di valori aristocratici, da ancien régime. La sua polemica contro la società borghese resta in superficie, non va oltre la fantasticheria, si arena in una nostalgia regressiva. Siamo assai lontani da qualsiasi ipotesi rivoluzionaria. La parabola di Emma in questo senso si configura come un eloquente monito circa la sorte dei tentativi di evasione dalla realtà o di rivoluzionamento dell’esistente che rechino un impronta libresca e monadica.
Ciò tuttavia non esclude affatto che il conflitto tra l’istanza repressiva e quella che si pone al servizio del ritorno del represso, anche laddove sia letterariamente sanato o veda la seconda istanza sconfitta, possa mostrare delle contraddizioni che possono servire da stimolo ed essere funzionali alla ricerca di un cambiamento reale, avere dunque una funzione rivoluzionaria – sia pure indirettamente. Scrive Paduano: “Credere che la letteratura influisca sul reale è senz’altro possibile, a mio parere, ma leggendo la relazione su un respiro temporale assai più ampio della singola occasione politica, e ammettendo un’influenza più neutra e pervasiva, che chiama in causa la zona del costume.”[18]
Flaubert ci fa solidarizzare con Emma, con la sua insoddisfazione, e tuttavia ci fa anche prendere le distanze da lei, e comunque è lontanissimo dal voler promuovere o incitare le donne a un’emancipazione di cui, a questa altezza, ci viene mostrata l’insussistenza delle basi materiali e ideali per metterla in pratica. Flaubert ci mostra la ferita e, non sapendo o forse nemmeno volendo proporre una cura, vi getta sale sopra.
Non è certo un romanzo a poter sovvertire materialmente le gerarchie di genere tra i sessi all’interno della famiglia nucleare, e comunque non quello di Flaubert. Possiamo però davvero escludere che il romanzo, in virtù della sua efficacia poetica e della sua memorabile protagonista, abbia contribuito sul lungo periodo, sia pur in minima parte, a un risveglio delle coscienze femminili e a quel processo emancipatorio che con tempi diversi in ciascun paese ha portato le donne a conquistare il diritto al divorzio e una maggiore libertà sessuale? Parliamo appunto di qualcosa che va ben oltre il fatto letterario e che sconfina nella storia della mentalità e del costume.
Walter Siti scrive: “Ogni moralista serio avrà sempre ragione contro un romanzo: ci saranno sempre dei lati di violenza, di nichilismo, di stupidità che un romanzo, coscientemente o no, riuscirà a valorizzare e che alla società non fanno bene. Ma ogni moralista avrà torto se penserà di abolire il piacere del male e la sua necessità; formalizzarlo in fantasie ben temperate sarà sempre meglio che lasciarlo agire empiricamente e senza controllo”[19]. Siti, memore della lezione della psicoanalisi, ribadisce qui il valore di uno dei suoi più grandi insegnamenti: l’espressione, l’elaborazione simbolica di una pulsione può fungere da appagamento sostitutivo del gesto. Una finezza psicologica, questa, che alla fine è stata accettata e sfruttata dagli odierni sistemi disciplinari, i quali adoperano strumenti e tecniche di controllo che nel paradosso di essere al contempo meno invasive e più capillari di quelle passate, risultano senza dubbio più efficienti. La letteratura gode oggi di uno spazio di pressoché completa libertà espressiva che, ambivalentemente, le consente di dire verità scomode e terribili, di dare espressione al disagio della civiltà, senza per questo mettere seriamente in pericolo le norme che regolano il funzionamento del vivere civile. Ancora una volta, formazione di compromesso: la violazione della norma (espressa nella forma della sublimazione letteraria) genera piacere, soddisfa il ritorno del represso, ma è di per sé ben lontana dal proporre o dal contribuire concretamente e immediatamente all’abbattimento di un certo ordine e all’edificazione di uno nuovo.
Siti, dopo aver riconosciuto il carattere problematico e sabotatore della letteratura per la coesione sociale, ne prende le parti giustificandola al censore e al moralista come un “male necessario”, la cui presenza è meno nociva della sua assenza. Naturalmente, ha ragione. L’affermazione di Siti può però essere anche rovesciata di segno. Se ogni assetto di potere cerca di consolidare e di mantenere se stesso non solo e non tanto rivendicando la giustezza delle condizioni di vita e delle norme comportamentali che impone o raccomanda a coloro che gli sono soggetti, ma soprattutto convincendoli che queste sono e saranno le uniche possibili, possiamo dire che la letteratura svolge rispetto a questo tentativo di reductio ad unum una preziosa attività di sabotaggio. In quanto linguaggio plurale, capace di accogliere in sé e di lasciare spazio e voce alla contraddizione, alla voce contraria, la letteratura si mostra intrinsecamente refrattaria a farsi irreggimentare nell’ ”ordine del discorso” dei poteri costituiti. Essa è capace di regalare un’esperienza conoscitiva che può rendere problematiche le facili certezze, “le idee ricevute”, le patenti di moralità e immoralità, di bene e male convenzionalmente accettate. Un potenziale che pur essendo di per sé ben lungi dal contribuire a un cambiamento materiale delle forze oggettive che determinano e condizionano la vita degli individui che vi sono sottoposti, pur agendo e rimanendo confinato in interiore homine, resta comunque la condizione oggettiva per la messa in discussione e la relativizzazione di quelle forze.
Certo, è doveroso ricordare che questa possibilità convive nei testi stessi con l’istanza repressiva, che si pone a difesa e consolidamento dell’ordine a cui il ritorno del represso si ribella. La letteratura dà sì voce e dunque riconoscimento al ritorno del represso, problematizzando la “giustizia” di un certo ordine (abbiamo visto il caso di Madame Bovary) o addirittura le forme basiche della civiltà stessa, ma spesso critica anche il ritorno del represso, ne mette in luce le contraddizioni, lo condanna alla sconfitta, ci fa intuire il carattere problematico della sua ipotetica vittoria, e dunque indirettamente rafforza, pur criticandolo, l’ordine costituito. Ciò nondimeno, l’elemento conflittuale (e potenzialmente rivoluzionario) del linguaggio letterario, insito nella sua capacità di introdurre un elemento di novità e di rottura nella visione cristallizzata e immobile del reale – Adorno scriveva che “il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine”[20] – rimane intatto, e mantiene alla letteratura la possibilità di essere un terreno di conflitto che può aprire orizzonti di liberazione.
Quando Pinard accusa il romanzo di Flaubert di essere portatore di cattivi esempi per le donne, di suggestioni pericolose e destabilizzanti, cosa altro fa se non prendere atto di quanto la parabola romanzesca di Emma gli mostra? Al di là dell’intento moralizzatore della sua requisitoria, egli coglie una verità di fondo: il grande potere della letteratura di fungere da strumento di mediazione simbolica del desiderio. Un potere di cui gli scrittori sono consapevoli e su cui riflettono criticamente, come del resto fa lo stesso Flaubert in maniera straordinaria nel suo romanzo. Eppure, anche quando gli scrittori deridono, condannano o comunque prendono le distanze dagli effetti deleteri di questa confusione, di questa indiscernibilità etica e gnoseologica tra realtà e finzione, tra il mondo e l’opera, ce ne mostrano la forza. La persistenza e il rilievo che tale questione riveste negli stessi testi letterari (si pensi all’episodio di Paolo e Francesca in Dante, alla lettura di Ossian per Werther, a Don Chisciotte) è un’ulteriore e decisiva conferma di ciò di cui i censori, anche contro le intenzioni degli autori stessi, si dimostrano ben consapevoli: e cioè che dietro le vesti della finzione, la letteratura parla, riguarda e incide sul mondo.
La frase che Schnitzler fa pronunciare a Fridolin alla fine del suo testo più celebre sintetizza efficacemente gli incubi della censura riguardo alla letteratura: “E nessun sogno […] è soltanto un sogno”[21].
Note:
[1] F. ORLANDO, Risposte a un questionario in Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992, p. 114
[2] E. PINARD, cit. da W. Siti ne Il romanzo sotto accusa in Franco Moretti (a cura di), La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 169
[3] F. ORLANDO, Risposte a un questionario in Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992, p. 102
[4] E. PINARD, cit. da W. Siti ne Il romanzo sotto accusa in Franco Moretti (a cura di), La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 169
[5] Si veda ad esempio quanto scrive a Flaubert una lettrice a proposito dell’ambientazione del romanzo: “[…] ce sont bien là les mœurs de cette province où je suis née, où j’ai passé ma vie. C’est vous dire assez, Monsieur, combien j’ai compris les tristesses, les ennuis, les misères de cette pauvre dame Bovary. D’abord je l’ai reconnue, aimée, comme une amie que j’aurais connue. Je me suis identifiée à son existence qu’il me semblait que c’était elle et que c’était moi!” (Mademoiselle Leroyer de Chantepie a Gustave Flaubert, 18 dicembre 1856 in G. Flaubert, Correspondance II, 654, Bibliothèque de la Pléaiade, a cura di Jean Bruneau, Paris, Gallimard, 1980). E ancora, in un’altra lettera: “[…] j’ai lu beaucoup tout ce qui a été écrit de remarquable depuis trente ans […] mais rien, non jamais rien ne m’a paru aussi vrai, aussi admirable que Madame Bovary. J’ai trop souffert pour pleurer facilement, eh bien, j’ai pleuré trois jours au dénouement de Madame Bovary. Je l’ai aimée comme une sœur, j’aurais voulu me jeter entre elle et son malheur, la conseiller, la consoler, la sauver! Je n’oublierai jamais! Je suis persuadée que cette histoire est vraie!” (Mademoiselle Leroyer de Chantepie a Gustave Flaubert, 26 febbraio 1857 in ibidem, 686)
[6] E. PINARD, cit. da W. Siti ne Il romanzo sotto accusa in Franco Moretti (a cura di), La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 169
[7] Ibidem, pp. 169-170
[8] “Le législateur a inscrit dans nos codes le délit d’offense à la morale publique, il a puni ce délit de certaines peines, il a donné au pouvoir judiciaire une autorité discrétionnaire pour reconnaître si cette morale est offensée, si la limite a été franchie. Le juge est une sentinelle qui ne doit pas laisser passer la frontière. Voilà sa mission.” (E. Pinard, cit. in C. Maubon, Il processo a Les Fleurs du Mal. Storia di un malinteso in R. Francavilla (a cura di), Leggere la cenere. Saggi su letteratura e censura, Artemide, Roma 2009, pp. 59-60)
[9] E. PINARD, cit. da W. Siti ne Il romanzo sotto accusa in Franco Moretti (a cura di), La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 168-171
[10] H. R. JAUSS, Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 201
[11] Ibidem, pp. 201-202
[12] E. AUERBACH, All’hôtel de La Mole in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. Vol. 2, Einaudi, Torino 2000, p. 255
[13] H. R. JAUSS, Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 222
[14] PLATONE, Repubblica, X 605 B-D in Giovanni Reale (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Rusconi, Milano 1991, p. 1315
[15] Si veda A. Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, p. 235
[16] H. R. JAUSS, Storia della letteratura come provocazione, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 197
[17] F. ORLANDO, Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992, pp. 81-82
[18] G. PADUANO, Il testo e il mondo. Elementi di teoria della letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 25
[19] W. SITI, Il romanzo sotto accusa in Franco Moretti (a cura di), La cultura del romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 157
[20] T. W. ADORNO, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 270
[21] A. SCHNITZLER, Doppio sogno, Einaudi, Torino 2002, p. 107
Buongiorno, dal momento che dovrò ritornare sull’argomento letteratura e censura in occasione della tesi di laurea magistrale volevo far presente che consigli, suggerimenti di letture attinenti alla questione e ovviamente osservazioni critiche mi sono senza dubbio preziose, per cui nel caso scrivetemi pure!
Mail: marcorizzo1992@hotmail.it
Caro Marco, la sua prospettiva interpretativa (ho già avuto modo di dirlo) è di estremo interesse e assai originale.
Sul solco di Orlando, ho cercato di fare qualcosa di analogo riguardo alla ricezione del Dialogo di Galileo. La celebre censura del 1633 in effetti coglieva nel segno gli aspetti ‘ironici’ del testo e permette ancora oggi di interpretare (un po’ audacemente) il Proemio come antifrastico. Francesco Orlando scrisse la sua prefazione al mio “Il vero in maschera” (Liguori) dove questa ipotesi serpeggiava.
Per i consigli riguardo al proseguimento del suo lavoro: credo dipendano anche dal corpus che vorrà considerare. Per ora l’impasto critico-teroico di retorica freudiana e di teoria della ricezione mi sembra un dispositivo ben in grado di illuminare i rapporti felicemente strabici fra opera e mondo.